Gerusalemme liberata/Canto quinto

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Canto Quinto

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Canto quarto Canto sesto


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GERNANDO


ARGOMENTO.

     Sdegna Gernando che Rinaldo aspire
Al grado ov’egli esser assunto agogna:
Perciò, ministro a se del suo morire,
Lui, che l’uccide poi, forte rampogna.
Va l’uccisor in bando: nè patire
Vuol che catena, o ceppi altri gli pogna.
Parte Armida contenta; ma dal mare
Vengono al gran Buglion novelle amare.



CANTO QUINTO.


Mentre in tal guisa i cavalieri alletta
Nell’amor suo l’insidiosa Armida,
Nè solo i dieci a lei promessi aspetta,
4Ma di furto menarne altri confida;
Volge tra se Goffredo a cui commetta
La dubbia impresa, ov’ella esser dee guida;
Chè degli avventurier la copia e ’l merto,
8E ’l desir di ciascuno il fanno incerto.

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II.


     Ma con provido avviso alfin dispone,
Ch’essi un di loro scelgano a sua voglia,
Che succeda al magnanimo Dudone,
12E quella elezion sovra se toglia.
Così non avverrà ch’ei dia cagione
Ad alcun d’essi che di lui si doglia:
E insieme mostrerà d’aver nel pregio,
16In cui debbe a ragion, lo stuolo egregio.

III.


     A se dunque li chiama, e lor favella:
Stata è da voi la mia sentenza udita,
Ch’era, non di negare alla Donzella,
20Ma di darle, in stagion matura, aita:
Di novo or la propongo, e ben puote ella
Esser dal parer vostro anco seguita;
Chè nel mondo mutabile e leggiero,
24Costanza è spesso il variar pensiero.

IV.


     Ma se stimate ancor, che mal convegna
Al vostro grado il rifiutar periglio:
E se pur generoso ardire sdegna
28Quel che troppo gli par cauto consiglio;
Non sia ch’involontarj io vi ritegna,
Nè quel, che già vi diedi, or mi ripiglio;
Ma sia con esso voi, com’esser deve,
32Il fren del nostro imperio lento e leve.

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V.


     Dunque lo starne o ’l girne i’ son contento
Che dal vostro piacer libero penda.
Ben vuò che pria facciate al Duce spento
36Successor nuovo, e di voi cura ei prenda:
E tra voi scelga i dieci a suo talento;
Non già di dieci il numero trascenda,
Ch’in questo il sommo imperio a me riservo:
40Non fia l’arbitrio suo per altro servo.

VI.


     Così disse Goffredo; e ’l suo germano,
Consentendo ciascun, risposta diede:
Siccome a te conviensi, o Capitano,
44Questa lenta virtù che lunge vede;
Così il vigor del core e della mano,
Quasi debito a noi, da noi si chiede:
E saria la matura tarditate,
48Ch’in altri è provvidenza, in noi viltate.

VII.


     E poichè ’l rischio è di sì leve danno
Posto in lance col pro, che ’l contrappesa;
Te permettente, i dieci eletti andranno
52Con la Donzella all’onorata impresa.
Così conclude; e con sì adorno inganno
Cerca di ricoprir la mente accesa
Sotto altro zelo: e gli altri anco d’onore
56Fingon desio, quel ch’è desio d’amore.

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VIII.


     Ma il più giovin Buglione, il qual rimira
Con geloso occhio il figlio di Sofia,
La cui virtute invidiando ammira,
60Che in sì bel corpo più cara venia;
Nol vorrebbe compagno, e al cor gli inspira
Cauti pensier l’astuta gelosia;
Onde, tratto il rivale a se, in disparte
64Ragiona a lui con lusinghevol’arte.

IX.


     O di gran genitor maggior figliuolo,
Che ’l sommo pregio in arme hai giovinetto:
Or chi sarà del valoroso stuolo,
68Di cui parte noi siamo, in Duce eletto?
Io, ch’a Dudon famoso appena, e solo
Per l’onor dell’età, vivea soggetto:
Io, fratel di Goffredo, a chi più deggio
72Cedere omai? Se tu non sei, nol veggio.

