Discorso intorno al Fior di Rettor di fra Guidottoica

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Bartolommeo Gamba

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DISCORSO


premesso all'edizione del fiore di rettorica


DI FRA GUIDOTTO


da bologna


Pubblicato per cura dell'Autore in Venezia,

Tipografia di Alvisopoli, 1821, in 8.

[p. 277 modifica] va per le mani di tutti i letterati l'Apologia dell'Amore Patrio di Dante che il conte Giulio Perticari ha con tanto onore del nome suo mandata a luce, e chiunque discreto uomo sia, né voglia cercarne col fuscellino i difetti, dee ammirare il sommo ingegno del valoroso autore ed il diritto suo ragionare. Dopo di aver egli vendicato Dante dell'oltraggio fattogli da chi pensa lui avere per odio contra Firenze scritto il suo Trattato della volgare eloquenza, e dopo di aver mostrato vere le dottrine di quel Trattato, ci fa conoscere che nelle leggiadre corti di Federico e di Manfredi si cominciò a scrivere il volgare comune; che gli altri Italici lo coltivarono per innanzi; che la Università di Bologna molto contribuì a renderlo illustre, e che toccò spezialmente alla Toscana a nutrirlo, e per la copia de' suoi gloriosi uomini a renderlo da per tutto famoso. E siccome è fuori di dub[p. 278 modifica]

bio che l’eloquio gentile, simile ad ogni altra bella disciplina, ferma volentieri sua sede dove hanno stanza ferma i mecenati e i sapienti, de’ quali erano già ben provvedute nel dugento Palermo e Napoli e Roma, e nel principio del trecento Bologna, e subito dopo lo fu la patria dell’Alighieri, così ogni non prevenuto animo par che abbia a trovare senza riprensione la sentenza del Perticari. Ora in questa sua bella opera, dove dei Bolognesi egli parla, toccando alcuna cosa dei loro prosatori, non esita a porre tra le più, nobili scritture italiane, sì per l'antichità come per la bellezza, la Rettorica di Tullio, di Guidotto da Bologna, da lui intitolata a Manfredi re in mezzo il dugento, cioè prima che nascesse Dante, e quando il rozzo Guittone era ancor giovinetto. E per darci alcun esempio di questo antichissimo volgare egli ci offre un brano della Prefazione, tolto da rarissima impressione del quattrocento, che si conserva nella Casanatense di Roma. Per lo affetto particolare, che da lunga stagione io porto all’edizioni de’ primi testi della nostra favella, sono io pur possessore di questo libro, e la sentenza del Perticari grandemente m’induce a riconsegnarlo alla luce. Nel man[p. 279 modifica] dare, come ora fo, ad effetto questo proposito mio, giudico non inutile il preporvi alcuna osservazione, la quale discorra e sull'autore della vecchia scrittura, e sul modo con cui parecchi altri lo rendetttero già di pubblico diritto, e su quello con cui io dommi a fare lo stesso oggidì, e sul conto, al fine, in che può aversi tale operetta. Accorgimento non poco sembrami che occorra anche in questo genere di minuti studi a fine di condurre chi legge ad essere, per quanto può farsi, debitamente istrutto. In parlando di ciò che risguarda l'autore, debbo intanto osservare che molto scarse e molto poco accurate notizie di lui ci giunsero, quantunque si trovi ricordato con reverenza da Lionardo Salviati, dagli Accademici della Crusca, da Scipione Maffei, dallo Zeno, dal Tiraboschi, dal Morelli, dal Ginguené, e poscia da tanti altri letterati di minor nominanza. E cominciando dal titolo e dal nome proprio, ora lo vediamo rammentato come Padre maestro Guidotto o Galeotto, ora come messer Fra Galeotto Guidotti nobile Bolognese; e chi lo vuole frate Domenicano, e chi lo vuole frate Godente. Gli antichi codici debbono [p. 280 modifica]

