Epistole (Caterina da Siena)/Lettera 1

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A Gregorio XI. - Lettera 1

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Orazione Lettera 2
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A GREGORIO XI. 1


I. |||
Del cognoscimento di sè stesso.|||
II. |||
Dell’amor proprio e de’ danni che partorisce.|||
III. |||
Del modo di estinguerlo, cioè, della carità, e come a questa si pervenga.|||
IV. |||
Conforta il papa a non temere, ed a sollecitare il ritorno a Roma.|||
V. |||
A sovvenire i Lucchesi ed i Pisani, acciò essi non si uniscano co’ ribelli.|||
VI. |||
L’esorta a promuovere gli uomini virtuosi.|||
VII. |||
E a dare un buon Vicario all’Ordine de’ Predicatori.|||


Lettera prima

Al nome di Jesù Cristo crocifisso e di Maria dolce 2.


I. A voi, reverendissimo e dilettissimo padre in Cristo Jesù 3, la vostra indegna, misera, miserabile figliuola Catarina, serva e schiava 4 de’ servi di Jesù Cristo, scrive nel prezioso sangue suo, con desiderio di vedervi uno arbore fruttifero, pieno di dolci e soavi frutti e piantato in terra fruttifera: perocchè se fosse fuora della terra si seccarebbe e non farebbe frutto; cioè, nella terra del vero cognoscimento di voi. [p. 2 modifica]Perocchè l’anima che cognosce sè medesima s’umilia; perocchè non vede di che insuperbire, e nutrica in sè il frutto dolce dell’ardentissima carità, cognosceudo in sè la smisurata bontà di Dio e cognoscendo sè non essere, ogni essere che ha, retribuisce poi a colui che è 5. Unde allora pare che l’anima sia costretta ad amare quello che Dio ama ed odiare quello che egli odia.

II. O dolce e vero cognoscimento, il quale porti teco il coltello dell’odio, e con esso odio distendi la mano del santo desiderio a trarre ed uccidere il vermine dell’amore proprio di sè medesimo, il quale è uno vermine che guasta e rode la radice dell’albore nostro, sì e per sì fatto modo, che neuno frutto di vita può producere, ma seccasi e non dura la verdura sua; perocchè colui che ama sè, vive in lui la perversa superbia, la quale è capo e principio d’ogni male in ogni stato che egli è, o prelato, o suddito: che se egli è solo ed è amatore di sè medesimo, cioè che ami sè per sè, e non sè per Dio, non può far altro che male, ed ogni virtù è morta in lui. Costui fa come la donna che partorisce i figliuoli morti; e così è veramente, perchè in sè non ha avuta la vita della carità, ed attendette solo alla loda ed alla gloria propria, e non del nome di Dio. Dico dunque, se egli è prelato, fa male, perocchè per l’amore proprio di sè medesimo, cioè, per non cadere in dispiacimento delle creature, nel quale egli è legato per piacimento ed amore proprio di sè, muore in lui la giustizia santa; perocchè vede commetterò i defetti e’ peccati a’ sudditi suoi, e pare che facci vista di non vedere e non gli correggere, o se pur li corregge, li corregge con tanta freddezza e tiepidità di cuore, che non fa cavelle 6; ma è uno rampiastrare il vizio, e sempre teme di non dispiacere e di non venire in guerra: tutto questo è, perchè egli ama sè, ed alcuna volta è che essi vorrebbero fare, pur con pace, io dico che questa è la più pessima crudelità che si possa usare; se [p. 3 modifica]la piaga quando bisogna non s’incende col fuoco e non si taglia col ferro, ma ponesi solo l’unguento, non tanto che egli abbi sanità, ma imputridisce tutto e spesse volte ne riceve la morte. Oime, oimè, dolcissimo babbo mio 7, questa è la cagione che li sudditi sono tutti corrotti di immondizia e di iniquità: oimè, piangendo il dico; quanto è pericoloso questo vermine detto, che non tanto che dia la morte al pastore, ma tutti gli altri ne vengono in infirmità ed in morte; perchè seguita costui tanto unguento? perchè non ne li vien pena, perocchè dell’unguento che pongono sopra gl’infermi non ne li cade dispiacere neuno, nè neuno malevolere, perocchè non ha fatto contra la sua volontà, perocchè egli volea unguento ed unguento gli ha dato. O miseria umana: cieco è lo infermo che non cognosce il suo bisogno, e cieco è il pastore