X.


     Te, la cui nobiltà tutt’altre agguaglia,
Gloria e merito d’opre a me prepone:
Nè sdegnerebbe, in pregio di battaglia,
76Minor chiamarsi anco il maggior Buglione;
Te dunque in Duce bramo, ove non caglia
A te di questa Sira esser campione:
Nè già cred’io che quell’onor tu curi,
80Che da’ fatti verrà notturni e scuri.

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XI.


     Nè mancherà quì loco, ove s’impieghi
Con più lucida fama il tuo valore.
Or io procurerò, se tu nol nieghi,
84Ch’a te concedan gli altri il sommo onore.
Ma perchè non so ben dove si pieghi
L’irresoluto mio dubbioso core,
Impetro or io da te, ch’a voglia mia
88O segua poscia Armida, o teco stia.

XII.


     Qui tacque Eustazio, e questi estremi accenti
Non proferì senza arrossirsi in viso:
E i mal celati suoi pensieri ardenti
92L’altro ben vide, e mosse ad un sorriso.
Ma perch’a lui colpi d’amor più lenti
Non hanno il petto oltre la scorza inciso;
Nè molto impaziente è di rivale,
96Nè la Donzella di seguir gli cale.

XIII.


     Ben altamente ha nel pensier tenace
L’acerba morte di Dudon scolpita:
E si reca a disnor, ch’Argante audace
100Gli soprastía lunga stagion in vita:
E parte di sentire anco gli piace
Quel parlar, ch’al dovuto onor l’invita:
E ’l giovinetto cor s’appaga, e gode
104Del dolce suon della verace lode.

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XIV.


     Onde così rispose: i gradi primi
Più meritar, che conseguir desio;
Nè, purchè me la mia virtù sublimi,
108Di scettri altezza invidiar degg’io.
Ma s’all’onor mi chiami, e che lo stimi
Debito a me, non ci verrò restío:
E caro esser mi dee, che mi sia mostro
112Sì bel segno da voi del valor nostro.

XV.


     Dunque io nol chiedo, e nol rifiuto: e quando
Duce io pur sia, sarai tu degli eletti.
Allora il lascia Eustazio, e va piegando
116De’ suoi compagni, al suo voler, gli affetti.
Ma chiede a prova il Principe Gernando
Quel grado, e bench’Armida in lui saetti,
Men può nel cor superbo amor di donna,
120Ch’avidità d’onor che se n’indonna.

XVI.


     Sceso Gernando è da’ gran Re Norvegj,
Che di molte provincie ebber l’impero;
E le tante corone, e’ scettri regj
124E del padre e degli avi il fanno altero.
Altero è l’altro de’ suoi proprj pregj
Più che dell’opre che i passati fero;
Ancor che gli avi suoi cento e più lustri
128Stati sian chiari in pace, e ’n guerra illustri.

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XVII.


     Ma il barbaro Signor, che sol misura
Quanto l’oro, e ’l dominio oltre si stenda,
E per se stima ogni virtute oscura,
132Cui titolo regal chiara non renda;
Non può soffrir, che in ciò ch’egli procura,
Seco di merto il cavalier contenda:
E se ne cruccia sì, ch’oltra ogni segno
136Di ragione il trasporta ira e disdegno.

XVIII.


     Talchè ’l maligno spirito d’Averno,
Ch’in lui strada sì larga aprir si vede,
Tacito in sen gli serpe, ed al governo
140De’ suoi pensieri lusingando siede:
E quì più sempre l’ira, e l’odio interno
Inacerbisce, e ’l cor stimola e fiede:
E fa che ’n mezzo all’alma ognor risuoni
144Una voce ch’a lui così ragioni:

XIX.