reputarsi la più sicura scorta per non prendere errore sul vero suo nome, ed in quelli di Firenze, ricordati dall'Argelati, ed in quelli della regia Biblioteca Marciana in Venezia, da me presi in esame, mancano e i doppj nomi e i doppj titoli, né altro vi si legge fuorché: Frate Guidotto da Bologna. L'aggiunta di Galcotto io tengo per incontrastabile che derivi da errore d'impressione corso nella intitolazione fattasi nella sopraccennata stampa del libro, in quella stampa il cav. Lionardo Salviati, prima di ogni altro, poté esaminare. Noi vedremo appresso di quante gofferie essa sia zeppa,m ed intanto non fia temerario il giudicare che chi in una facia scrisse faccenda per vicenda, francia per lancia, patto per piatto, non possa avere scritto Galeotto per Giudotto. E tanto più questo avviso si ringagliardisce quanto che né due Proemj che la stampa stessa racchiude, e dove l'autore ricorda sé medesimo, niun altro titolo e nome egli si dà fuorché quello di Fra Guidotto, come appunto né codici si riscontra. Chi sa poi che non foss'egli un parente di quell'Ansidio Guidotto, nipote del tiranno Ezzelino, che fu crudelissimo podestà di Verona nell'anno 1250, e di cui parla il [p. 281 modifica]

Sismondi nella sua Storia delle Repubbliche Italiane? Il P. Sarti, nell'accurata sua opera intorno a' professori della Felsina Università, scrive che la famiglia Guidotti era indigena di Bologna, trapiantatasi a Roma, ma che di frate Guidotto niente v'ha di sicuro: certi nihil statui posse arbitror. Sbattezzato che avrem Guidotto, talché perda il nome di Galeotto, dove il collocheremo noi? Nella schiera dei frati Domenicani o in quella dei frati Godenti? sotto il vessillo dell'ordine dei Predicatori lo hanno posto i PP. Quetif ed Echard, perché un codice della Rettorica da essi veduto nella Biblioteca dell'Annunziata in Firenze aveva la prima lettera iniziale con dipintovi un fraticello vestito di tonaca tutta bianca, con sopr'essa un mantello di color cinerizio; e quindi sospettarono che l'autore del libro essere potesse un padre maestro Domenicano. Ma anche altro illustre letterato., l'abate Mehus, osservò altro codice col fraticello dipinto con vesta bianca e di color cinerizio, e per queste insegne giudicò bene di allogarlo fra i frati Godenti; e il cav. Tiraboschi si accomodò all'avviso del Mehus, perché un Bolognese, il secentista Ovidio Montalbani, onorò fra [p. 282 modifica] Guidotto del titolo di nobile e di cavaliere. Ma la miniatura di un codice e l’asserzione di assai poco critico scrittore mi paiono puntelli troppo fievoli; e può forse indebolire il ragionamento del Tiraboschi anche il sapersi che l’opera fu scritta forse prima dell’anno 1260, e che non avanti quest’anno i frati Godenti posero loro sede in Bologna. In ogni modo poco importerà che Guidotto fosse o Domenicano o Godente, e basterà esser certi che non gli vada tolta dagli omeri la cocolla, perchè frate si chiama egli stesso nello scrivere il suo proprio nome.

Quell’Ovidio Montalbani dee avere condotto anche il grande Maffei ad annunziare l’opera con inesattezza, così leggendosi nel suo libro dei Traduttori Italiani: La Rettorica ad Erennio da Galeotto Guidotti, trasportata nel 1257, stampata in Bologna nel 1473 e nel 1658. Non è la Rettorica ad Erennio; improprio è il nome di Galeotto Guidotti; non si può asserire che sia stata trasportata nel 1257; molto meno stampata in Bologna nel 1478. E basti qui intanto osservare come non abbia solida base quel determinato anno 1257. Nella ristampa bolognese dell’anno 1658 l’editore Montalbani fa dire allo stampatore [p. 283 modifica]

Manolessi, che la sua edizione è copia di quella fattasi nel 1478, di cui ci dà il titolo come segue: Rettorica nuova traslatata di latino in volgare per lo eximio maestro de l’arti liberabili fra Galeotto Guidotti, nobile cavaliere da Bologna l'anno del Signore 1257. Che questa intitolazione non sia punto così, lo si potrà scorgere nella fedele mia ristampa dove non è fatto cenno alcuno di millesimo. Tuttavia non andò troppo lungi dal vero chi assegnò il 1257 per l’anno in cui fu dettata l’opera, giacché la Rettorica è fuor di dubbio dall’autor suo indirizzata al re Manfredi di Sicilia, e il re Manfredi cominciò a prendere le redini del governo nell’anno 1254, e per morte le depose nel 1265, ovvero nel seguente; quindi in questo mezzo certamente l’operetta si scrisse e si divulgò.