che è medico che non vede, nè riguarda se non al piacere ed alla sua propria utilità; perocchè per non perderlo, non ci usa coltello di giustizia, nè fuoco dell’ardentissima carità; ma costoro fanno come dice Cristo: che se uno cieco guida l’altro, ambidue ne vanno nella fossa (Matt. 14) e l’infermo ed il medico ne vanno all’inferno (Luc. 6). Costui è dritto pastore mercenajo, perocchè non tanto che esso tragga le pecorelle sue di mano del lupo, egli è divoratore d’esse pecorelle; e di tutto questo è cagione, perchè egli ama sè senza Dio; unde non seguita il dolce Jesù pastore vero, che ha dato la vita per le pecorelle sue. Bene è dunque pericoloso in sè, ed in altrui questo perverso amore, e bene è da fuggirlo, poichè ad ogni generazione di gente fa tanto male. Spero per la bontà di Dio, venerabile padre mio, che questo spegnerete in voi e non amerete voi per voi, nè il prossimo per voi, nè Dio, ma ameretelo, perchè egli è somma ed eterna bontà e degno d’essere amato, e voi ed il prossimo amerete a onore e gloria del dolce nome di Jesù. Voglio dunque che siate quello vero e buono pastore, che se [p. 4 modifica]aveste cento migliaia di vite, vi disponiate tutte a darle per onore di Dio e per salute delle creature. O babbo mio, dolce Cristo in terra, seguitate quello dolce Gregorio 8, perocchè così sarà possibile a voi, come a lui, perocchè egli non fu d’altra carne che voi, e quello Dio è ora che era allora: non ci manca se non virtù e fame della salute dell’anime; ma a questo c’è il rimedio, padre; cioè, che noi leviamo l’amore detto di sopra da noi e da ogni creatura; fuora di Dio, non s’attenda più, nè ad amici, nè a parenti, nè a sua necessità temporale, ma solo alla virtù ed all’esaltazione delle cose spirituali, che per altro non vi vengono meno le temporali, se non è per abbandonare la cura delle spirituali.

III. Or vogliamo noi dunque avere quella gloriosa fame che hanno avuta quelli santi e veri pastori passati, e spegnere in noi questo fuoco, cioè, dell’amore di sè, facciamo come eglino, che col fuoco spegnevano il fuoco; perocchè tanto era il fuoco della inestimabile ed ardentissima carità che ardeva nelli cuori e nell’anime loro, che erano affamati e fatti gustatori e mangiatori dell’anime. O dolce e glorioso fuoco che è di tanta virtù, che spegne il fuoco ed ogni disordinato diletto e piacere ed amore di sè medesimo, e fa come la gocciola dell’acqua che tosto si consuma nella fornace: e chi mi dimandasse come ci vennero a questo dolce fuoco e fame, conciossiacosachè noi siamo pur arbori infruttiferi per noi, dico che essi si innestaro nell’arbore fruttifero della santissima e dolcissima croce, dove essi trovaro l’agnello svenato con tanto fuoco d’amore della nostra salute (Job. 19.), che non pare che si possa saziare, anco 9 grida che ha sete, quasi dica: io ho maggior ardore e sete, e desiderio della salute vostra, che io non vi mostro con la passione finita. O dolce e buono Jesù, vergogninsi li pontefici e li pastori ed ogni creatura dell’ignoranzia e superbia e piacimenti nostri, a ragguardare tanta larghezza e bontà ed amore ineffabile del nostro [p. 5 modifica]creatore, il quale s’è mostrato a noi arbore nella nostra umanità pieno di dolci e suavi frutti; perchè noi arbori salvatichi ci potessimo innestare in lui. Or questo fu dunque il modo che tenne lo innamorato di Gregorio e gli altri buoni pastori, cioè, cognoscendo loro senza neuna virtù non essere, riguardando il Verbo arbore nostro, e fecero uno innesto, in lui, legati e vinti col legame dell’amore, perocchè di quello che l’occhio vede di quello si diletta, quando è cosa bella e buona. Adunque vedero e vedendo si legaro sì e per sì fatto modo, che non vedevano loro, ma ogni cosa vedevano e gustavano in Dio; e non era nè vento, nè grandine, nè dimonia, nè creature che la potesse tollare, che non producessero frutti domestici, perocchè erano innestati nel mirollo dell’arbore nostro Jesù, e li frutti dunque loro producevano eglino per lo mirollo della dolce carità nella quale erano uniti, e non ci ha altro modo.

