Diceria, o Ercole

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Luciano di Samosata Antichità 1862 Luigi Settembrini Indice:Opere di Luciano voltate in italiano da Luigi Settembrini - Tomo 3.djvu racconti Letteratura Diceria, o Ercole Intestazione 30 aprile 2023 75% Da definire

Questo testo fa parte della raccolta Opere di Luciano voltate in italiano da Luigi Settembrini


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LIV.

DICERIA,

o

ERCOLE.



I Celti danno ad Ercole il nome di Ogmio in lingua loro, e dipingono l’immagine di questo dio assai strana. Per essi è un vecchione con la fronte calva, e tutto canuto negli altri capelli che gli rimangono, la pelle rugosa, arsa e nera, come l’hanno i vecchi marinai. Piuttosto lo crederesti un Caronte, un Giapeto, o uno degl’iddii tartarei, e tutt’altro che Ercole. E benchè di questo aspetto, pure ha le insegne di Ercole; la pelle del leone in dosso, nella mano destra la clava, la faretra pendente ad armacollo, l’arco allentato nella sinistra, e in tutto questo è desso Ercole. Sicchè io credevo che per oltraggio agl’iddii dei Greci, i Celti guastassero così la figura di Ercole, facendo con siffatta pittura una vendetta di lui, che una volta invase e devastò il loro paese, quando cercando i buoi di Gerione, andò scorrendo tra molte genti di ponente. Eppure il più nuovo di quella pittura non l’ho detto ancora. Quel vecchio Ercole tira una gran moltitudine di uomini tutti legati per le orecchie. I legami sono catenelle sottili fatte di oro e di ambra, simili alle più belle collane. E benchè per sì debil modo condotti, essi non pensano di fuggire, e potrebbero facilmente, nè resistono affatto pontano i più mostrandosi restii d’andare innanzi, ma seguono lieti e gioiosi, e applaudiscono il conduttore, sospingendosi tutti, e volonterosi di prevenirlo allentano quel legame, e pare che si dorrebbero se ne fossero sciolti. Ma la cosa che mi parve più strana di tutte, ve la voglio anche dire. Il pittore non avendo dove attaccare gli altri capi delle catenuzze, perchè nella mano destra il dio tiene la clava, e nella [p. 86 modifica]sinistra l’arco, gli forò la lingua in punta, e così dipinse che ei li tira, e volge ad essi la faccia, e sorride. Questo quadro io stetti un pezzo a riguardare tra la maraviglia, l’incertezza, e il dispetto. Ma un Celta lì presente, e delle nostre lettere non ignorante, come dimostrò parlando bene il greco, forse un filosofo di quei paesi: Io, disse, o forestiere, ti scioglierò l’enigma di questa pittura, che mi sembri molto impacciato per essa. Il parlare noi altri Celti non crediamo, come fate voi Greci, che sia Mercurio, ma lo rassomigliamo ad Ercole, perchè questi è molto più forte di Mercurio. E se qui è rappresentato vecchio, non ti sia maraviglia; perchè soltanto il parlare mostra in vecchiezza la sua piena forza e maturità, se dicono vero i vostri poeti, che

          La mente dei garzoni è sempre in aria;

ma il vecchio

          Sa dire qualche cosa più sennata
          Che i giovani non sanno.

Così ancora dalla lingua del vostro Nestore scorre il mele; e gli oratori dei Troiani mandan la gigliata voce, che vuol dire fiorita, che gigli, se ben mi ricorda, voi dite ad una specie di fiori. Onde se questo vecchio Ercole, che è il parlare, tira con la lingua gli uomini legati per le orecchie, neppure te ne dèi maravigliare, sapendo la parentela che v’è tra le orecchie e la lingua. Nè questa gli è stata traforata per fargli ingiuria. Che io mi rammento, diceva egli, anche di certi giambi di una commedia, che udii tì-a voi.

                    I chiacchieroni tntti
          Hanno in punta la lingua traforata.

Insomma noi crediamo che questo Ercole abbia fatto ogni cosa col parlare, essendo egli un sapiente, ed abbia vinto tutto con la persuasione. E le sue saette sono le parole, acute, dirette, veloci, che feriscono l’anima: infatti anche voi dite che le parole sono alate.

Così il Celta. Ed io quando sul venire qui ripensava tra me se mi stesse bene, in questa età che sono e avendo da un [p. 87 modifica]pezzo dismesse queste declamazioni, di nuovo cimentarmi innanzi a tanti giudici, opportunamente mi venne ricordato di quella immagine. Che fino allora avevo temuto non paresse ad alcuno di voi che io fo cose convenienti ai giovanotti, e in vecchiaia torno alle fanciullerie: e poi qualche omerico giovane non mi sgridasse, dicendomi quei versi:

               La tua forza è disfatta,
          La molesta vecchiezza già ti ha colto,
          Fiacco è l’auriga, e i corridor son lenti.

chiamando così i piedi per celia. Ma quando ripenso a quel vecchio Ercole, mi spingo a fare ogni cosa, e non mi vergogno che ardisco tanto, benchè io abbia gli anni di quella figura. Onde e forza, e sveltezza, e bellezza, e quanti altri beni ha il corpo, vadano pur via; ed il tuo Amore, o poeta di Tejo, Me veggendo incanutito, con quell’ali orolucenti, Via com’aquila sen voli, come gli pare, che io non me ne curo più. Ma il parlare vorrei che ora specialmente mi ringiovanisse, fiorisse, invigorisse, e tirasse per le orecchie quanti più è possibile, e scagliasse frequenti le sue saette, non essendovi timore affatto che mi resti vuota la faretra. Ecco come io mi conforto nell’età e nella vecchiezza in cui sono. E per questa cagione ho ardito di ripingere in mare la mia barchetta, che già da tempo era tirata in terra; e rifornitala alla meglio, mi sono rimesso in mezzo al pelago. Deh, spirate propizi, o Dei; che ora specialmente abbiam bisogno di buon vento che ci favorisca e gonfi la vela; acciocchè, se mai ne parremo degni, taluno dica ancelle a noi quel verso d’Omero:

          Oh! quai fianchi tra i cenci mostra il vecchio!1


Note

  1. Ulisse tornato a casa sua vestito da mendico e sconosciuto, mentre s’apparecchia ad una lotta, si spoglia dei cenci che indossava, e mostra le robuste membra. Allora i proci che lo riguardano esclamano, dicendo questo verso.