Le pazienti indagini fatte dal P. Iacopo Maria Paitoni risparmiano a me i confronti per far conoscere che questo libro non è propriamente un volgarizzamento della Rettorica di Marco Tullio. Ognuno sa che i nostri buoni antichi erano per lo più grossi ed ignoranti in fatto di traduzioni, e che di loro capriccio le rivestivano. I volgarizzamenti di Esopo, della Eneide, degli Amori del Sulmonese, [p. 284 modifica]

quello delle Pistole trasportate da quel ser Bocca di Lampana, tanto scardassato dall’illustre cav. Vincenzo Monti, e tanti altri, sono ombre di un corpo. Non lo stesso, ma peggio di casi della Rettorica scritta da fra Guidotto, mentr’egli si contentò di dare un immaginato Compendio o Ristretto dei Libri non ad Herennium, ma de Inventione, Compendio che neppur segue sempre le vestigia dell’Oratore romano. Mal a proposito si è dunque scritto la Rettorica di Tullio, e la vera denominazione l’ha data frate Guidotto medesimo, il quale nel suo Prologo scrisse: Io ho compilato questo Fiore di Rettorica nella ornatura di Marco Tullio; vale a dire: Io ho unito insieme la parte più scelta dell'arte di ben dire, ed holla rivestita degli abbellimenti che le dà Cicerone. Se io dunque, diversamente dagli Accademici della Crusca, ho prescelta nel libro la denominazione di Fiore di Rettorica di frate Guidotto da Bologna, parmi avere ciò fatto con evidente e salda ragione, ne spiacerà poi, spero, ch’io abbia lasciato al libro quel suo natural distintivo che pur era molto in voga a’ tempi antichi, spesso scrivendosi allora fiore di virtù, fiore di parlare, fiore di cavalleria, ecc. [p. 285 modifica]

Ad altra osservazione m’invita la natura del mio assunto, volendo io alcuna cosa dire su quel brano di prefazione di quest’antica scrittura datoci dal Perticari. E' fuori di dubbio che se per vetustà e leggiadria egli bene la giudicò scrittura nobile, resta poi sempre a definirsi quale essa veramente uscisse dalla penna di frate Guidotto; e la buona coscienza di sì illuminalo scrittore dovea almeno metterlo in dubbiezza intorno alla scelta dell'esemplare ch’egli ci ha porto. Perché mai, anziché togliere la sua copia o dagli smozzicati frammenti che primo pubblicò Iacopo Corbinelli in Lione nel 1568, o dal testo che sopra due vetusti codici collazionato ci diede Domenico Maria Manni, amò egli trarla da una stampa, la quale l’Infarinato non ha avuto tutto il torto di giudicare scorrettissima di tutte, intanto che in altro linguaggio si può dire quasi che sia trasfigurata? Questa stampa dee essersi fatta verso il 1478, e il Cavaliere erudito dovea ben sapere quanto poco fosso amato il parlar gentile sul finire del secolo xv, e di quanti arbitrj solessero allora rendersi colpevoli gli editori de' volgari libri, specialmente non toscani. Oltrechè, senz'altre argomentazioni, al solo svolgere un [p. 286 modifica]

po’ attentamente alcune facce di quel libro poteano saltargli all’occhio assai presto le molte sue scorrezioni, e farnelo diffidente. Ma questa inavvertenza non sarà poi altro che un peccatuccio che resta a gran dovizia purgato e cancellato dalle tante altre sue santissime letterarie virtù.

Ma prima la trave dell'occhio suo, che la festuca di quel del prossimo, dee l'uomo trarre, scriveva quell’allegro vecchio di Franco Sacchetti, ed io avrò bisogno di questa evangelica correzione ora che parlerò dell’opera da me prestata per far rivivere fra Guidotto. Sappia se non altro il lettore di quali mezzi mi sono provveduto, e come il mio, qualunque siasi, lavoro è oggidì consegnato alla stampa.