IV. E questo è quello ch’io voglio vedere in voi: e se per infino a qui non ci fossi stato ben fermo, in verità voglio e prego che si facci questo punto del tempo che c’è rimasto, virilmente e come uomo virile, seguitando Cristo di cui vicario sete: e non temete, padre, per veruna cosa che avvenga da questi venti tempestosi che ora vi sono venuti, cioè di questi putridi membri che hanno ribellato 10 a voi; non temete, perocchè l’ajuto divino è presso: procurate pure alle cose spirituali, a’ buoni pastori, ai buoni rettori nelle città vostre, perocchè per li mali pastori e rettori 11 avete trovata ribellione. Poneteci dunque rimedio e confortatevi in Cristo Jesù e non temete: andate innanzi e compite con vera sollicitudine e santa, quello che per santo proponimento 12 avete cominciato, cioè dell’avvenimento vostro e del santo e dolce passaggio 13; e non tardate più, perocchè per lo tardare sono avvenuti molti inconvenienti, ed il dimonio s’è levato e leva per impedire che questo non si faccia, perchè s’avvede del danno [p. 6 modifica]suo. Su dunque, padre, e non più negligenzia: drizzate il gonfalone 14 della santissima croce, perocchè coll’odore della croce acquisterete la pace. Pregovi, che coloro che vi sono ribelli, voi gl’invitiate ad una santa pace: sicchè tutta la guerra caggia sopra gli infedeli. Spero per l’infinita bontà di Dio, che tosto manderà l’ajutorio suo. Confortatevi, confortatevi e venite, venite a consolare li poveri, i servi di Dio e figliuoli vostri; aspettiamovi con affettuoso e amoroso desiderio. Perdonatemi, padre, che tante parole v’ho dette: sapete che per l’abondanzia del cuore la lingua favella (Luc. 6). Son certa, che se sarete quello arbore che io desidero di vedervi, che neuna cosa vi impedirà.

V. Pregovi, che vi mandiate proferendo come padre in quel modo che Dio v’ammaestrerà, a Lucca ed a Pisa 15, sovvenendoli in ciò che si può, ed invitandoli a star fermi e perseveranti. Son stata a Pisa ed a Lucca infino a qui invitandoli quanto posso, che lega non faccino con membri putridi, che sono ribelli a voi; ma essi stanno in grande pensiero, perocchè da voi non hanno conforto, e dalla contraria parte sempre sono stimolati e minacciati che la faccino; ma per infino a qui al tutto non hanno acconsentito. Pregovi che ne scriviate anco strettamente a messer Piero 16, e fatelo sollicitamente, e non indugiate: non dico di più.

VI. Qui ho inteso che avete fatto i cardinali 17: credo che sarebbe onore di Dio e meglio di noi, che attendeste sempre di fare nomini virtuosi: se si farà il contrario, sarà grande vituperio di Dio e guastamento della santa Chiesa: non ci maravigliamo poi se Dio ci manda le discipline e’ flagelli suoi, perocchè giusta cosa è. Pregovi, che facciate virilmente ciò che avete a fare, e con timore di Dio.