     Teco giostra Rinaldo; or tanto vale
Quel suo numero van d’antichi eroi?
Narri costui, ch’a te vuol farsi eguale,
148Le genti serve, e i tributarj suoi:
Mostri gli scettri, e in dignità regale
Paragoni i suoi morti ai vivi tuoi.
Ah quanto osa un signor d’indegno stato,
152Signor, che nella serva Italia è nato!

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XX.


     Vinca egli, o perda omai; fu vincitore
Sin da quel dì ch’emulo tuo divenne.
Che dirà il mondo? (e ciò fia sommo onore)
156Questi già con Gernando in gara venne.
Poteva a te recar gloria e splendore
Il nobil grado, che Dudon pria tenne:
Ma già non meno esso da te n’attese;
160Costui scemò suo pregio allor che ’l chiese.

XXI.


     E se, poich’altri più non parla o spira,
De’ nostri affari alcuna cosa sente;
Come credi che in Ciel, di nobil’ira,
164Il buon vecchio Dudon si mostri ardente?
Mentre in questo superbo i lumi gira,
Ed al suo temerario ardir pon mente;
Che seco ancor, l’età sprezzando e ’l merto,
168Fanciullo osa agguagliarsi ed inesperto.

XXII.


     E l’osa pure, e ’l tenta, e ne riporta
In vece di castigo onor e laude:
E v’è chi ne ’l consiglia, e ne l’esorta,
172(O vergogna comune!) e chi gli applaude.
Ma se Goffredo il vede, e gli comporta
Che di ciò ch’a te dessi, egli ti fraude;
No ’l soffrir tu; nè già soffrir lo dei,
176Ma ciò che puoi dimostra, e ciò che sei.

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XXIII.


     Al suon di queste voci arde lo sdegno,
E cresce in lui quasi commossa face:
Nè capendo nel cor gonfiato e pregno,
180Per gli occhj n’esce, e per la lingua audace.
Ciò che di riprensibile e d’indegno
Crede in Rinaldo, a suo disnor, non tace:
Superbo e vano il finge, e ’l suo valore
184Chiama temerità pazza e furore.

XXIV.


     E quanto di magnanimo, e d’altero,
E d’eccelso, e d’illustre in lui risplende,
Tutto (adombrando con mal’arti il vero)
188Pur, come vizio sia, biasma e riprende:
E ne ragiona sì, che ’l cavaliero
Emulo suo, pubblico il suon n’intende.
Non però sfoga l’ira, o si raffrena
192Quel cieco impeto in lui, ch’a morte il mena.

XXV.


     Chè ’l reo demon, che la sua lingua move
Di spirto in vece, e forma ogni suo detto,
Fa che gl’ingiusti oltraggj ognor rinnove,
196Esca aggiungendo all’infiammato petto.
Loco è nel campo assai capace, dove
S’aduna sempre un bel drappello eletto;
E quivi insieme, in torneamenti e in lotte,
200Rendon le membra vigorose e dotte.

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XXVI.


     Or quivi, allor che v’è turba più folta,
Pur, com’è suo destin, Rinaldo accusa:
E quasi acuto strale in lui rivolta
204La lingua del venen d’Averno infusa:
E vicino è Rinaldo, e i detti ascolta;
Nè puote l’ira omai tener più chiusa:
Ma grida: menti; e addosso a lui si spinge,
208E nudo nella destra il ferro stringe.

XXVII.


     Parve un tuono la voce, e ’l ferro un lampo
Che di folgor cadente annunzio apporte.
Tremò colui, nè vide fuga, o scampo
212Dalla presente irreparabil morte:
Pur, tutto essendo testimonio il campo,
Fa sembiante d’intrepido e di forte;
E ’l gran nemico attende, e ’l ferro tratto,
216Fermo si reca di difesa in atto.

XXVIII.


     Quasi in quel punto mille spade ardenti
Furon vedute fiammeggiar insieme;
Chè varia turba di mal caute genti
220D’ogn’intorno v’accorre, e s’urta e preme.
D’incerte voci, e di confusi accenti
Un suon per l’aria si raggira e freme,
Qual s’ode in riva al mare, ove confonda
224Il vento i suoi co’ mormorii dell’onda.