Tre differenti codici di questo libro si serbano nella regia Biblioteca Marciana, ma tutti molto diversi tra loro, che già tali opere si trasformavano ogni giorno, e ogni copiatore cercava di farle sue. Due furono i codici esaminati in Firenze dal Manni, scritti nel 14oo e nel 1410, ne’ quali però non trovasi nominato mai fra Guidotto, ed il leggersi in uno di essi questa postilla: Libro recato a certo ordine per messer Bono di messer Giambono [p. 287 modifica]fece al Manni conghietturare che o messer Bono od altro messer Iacopo Giambono fosse l’autore dell’operetta. Di altri codici si trovano notizie nel Paitoni, nell’Argelati, nel Fantuzzi. Ora dovendo io tener dietro ad una principale scorta, mi sono attenuto a quello scritto nel xiv secolo col nome dell’autore frate Guidotto, codice incomparabilmente superiore in bontà agli altri nella Marciana nostra esistenti. Sta segnato col numero xxi della classe x, fra gl’Italiani, ed era già posseduto dal Farsetti. Quantunque il carattere sia non poco difficile a diciferarsi, per longevità di tempo, per ordine e copia di materia, per purità di favella è certamente pregevolissimo. L’accennata prima edizione senza alcuna nota di luogo, di anno e di stampatore non mi è stato punto inutile, giacchè quantunque spropositata nella correzione e colla tela delle parole rotta frequentemente dalla scioccheria del copista o da quella dello stampatore, nulladimeno la materia è increate al codice xxi, e lo supplisce eziandio in qualche luogo. Avvertasi che di quest’edizione avvi un esemplare anche nella Marciana, in fine del quale sta impresso l’anno mcccclxxviii, ma questo millesimo, ch’è affatto fuor di linea, si vede [p. 288 modifica]

esservi stato senza dubbio aggiunto a mano, sicché non è da moltiplicarsi il numero dell’edizioni, e l’accennata qui sopra resta sempre la principe. Domenico Maria Manni pubblicò l’accennato suo testo dopo l'Etica di Aristotele nella stampa fattane in Firenze nell’anno 1734 in 4, ma l’ordine della scrittura si trova sconvolto, e qua e là sono ora lacune, ora addizioni, ora le cose medesime in vario modo espresse: però la favella, quantunque ripulita dagli antichi menanti Toscani, o caricata di qualche arcaismo, di cui ho tenuto nota, ma non ha grande diversità da quella del codice xxi della Marciana.

Ora il codice Marciano xxi, la prima stampa, il testo Manni, furono le sole mie guide nel collazionare la presente nuova edizione. Seguitando il codice ho creduto di sostituirvi tal volta la lezione tolta dagli altri due miei esemplari, non senza però farne il lettore avvertito colle varianti segnate a piè di ogni faccia, dove altre varianti ancora egli troverà, non meno che quo’ cenni che poteano meglio importare a qualche utile notamento nelle cose della lingua.

Nel tre esemplari suddetti si trovano intitolazioni affatto irregolari e quello che mag[p. 289 modifica]giore imbarazzo recasi è, che molte volte il copista o lo stampatore passano di secco in secco e senz’alcuna pausa, da uno in altro ragionare. Ho creduto non riprovevole arbitrio quello di distribuire il libro in quattro Trattati, la qual divisione è additata dalla materia stessa, e di aggiugnere quel titolo o quella dichiarazione di ogni paragrafo che con disordine soltanto stanno contrassegnati nei tre esemplari suddetti. Non ho mancato di trascrivere per intero le poche addizioni che offre il testo Manni, il che importa ad ottenere che l’edizione presente non lasci in desiderio e in bisogno della Fiorentina. Il codice, e peggio ancora l’antica stampa, non ha ombra di grammaticale ortografia, ed il testo Manni, all’opposto, è inabissato in un mare d’interpunzioni che recano più bujo che luce. La interpunzione è forse la parte più difficile ad afferrarsi da un editore, mentre i segni ortografici sono la guida della mente, e quando giacciono mal collocati stravolgono affatto i concetti, sicchè il cavalier Monti ben a diritto sentenziò che questi segni non sono punto pedanterie, ma spie sicure di ciò che si cela sotto la cupola del cervello. Io ho adottate quelle misure che mi parvero meglio [p. 290 modifica]opportune alla pronta intelligenza e chiarezza della scrittura, e desidero di non essermi ingannato.