VII. Ho inteso ch’il maestro dell’Ordine nostro 18 voi il dovete promuovere ad altro benefizio, unde io vi prego per l’amore di Cristo crocifisso, che se egli [p. 7 modifica]è così che voi procuriate di darci uno buono e virtuoso vicario 19; perocchè l’Ordine ne ha bisogno, perocchè egli è troppo insalvatichito 20: potretene ragionare con misser Nicola da Osimo e coll’arcivescovo di Tronto 21, ed io ne scriverò a loro. Permanete nella dolce e santa dilezione di Dio. Dimandovi umilmente la vostra benedizione. Perdonate alla mia presunzione, che presumo di scrivere a voi 22. Jesù dolce. Jesù amore 23.

Annotazioni alla Lettera prima

  1. [p. 46 modifica](A) Questa lettera sembra scritta ne’ primi mesi dell’anno 1376, poichè in essa si accenna l’eiezione de’ cardinali fatta in Avignone al 20 dicembre 1375, come di fresco accaduto.
  2. [p. 46 modifica](B) Col nome di Gesù comincia la santa tutte le sue lettere, essendo ella usata d’averlo continuo alla lingua come il beato Giovanni Colombini e s. Bernardino suoi concittadini. Fuvvi chi notò averlo essa adoperato in queste lettere ben due mila e trecento cinque volte.
  3. [p. 46 modifica](C) A voi reverendissimo ec. I titoli che la santa adopera nelle lettere a' sommi pontefici, non tutti sono d’una maniera avendovene altri che la somma sua riverenza inverso la maestà del Vicario di Cristo palesano, ed altri che assai chiaro ci mostrano sì l’affetto di questa vergine, sì la dimestichezza, per così dire, a cui Gregorio XI ed Urbano VI ammessa l’aveano. Della prima maniera sono i titoli di santissimo, di beatissimo e di reverendisdmo padre, i quali ella indifferentemente usa, or accoppiando il santissimo al reverendissimo padre, or aggiugnendoli il beatissimo, senza dilungarsi in ciò gran fatto dal costume di quei tempi, in cui però non erasi bene per anco fermato l’uso dei titoli, nè pure a riguardo de’ sommi pontefici; avendosi delle lettere da una stessa segretaria, col titolo sancissimo ac beatissimo in Christo PatriC 1, ed altre con quello di sanctissimo Patri in DominoC 2. Della seconda maniera sono i titoli di diletto, dilettissimo, carissimo, dolce e dolcissimoC 3; i quali ella usa quasi ad ogni lettera, e dire si possono suoi proprj; come non da altri posti in opera, scrivendo a’ personaggi di sì alta condizione, la cui maestà, se ammette gli ossequj, di rado dà luogo alla confidenza. Non dovrà però altri a lei cagione dar biasimo di troppo ardimento alla santa; valendole a difesa la candidezza e sincerità del suo animo non valevole a tenere ascosi in petto i sentimenti del cuore, onde come pel zelo dell’onore e gloria di Dio, prorompe assai delle volte in termini così gagliardi e pungenti, che come poi verrà osservato, dierono a taluno motivo di richiamare in dubbio alcuna delle sue lettereC 4; così pel tenero amore in verso de’ vicarj di Gesù Cristo, si esprime con quegli aggiunti pieni di tenerezza e di affetto, che pure adopera coi nomi santissimi di Gesù e di Maria, palesando [p. 47 modifica]la mano coi caratteri, que’ sentimenti che dettavale il cuore. Altro scudo si può pure inalzare a difesa della santa, ed è quello della stretta confidenza che ella tenea con amendne questi pontefici, perchè erale consentito l’esprimersi in termini inferiori di vero a tanta maestà, ma non disdicevoli, allorchè allo stato quasi privato di famigliarità pur ella s’inchiniC 5. Così il santo abbate di Chiaravalle, scrivendo ad Innocenzo II ed al suo caro pontefice e già discepolo Eugenio III, usa questo titolo senz’altra giunta di onorevolezza maggiore: Amantissimo Patri et Domino Eugenio Dei gratia summo pontificiC 6. Quanto poi ella si avesse di familiarità col pontefice Gregorio XI, si può trarre e dal tenore di queste lettere, che per poco possono dirsi familiari, dalle richieste che gli porge a favore di particolari persone e dalle lettere che ella ne riceveva, come si ha dalla sesta e dalla settima di questo volume. Non fu questa corrispondenza fermata in Avignone, ov’ella si portò del 1376, ma di qualche tempo era già stretta; come chiaro vedesi da questa e da altre delle sue Epistole, scritte per essa prima d’andarne a quella città: onde la gloria di aver formato questo vincolo alla fama della santità