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XXIX.


     Ma per le voci altrui già non s’allenta
Nell’offeso guerrier l’impeto e l’ira.
Sprezza i gridi, e i ripari, e ciò che tenta
228Chiudergli il varco, ed a vendetta aspira;
E fra gli uomini, e l’arme oltre s’avventa,
E la fulminea spada in cerchio gira,
Sì, che le vie si sgombra; e solo, ad onta
232Di mille difensor, Gernando affronta.


Sì che le vie si sgombra, e solo, ad onta
Di mille difensor, Gernando affronta.



XXX.


     E con la man, nell’ira anco maestra,
Mille colpi ver lui drizza e comparte.
Or al petto, or al capo, or alla destra
236Tenta ferirlo, ora alla manca parte;
E impetuosa, e rapida la destra
È in guisa tal, che gli occhj inganna e l’arte:
Talch’improvvisa, e inaspettata giunge
240Ove manco si teme; e fère e punge.

XXXI.


     Nè cessò mai, finchè nel seno immersa
Gli ebbe una volta, e due la fera spada.
Cade il meschin su la ferita, e versa
244Gli spirti, e l’alma fuor per doppia strada.
L’arme ripone ancor di sangue aspersa
Il vincitor, nè sovra lui più bada;
Ma si rivolge altrove, e insieme spoglia
248L’animo crudo, e l’adirata voglia.

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XXXII.


     Tratto al tumulto il pio Goffredo intanto
Vede fero spettacolo improvviso:
Steso Gernando, il crin di sangue e ’l manto
252Sordido e molle, e pien di morte il viso.
Ode i sospiri, e le querele, e ’l pianto
Che molti fan sovra il guerriero ucciso.
Stupido chiede: or quì, dove men lece,
256Chi fu ch’ardì cotanto, e tanto fece?

XXXIII.


     Arnaldo, un de’ più cari al Prence estinto,
Narra, e ’l caso in narrando aggrava molto,
Che Rinaldo l’uccise, e che fu spinto
260Da leggiera cagion d’impeto stolto:
E che quel ferro, che per Cristo è cinto,
Ne’ campioni di Cristo avea rivolto;
E sprezzato il suo impero, e quel divieto
264Che fè pur dianzi, e che non è secreto.

XXXIV.


     E che per legge è reo di morte, e deve,
Come l’editto impone, esser punito:
Sì perchè ’l fallo in se medesmo è greve,
268Sì perchè ’n loco tale egli è seguito.
Chè se dell’error suo perdon riceve,
Fia ciascun altro, per l’esempio, ardito;
E che gli offesi poi quella vendetta
272Vorranno far, ch’a i giudici s’aspetta.

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XXXV.


     Onde, per tal cagion, discordie e risse
Germoglieran fra quella parte e questa:
Rammentò i merti dell’estinto, e disse
276Tutto ciò, ch’o pietate, o sdegno desta.
Ma s’oppose Tancredi, e contradisse,
E la causa del reo dipinse onesta.
Goffredo ascolta, e in rigida sembianza
280Porge più di timor, che di speranza.

XXXVI.


     Soggiunse allor Tancredi: or ti sovvegna,
Saggio Signor, chi sia Rinaldo, e quale:
Qual per se stesso onor gli si convegna,
284E per la stirpe sua chiara e regale,
E per Guelfo suo zio: non dee chi regna,
Nel castigo, con tutti esser eguale.
Vario è l’istesso error ne’ gradi varj:
288E sol l’egualità giusta è co’ pari.

XXXVII.


     Risponde il Capitan: da i più sublimi
Ad ubbidire imparino i più bassi.
Mal, Tancredi, consigli, e male stimi,
292Se vuoi che i grandi in sua licenza io lassi.
Qual fora imperio il mio, s’a’vili ed imi,
Sol Duce della plebe, io comandassi?
Scettro impotente, e vergognoso impero;
296Se con tal legge è dato, io più nol chero.