Le diligenti edizioni sogliono avere l’ornamento di un indice di tutte quelle stampe che precedentemente si sono fatte, e nel caso nostro restano meglio arricchite quando offrano anche l’indice dei codici che possano essere conosciuti. Siccome però ad ottenere questo intento avrei dovuto, quanto a’ codici, prendermi molta briga per conoscere quello che non è stato notato dagli scrittori; e quanto all’edizioni non avrei che impinguato il libro di notizie di poco o niuno interesse, così confido d’essere scusato dell’avermi evitata siffatta noia, e tanto più che l’edizione principe e le stampe fatte colle cure del Corbinelli e del Manni penso che sieno le sole buone e valutabili. Avrei bene desiderato di soddisfare la mia curiosità coll’esame della più volte rammentata edizione dataci dal Montalbani in Bologna nel 1658 in 12, ma non essendomi riuscito di averla sott’occhio, per le cose già osservate, mi arrischio di giudicarla affatto infruttuosa. Quel caro signor Ovidio Montalbani non potea fiutar bene entro alla tramoggia, egli che intitolava i soprabbondanti [p. 291 modifica]

suoi libri la Cronoprostasi, la Riposcopia, la Comenscopia la Brontologia, e ch’era un lettore di matematiche incaricato, dice il suo biografo, di formare il taccuino de' giorni propizj o avversi al cavar sangue e al purgarsi. Mi sono proposto di dire alcuna parola anche del conto in che può aversi queste Fiore di Rettorica, ed accomi qui da ultimo a liberar la mia fede. Altra cosa che i Gravina, i Genovesi, I soave del decimottavo secolo erano i Guidotti, i Guiottoni, i Brunetti del secolo decimoterzo; e 'l nostro Autore, che nel primo de' suoi Proemj loda Marco Tullio perché era grande della persona e ben fatto di tutte membra a d'arme maraviglioso cavaliere, e il suo menante che nel Proemio premesse al terzo Trattato malmena il Frate come briace, perché ha ripetuto in due luoghi le stesse lezioni, e giudica che il lettore non abbia studiato mai libro, se non come fanno i fanciulli che rincorrono l'abbiccì e 'l Deus in nomine, sono certamente uomini cotali che non possono oggidì aggiungner lume alla chiarezza nei nostri intelletti. Ma in ogni tempo si sono venerate le preziose memorie prime, e 'l continuare a farlo sarà sempre indizio di civiltà nazionale [p. 292 modifica]

e di patrio attaccamento. In mezzo poi ai moderni contrasti sulle cose della favella noi abbiamo veduto gl’italici nostri combattenti più illustri, Cesarotti e Napione, Cesari e Monti, Perticari e Lampredi, trovarsi d’accordo nel dogma, che senza dare opera allo studio de’ buoni vecchi non si giugnerà mai al pieno conseguimento della purità di quella lingua che fu da costoro maravigliosamente fondata e scritta. Ora frate Guidotto sarà valutato tanto più reverendo quanto che, quantunque nato fuori del suolo toscano, n'è stato uno de’ primi babbi, ed il suo eloquio non si troverà senza giudizio e sapere, né si vedrà imbastardito di quegli arcaismi che possono supporsi soltanto proprj di un popolare dialetto. Se il rendere questa sua scrittura di più universale conoscenza non sarà, come confido, tempo perduto, non sarà né meno discaro ch’io dia termine a questa Prefazione, ricopiando alcune similitudini, sentenze, frasi e leggiadre immagini che trovansi sparse per entro il libro, e che, quantunque cariche ormai di circa cinquecento e sessanta anni di età, appajano ancora fresce e rugiadose. [p. 293 modifica]

Sentenze.


Tuttochè la regale pecunia sia mantello, lo quale molti vizj ricopre fra le genti, non fa ricoperta di colai che non sa ben dire. Cart. 6.

Senza la favella sarebbe la bontà come uno tesoro riposto sotterra, che, se non è saputo, più che terra non vale. Cart. 7.