di Caterina si dovrà tutta recare. Pote questa di prima renderla ancora nota e cara al pontefice Urbano V, se sia vero, che pur ella gli scrivesse; come si vuole dal Malevolti, accurato scrittore delle storie di SienaC 7, e se dee dare fede al padre Isidoro Ugurgieri ne’ suoi fasti senesi, che hannosi a penna; ove rapporta, come Urbano, volendo tornare all’osservanza antica il monistero di Montecassino, ne eleggesse ad abbate don Bartolomeo da Siena, postogli in grazia a cagione di sua virtù da questa vergine. D’onde abbiansi avute eglino tali notizie, non m’è noto, dacchè tra le lettere impresse non ve ne ha veruna dirizzata a questo pontefice; e per le memorie che a gran diligenza sonosi ricercate, sembra non essersi la santa intramessa di affari a vantaggio de’ prossimi innanzi all’anno 1370, ove il pontefice Urbano V, se mancò di vita nel finire di quell’anno stesso, questo don Bartolomeo da Siena, che vuolsi essere stato l’ottantesimo degli abbati cassinesi, si morì nel 1369C 8; trovandosi che dell’anno 1370C 9, lo stesso pontefice portasi a quel governo don Andrea di Faenza, tolto o dall’ordine Camaldolese o dall’Olivetano, giusta l’opinioni diverse degli autoriC 10; non avendone trovato alcuno che andassegli a grado tra i monaci neriC 11. Più arduo a sostenersi mi sembra ciò che narrasi dal padre Orazio Torsellino nel suo compendio delle storie del mondo rapportato dall’Ugurgieri; cioè, che il pontefice stesso a sommossa di questa [p. 48 modifica]vergine, s’inducesse a venirne in Italia l’anno 1367C 12; le parole di questo autore sono le seguenti: Itaque Urbanus V. pontifex ad res urbanas componendas Romam aliquando venit Catarinae Senensis (et ipse Senensis) sanctissimae virginis hortatuC 13. Ma come da una parte non reca autorità veruna di scrittore più antico, su cui possa altri fondarsi con sicurezza, e dall’altra poco avvedutamente lasciossi fuggire dalla penna, che Urbano l’fosse sanese, avendosi pel testimonio di tutti gli autori, ch’egli fosse francese; per ciò, quantunque sia stato seguíto da Bartolomeo Imperiali, nella vita che scrisse della santa, non posso attenermi al suo detto, non veggendovi fondamento di verità. Anzi nelle stampe più corrette di quell’opera, s’è tolto via questo suo detto riputatosi non vero, e scorsovi per poca avvedutezza, e che forse l’autore stesso avrebbe corretto in prima che uscisse alla luce, se non erane distolto dalla morte, onde si rimase con molti errori quell’operaC 14; e tale quale si era, fu per altri con poca accortezza esposta in publico colla stampa. Ad Urbano VI fu questa serafica vergine sì accetta, ed in tale confidenza, che ella potè attentarsi d’inviargli un minuto regalo, come si ha dalla lettera vigesima, di richiederlo della sagra porpora a favore di Nicolò Mesquino Caraccioli, e di averne la grazia, come si asserisce dal CiacconeC 15, e di correggerne la natura fiera ed impetuosa con avvertimenti opportuni, come vedesi nelle ultime delle lettere, che ella a lui scrisse. Potrebbe forse taluno adusato alla maniera di scrivere de’ nostri tempi registrare tra le note di familiarità eccessiva il darsi, che per la santa si fa quasi continuo, del voi nelle lettere, sì a questi due pontefici, sì a’ re, reine e ad altri personaggi de’ più elevati di posto, che a quell’età il mondo cristiano s’avesse, senza intramettervi tratto tratto que’ titoli di santità, di maestà, o simiglianti, de’ quali in oggi sì liberali sono le penne degli scrittori. Ma se bene osservasi, non tanto dee ciò recarsi a schiettezza di animo di questa vergine, quanto al costume di que’ tempi, non so s’io mi dica più sinceri o meno culti de’ nostri, in cui o non mai, o di rado assai adoperavansi questi aggiunti nel corso della lettera, ma davansi per ognuno senza por mente a persona, del voi, senza che sel recasse altri ad offesa, o nulla punto temesse non da ciò oscurarglisi il lustro o d’eccelsa dignità o d’alto nascimento. Leggasi intorno a questo quel tanto, che ne ha scritto monsignor Claudio TolomeiC 16; il quale, non solamente prova questo antico costume, ma con molte ragioni l’approva per buono, riprovando pur anche con molto sforzo di argomenti l’uso di novello introdotto di questa liberalità soverchia di titoli.