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XXXVIII.


     Ma libero fu dato, e venerando:
Nè vuo’ ch’alcun d’autorità lo scemi.
E so ben io come si deggia, e quando
300Ora diverse impor le pene e i premj,
Ora, tenor d’egualità serbando,
Non separar dagl’infimi i supremi.
Così dicea, nè rispondea colui,
304Vinto da riverenza, ai detti sui.

XXXIX.


     Raimondo, imitator della severa
Rigida antichità, lodava i detti.
Con quest’arti, dicea, chi bene impera
308Si rende venerabile ai soggetti;
Chè già non è la disciplina intera,
Ov’uom perdono, e non castigo aspetti.
Cade ogni regno, e ruinosa è senza
312La base del timor ogni clemenza.

XL.


     Tal ei parlava: e le parole accolse
Tancredi, e più fra lor non si ritenne;
Ma ver Rinaldo immantinente volse
316Un suo destrier, che parve aver le penne.
Rinaldo, poi ch’al fier nemico tolse
L’orgoglio e l’alma, al padiglion sen venne.
Quì Tancredi trovollo, e delle cose
320Dette e risposte appien la somma espose.

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XLI.


     Soggiunse poi: bench’io sembianza esterna
Del cor non stimi testimon verace;
Chè ’n parte troppo cupa, e troppo interna
324Il pensier de’ mortali occulto giace:
Pur ardisco affermar, a quel ch’io scerna
Nel Capitan, che in tutto anco nol tace,
Ch’egli ti voglia all’obbligo soggetto
328De’ rei comune, e in suo poter ristretto.

XLII.


     Sorrise allor Rinaldo, e con un volto
In cui tra ’l riso lampeggiò lo sdegno:
Difenda sua ragion ne’ ceppi involto
332Chi servo è, disse, o d’esser servo è degno;
Libero i’ nacqui e vissi, e morrò sciolto,
Pria che man porga o piede a laccio indegno:
Usa alla spada è questa destra ed usa
336Alle palme, e vil nodo ella ricusa.

XLIII.


     Ma, s’ai meriti miei questa mercede
Goffredo rende, e vuol impregionarme
Pur com’io fossi un uom del volgo, e crede
340A carcere plebeo legato trarme;
Venga egli, o mandi, io terrò fermo il piede:
Giudici fian tra noi la sorte, e l’arme:
Fera tragedia vuol che s’appresenti,
344Per lor diporto, alle nemiche genti?

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XLIV.


     Ciò detto, l’armi chiede, e ’l capo e ’l busto
Di finissimo acciajo adorno rende,
E fa del grande scudo il braccio onusto,
348E la fatale spada al fianco appende:
E in sembiante magnanimo ed augusto,
Come folgore suol, nell’armi splende.
Marte, e’ rassembra te, qualor dal quinto
352Cielo, di ferro scendi e d’orror cinto.

XLV.


     Tancredi intanto i feri spirti, e ’l core
Insuperbito d’ammollir procura.
Giovine invitto, dice, al tuo valore
356So che fia piana ogni erta impresa e dura:
So che fra l’armi sempre, e fra ’l terrore
La tua eccelsa virtute è più sicura.
Ma non consenta Dio, ch’ella si mostri
360Oggi sì crudelmente a’ danni nostri.

XLVI.


     Dimmi, che pensi far? vorrai le mani
Del civil sangue tuo dunque bruttarte?
E con le piaghe indegne de’ Cristiani
364Trafigger Cristo, ond’ei son membra e parte?
Di transitorio onor rispetti vani,
Che, qual onda di mar sen viene e parte,
Potranno in te più che la fede, e ’l zelo
368Di quella gloria, che n’eterna in Cielo?

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XLVII.