Il domandare spesse volte delle cose dubbiose è una delle cinque chiavi della sapienza. Cart. 17.

Niuna cosa più presta che lagrima si secca.Cart. 52.

Pacifico si mostra a’ nimici, aspro agli amici. Cart. 57.

Colui si dee libero chiamare che non è servo di alcuna bruttura. Cart. 61.

Non solamente è povero colui che ha poco, ma colui che saziare non si puote. Cart. 61.

Malamente errano coloro, che quando sono in grande stato credono avere fuggita la ventura; ma quegli si porta saviamente, che nelle prosperevoli cose pensa dinanzi come la ventura si può mutare. Cart. 62.

La bellezza del corpo o disfassi per male che abbia, o tolsi via per vecchiezza. Cart. 73. [p. 294 modifica]

Quella che non piovve dal cielo rimale suso. Cart. 82. Proverbio da usarsi quando uno, dopo avere ripreso altri alla 1ibera, mitiga poscia l’acerbità con qualche lode.

Savii debbono essere tenuti coloro che per fare salva la città loia non ischifano pericolo ne fatica niuna. Cari. 92.

Nè 'l puledro non domato, avvegnaché sia buono, può essere acconcio a quella utilità che l'uomo desidera del cavallo; nè l'uomo non usato, avvegnaché sia ingegnoso, può essere di molta bontà. Cart.95.

Similitudini.


La favella di un dissennato è come uno coltello aguto e tagliente in mano d'uno furioso. Cart. 6.

L’ordinare della favella è di tanta virtù nel dire, che dicono i saii che così dà vittoria nel suo intendimento, come le schiere de' cavalieri ben composte e ordinate fanno vincere al signore le battaglie. Cart. 26.

Quell'oratore che senza proemio viene incontanente al fatto, è avuto come colui che vien lotoso a mangiare, e ponsi al desco, e non si lava le mani. Cari. 29. [p. 295 modifica]

Com'è da riprendere colai che, quando naviga, più avaccio la nave che le persone intende a salvare, così di colui è da fare beffe e scherno, che in sul grande pericolo più provvede al suo salvamento che a quello del comune, perché spezzata la nave, inulti ne possono campare, ma quando perisce il comune non ne campa veruno. Per la qual cosa possiamo dire che Decio si portò saviamente, che per campare la città sua si mise alla molte ed a ferire i nimici. Per vil cosa e per piccola grazia ricomperò una grande; diede la vita e fece salvo il paese; partissi l'anima e accattò gloria a onore; il quale non menoma, ma sempre cresce ed inforza. Cart. 91.

Questo luogo non è da tutta la quistione, siccome uno membro sceverato, ma, siccome sangue, per tutto il corpo della quistione è sparto. Cart. 93.

Come colui che piglia il pennone per correre nel prato, di colui che ha corso, corre meglio, così il podestà nuovo, che piglia la signoria, del vecchio e migliore, perché affaticato colui, che ha corso, rende il pennone a un altro, che corre, ma il podestà già usato rende la signoria al nuovo. Cart. 94 [p. 296 modifica]

Come il giullare che si leva in piede per giocare perché ha una bella persona, è di sciamito e di un bel drappo ad oro vestito, ed ha uno bel capo biondo e pettinato con bella corona e ghirlanda in testa, e tiene in mano un maraviglioso stormento, tutto dipinto e lavorato di avorio, e per le dette cose corrono molte genti a vedere e aspettano di vedere uno bellissimo giuoco, e stando ogni uomo cheto e attento comincerà questi a cantare con una voce fioca e con uno bruttissimo modo, e sconciamente menerà le anche e i piedi e le mani quando verrà a ballare; quanto più sarà stato acconcio e guardalo dinanzi, cotanto sarà fatto di lui maggiore beffa e scherno, così quando l'uomo sarà più ricco e gentile, e avrallo la ventura messo in grande stato, se in sé non avrà senno e larghezza e bontà, quanto pili sarà guardalo per le cose, che sono in lui, tanto più sarà schernito e avuto in dispregio e cacciato dalla usanza de’ buoni.