    1. Apud B. Iuz.
    2. Vit. Pap.
    3. Aven. T. 2
    4. P. Louis Mainbourg. Hist. du graud. Schis. d’Occid. Lib. 1. pag. 140. Impres Paris.
    5. Ep. 178, 189, 190.
    6. Ep. 237, 246, 273.
    7. Part. 2, l. 8, pag. 143.
    8. Ughel. It. Sac. Tom. II. Col. 1035.
    9. B.luz. Tom. I. Iu Vit.
    10. Urb. V. et in Notis.
    11. Sec. L.ucel. Hist. Oliv. Par. I. Pag. 26
    12. Ughel. loc. cit.
    13. P. Isid. Ugurg. Pomp. San. Tit. I.
    14. P. Allegamb. Bibl. Script. Soc. Jesù.
    15. In Vit. Urb. VI in Addit. Col. 1001.
    16. Lib. 3. Lett. 1.
  4. [p. 47 modifica] [p. 48 modifica](D) Io Caterina serva e schiava, ec. Questo titolo, che la santa
  5. [p. 49 modifica](E) Colui che è. Nobilissima appellazione di Dio secondo quello che egli disse di sè medesimo: Ego sum qui sumE 1. Per la stessa ragione la creatura si dice non essere; cioè non esistere assolutamente e necessariamente.
    1. Esodo 3, 14.
  6. [p. 49 modifica](F) Cavelle, e più comunemente covelle, voce antica che vale piccola cosa, niente.
  7. [p. 49 modifica](G) Babbo, voce usata da’ bambini in luogo di padre. Da molti luoghi di queste lettere si rileva la figlial tenerezza e famigliarità grandissima della santa co’ pontefici.
  8. [p. 49 modifica](H) S. Gregorio VII, che con mirabile fermezza pose argine alla sfrenata licenza del suo secolo.
  9. [p. 49 modifica](I) Anco. La santa l’usa assai volte in luogo di anzi.
  10. [p. 49 modifica](J) Hanno ribellato a voi. Parla della terribile ribellione della maggior parte degli Stati della Chiesa, avvenuta di questi tempi per opera de’ Fiorentini. Ne parlano, l’Ammirato, il Binaldi, il Biondo, il Malevolti, Leonardo Aretino, il beato Raimondo autore della vita di santa Caterina, ed altri. Era stata minacciata alcuni anni prima a Gregorio XI da santa BrigidaJ 1, se di presente non veniva a Roma, ed ecco come avvenne. Tra gli altri cardinali che governarono gli Stati della Chiesa nei settant’anni che i pontefici dimorarono in Avignone, fu Guglielmo Noellet detto il Cardinal di s. Angelo, che nel 1375, presiedendo a Bologna, si inimicò co’ Fiorentini, che pativan carestia di vettovaglie; avendo esso vietato che dallo Stato della Chiesa vi fossero introdotte, ed anche ajutato, come si disse, la sommossa di Prato. Di che sdegnati i Fiorentini, senza pur portarne la querela al pontefice, mandarono stendardi col motto Libertas a tutte le principali città della Chiesa, eccitandole vivamente alla rivolta, e promettendo loro ogni soccorso. Così fecero ribellare, prima Castello, [p. 50 modifica]poi Perugia, Todi, Viterbo, Montefiascone, Agubbio, Spoleto, e in fine quasi tutto lo Stato pontificio; cioè sessanta città e diecimila terre, che s’unirono co’ Fiorentini colla così detta Lega della libertà.
    1. Riv. Lub. 4, c. 140.
  11. [p. 50 modifica](K) Per li mali pastori e rettori. Alcuni governatori delle città della Chiesa e parecchi pastori di que’ tempi infelici sono accusati, anche da altri scrittori di quell’età, di alterigia, di pompa e dei peggiori vizj; di questi parla la santa. Egli è certo nondimeno, che anche di que’ giorni ve n’ebbe di assai illustri per saviezza e rettitudine.
  12. [p. 50 modifica](L) Per santo proponimento. Agnolo di Tura di Grasso, cronista sanese, narra che ai 26 aprile 1372, Gregorio XI aveva dichiarato in publico concistoro di volersi trasferire a Roma nel prossimo agosto. L’anno 1374 l’aveva promesso agli ambasciatori romani, e per lettera fattolo sapere all’imperatore Carlo IV, a Lodovico re d’Ungheria, a Federico re di Sicilia e a’ duchi d’Austria, come narra il Rinaldi; non essendovisi frapposti grandissimi ostacoli, vi si adoperò tanto la santa, che in principio dell’anno seguente vel potè ricondurre.
  13. [p. 50 modifica](M) Del santo e dolce passaggio. Intende il passaggio d’oltremare per andar contro agli infedeli; contro i quali l’esorta a drizzare il gonfalone, cioè lo stendardo della croce.
  14. [p. 50 modifica](N) Drizzate il gonfalone. il gonfalone è una sorta d’insegna, di cui ad altro luogo si favellerà, e qui togliesi per lo stendardo della Chiesa da innalzarsi a condurre le squadre cristiane all’impresa d’oltremare contro agl’infedeli.
  15. [p. 50 modifica](O) A Lucca ed a Pisa. Le republiche di Lucca e di Pisa erano istigate da’ Fiorentini, che falsamente andavano spargendo, volere il pontefice conquistar tutta Toscana, e minacciavanle coll’armi se non entravano nella lega. Ma esse si tennero salde al partito della Chiesa, mantenutevi anche dalla santa che in ciò molto si adoperò. Vedi la lettera 206.
  16. [p. 50 modifica](P) A misser Piero. Messer Pietro Gambacorti, capo della republica di Pisa e divoto della santa. Vedi la lettera 193.
  17. [p. 50 modifica](Q) Avete fatto i cardinali. In questa elezione accadota ai 20 dicembre del 1375, furono creati nove cardinali, sette francesi, uno italiano, e lo spagnuolo Pietro della Luna, che fu poi l’antipapa Benedetto XIII.
  18. [p. 50 modifica](R) Ch’il maestro dell’ordine nostro. Era a quegli anni generale del sagro Ordine de’ predicatori, frate Elia di Tolosa, il quale però non venne promosso ad altro beneficio, come erane corsa voce in Italia, e ad altro luogo s’osserveràR 1.
    1. Ferd. del Castil. Ju. Gen di S. Dom. Parte 2, l. 2, c. 22.
  19. [p. 50 modifica](S) Uno buono e virtuoso vicario. Allorchè il generale dell’Ordine ad alcuna sagra dignità dal sommo pontefice è sollevato, elegge questi alcun soggetto col titolo di vicario; il quale governa la religione infino a tanto che vengasi a nuova elezione di maestro generale.