Questi spesse volte va per mezzo il mercato ricciuto come un drago, con una guardatura rabbiosa, con un animo avvelenoso, di qua e di là guardandosi d’intorno se vedesse alcuno, cui potesse col fiato appuzzare [p. 297 modifica]

colla bocca mordere e co’ denti squarciare. Cart. 99.

Costui quando rizza il mento in parte alcuna, sempre crede da tutta gente esser guardato, come se fusse pietra preziosa bellissimo oro rilucente. Cart. 101.


Buone definizioni.


Diligenza è una sollecitudine in sapere suo ben guardare, ma avarizia è uno ingiurioso desiderio dello altrui. Cart. 69.

Follia è uno apprendimento di fatiche e di pericoli, non considerando che del fatto si può seguitare. Cart. 69. Della divisione delle voci, e sopra quante voci si dee dire. Cart. 121. Questo capo, e gli altri tre seguenti sul modo di pronunziare le parole, di cambiare il tuono della voce e di gestire sono di qualche importanza, mentre esprimono con chiarezza alcune cose non facili a dirsi.

Prudenza è uno sottile scaltrimento, per lo quale si muove l'uomo per diritta ragione a conoscere il bene dal male. Cart. 136.

Giustizia è una ferma volontà d'animo per la quale l'uomo si muove a rendere la ra- [p. 298 modifica]

gione sua a ciascuno, secondo l'essere sua. Cart. 138.

Fortezza è una ferma volontà di animo, per la quale si muove l'uomo a desiderare le cose grandi e a dispregiare le cose vili e ad essere sofferente delle fatiche e dei pericoli. Cart. 140

Darò termine a questo Discorso col riportare un brioso racconto, che può risguardarsi siccome una Novelletta. Leggesi al Capit., 103, dove si parla del Sermonare:

Nel tempo che Roma aveva molti cavalieri forestieri, e ogni uomo stava rinchiuso in casa per paura, venne Saturnino, tutto armato a ferro, con un grande tavolaccio e con uno spiedo in mano e con cinque grandi fanti, tutti armati, e com’egli subitamente entrò nella casa di Salamone, a gran voce cominciò a gridare: Ov’e questo Signore della casa, ch'è stato colate anziano? ov è? insegnatelmi tosto; ove l'avete nascosto? E stando cheto ognuno per paura, venne la moglie di Salamone con gran pianto, e gittoglisi ai piedi, e disse: Per amore di Dio e per amore di te e per amore di qualunque cosa che più ami in questo mondo, abbi misericordia di noi, non uccidere noi, inabissati che semo, [p. 299 modifica] distrutti e disfatti; potrai benignamente: quando se' in grande stato ricordati che sei uomo e che noi medesimi già fummo beati. E Saturnino disse: Madonna, il vostro piangere non importa a niente; bisogno fa che noi il troviamo, e delle nostre mani non può scampare. In questo mezzo è detto a Salamone, come Saturnino è venuto, e a gran voce il minaccia di metterlo a morte. E, intese queste parole, Salamone disse alla balia sua: Sofia mia buona, abbi buona guardia de' figliuoli miei; partiti e mena teco i fanciulli, e fa che possino campare dalle mani di costui. Appena ebbe queste parole compiute di dire, che venne Saturnino e disse: Arrenditi, baccalare, se no, sé morto: di tutto ciò che m'hai fatto piglierò oggi vendetta, e l'ira mia sazierò del tuo sangue. Rispose Salamone, non potendo appena riavere l'alito per la paura che aveva: Uccidere mi puoi tu, ma vivo non mi arrenderò io a te. E Saturnino disse: In sulla morte ti vedi, e ancora meni rigoglio? Allora rispose la moglie di Salamone e disse: Anzi si arrende e chiamati mercé, che tu gli perdoni, onde ti prego che tu abbi misericordia di lui, e vinci la mala volontà e rendigli [p. 300 modifica]

pace. E Salamone disse: Donna, perché dì tu cose che non sono convenevoli a dire? taciti, e quello che hai a curare, cura; che se questi mi offenderà in persona, sicuro è che mai non li sia rimesso, e non avrà mai vita sicura. E Salamone scacciò da sé la moglie, che si lamentava per lui, e Saturnino, non so che dicendo di suo vantamento, venne contra a lui e miselo a morte.