  20. [p. 51 modifica](T) Era corsa voce che si volesse promuovere frate Elia di Tolosa generale de’ domenicani, ma non fu vero. Dice che l’Ordine era insalvatichito: anche nel dialogo al cap. 158. si lagna di qualche abuso introdottovi a que’ tempi. Ma l’anno 1380, per opera della santa, ne fu eletto generale il beato Raimondo da Capua di lei confessore, che vi fece rifiorire il lustro primitivo.
  21. [p. 51 modifica](U) Nicola da Osimo fu segretario di questo pontefice. Vedi le lettere 39 e 40. Quanto all’arcivescovo di Tronto, ossia d’Otranto. Vedi la lettera 33.
  22. [p. 51 modifica](V) Che presumo di scrivere a voi. Da queste ultime parole sembrami potersi arguire essere questa la prima delle lettere, che al pontefice Gregorio XI ella scrivesse, e favellando in essa sì della ribellione delle città della Chiesa, sì della promozione de’ cardinali accaduta al 22 di dicembre dell’anno 1375, verrà questa ad essere de’ primi mesi dell’anno seguente. Nelle impressioni antiche teneva questa il terzo luogo, e senza dubbio stava fuor d’ordine; giacchè le due, che le stavano innanzi, sono dettatura de’ mesi seguenti, facendo parole in esse di accomodamento e del suo disporsi ad andare in Avignone come mediatrice della concordia, eletta a tal impiego dalla republica di Firenze. L’ordine tenutosi dall’impressore nel disporre di queste lettere al pont3fice Gregorio XI, (e ciò sia detto, sì di quelle indirizzate ad Urbano VI e ad altri) tutto è capriccio del caso senza verun riguardo di tempo. Di verità, assai è malagevole dare loro l’ordine dovuto giusta la ragione de’ tempi in che vennero scritte; sì, per essere quasi tutte senza nota del mese o dell’anno, e per lo più senza quella del luogo; e sì, perchè molte di loro tornano sopra d’uno stesso affare; onde, nè pure da’ fatti correnti a quell’età, la disposizione che loro si debba è facile a ravvisare. Nelle antiche impressioni che hannosi di queste lettere, trovasi, che alcune poche aveano al titolo aggiunto il nome del luogo ond’erano scritte, o quello in cui stavasi il pontefice allorchè le ricevette. Ma sì fatta diligenza non toglieva la confusione, che anzi l’accresceva; dacchè al non aggingnerlo alle altre lettere, era un segnale a mostrare essere esse scritte d’altra città o ad altra indrizzate; onde tali note di luogo sonnosi tolte via in questa impressione, come che non rechino utilità veruna e recar possono confusione. Quattordici sono di numero le inviate a Gregorio XIV 1; avvegnachè da altri dodici sole ne sieno rammentate, delle quali altre furono scritte prima del suo andare ad Avignone, altre sono del tempo ch’ella stavasi in quella città, ed altre sono opera de’ mesi che vennero appresso il suo ritorno in Toscana e la venuta del pontefice in Italia. Giusta questa varietà di tempi credo averle distribuite, e se mal non mi avviso con un tal qual ordine, che se non è il vero, gli è tanto simigliante, che di leggieri non potrà ravvisarsi per falso. Che altre lettere ella pure scrivesse a questo pontefice, oltre alla probabilità che ne porge [p. 52 modifica]la sua lunga dimora in Firenze, ove n’andò d’ordine di Gregorio a maneggiarvi l'accomodamento co’ Fiorentini, si ha per certo da quel tanto che ce ne assicura ella medesima nella lettera, che sarà la 116, in cui fa menzione d’una lettera, che infino ad ora non si è veduta.
    1. Marian. lib. 17. cap. 19. Hist. de reb. Hisp.
  23. [p. 52 modifica](X) Jesù dolce, Jesù amore. Di questa maniera dà fine la santa a ciascuna delle sue lettere, come a tutte dà principio coi nomi di Gesù e di Maria. S. Francesco di Sales termina molte delle sue lettere con queste voci: Viva GesùX 1.
    1. Lib. 2. let. 7. 10. 12. ed altre.