     Ah non per Dio: vinci te stesso, e spoglia
Questa feroce tua mente superba.
Cedi: non fia timor, ma santa voglia,
372Ch’a questo ceder tuo palma si serba.
E se pur degna, ond’altri esempio toglia,
È la mia giovinetta etate acerba;
Anch’io fui provocato, e pur non venni
376Co’ fedeli in contesa, e mi contenni.

XLVIII.


     Ch’avendo io preso di Cilicia il regno,
E l’insegne spiegatevi di Cristo;
Baldovin sopraggiunse, e con indegno
380Modo occupollo, e ne fè vile acquisto:
Chè, mostrandosi amico ad ogni segno,
Del suo avaro pensier non m’era avvisto;
Ma con l’arme però di ricovrarlo
384Non tentai poscia, e forse i’ potea farlo.

XLIX.


     E se pur anco la prigion ricusi,
E i laccj schivi quasi ignobil pondo:
E seguir vuoi l’opinioni e gli usi,
388Che per leggi d’onore approva il mondo;
Lascia quì me ch’al Capitan ti scusi;
Tu in Antiochia vanne a Boemondo:
Chè di sopporti, in questo impeto primo,
392A’ suoi giudícj assai sicuro stimo.

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L.


     Ben tosto fia (se pur quì contra avremo
L’arme d’Egitto, od altro stuol Pagano)
Ch’assai più chiaro il tuo valore estremo
396N’apparirà, mentre starai lontano:
E senza te parranne il campo scemo,
Quasi corpo, cui tronco è braccio o mano.
Qui Guelfo sopraggiunge, e i detti approva:
400E vuol che senza indugio indi si mova.

LI.


     Ai lor consiglj la sdegnosa mente
Dell’audace garzon si volge e piega:
Tal ch’egli di partirsi immantinente
404Fuor di quell’oste ai fidi suoi non nega.
Molta intanto è concorsa amica gente:
E seco andarne, ognun procura e prega.
Egli tutti ringrazia, e seco prende
408Sol due scudieri, e sul cavallo ascende.

LII.


     Parte; e porta un desio d’eterna ed alma
Gloria, ch’a nobil core è sferza e sprone:
A magnanime imprese intenta ha l’alma,
412Ed insolite cose oprar dispone:
Gir fra’ nemici; ivi o cipresso o palma
Acquistar per la fede, ond’è campione:
Scorrer l’Egitto, e penetrar sin dove
416Fuor d’incognito fonte il Nilo move.

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LIII.


     Ma Guelfo, poi che ’l giovine feroce,
Affrettato al partir, preso ha congedo;
Quivi non bada, e se ne va veloce
420Ove egli stima ritrovar Goffredo.
Il qual, come lui vede, alza la voce;
Guelfo, dicendo, appunto or te richiedo:
E mandato ho pur ora in varie parti
424Alcun de’ nostri araldi a ricercarti.

LIV.


     Poi fa ritrarre ogn’altro, e in basse note
Ricomincia con lui grave sermone:
Veracemente, o Guelfo, il tuo nipote
428Troppo trascorre, ov’ira il cor gli sprone;
E male addursi, a mia credenza, or puote
Di questo fatto suo giusta cagione.
Ben caro avrò, che la ci rechi tale;
432Ma Goffredo con tutti è Duce eguale.

LV.


     E sarà del legitimo e del dritto
Custode in ogni caso e difensore;
Serbando sempre, al giudicare, invitto
436Dalle tiranne passioni il core.
Or se Rinaldo a violar l’editto,
E della disciplina il sacro onore
Costretto fu, come alcun dice; ai nostri
440Giudícj venga ad inchinarsi, e ’l mostri.

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LVI.


     A sua ritenzion libero vegna;
Questo ch’io posso, ai merti suoi consento.
Ma s’egli sta ritroso, e se ne sdegna,
444(Conosco quel suo indomito ardimento)
Tu di condurlo, e provveder t’ingegna
Ch’ei non isforzi uom mansueto e lento
Ad esser delle leggi, e dell’impero
448Vendicator, quanto è ragion, severo.

LVII.


     Così disse egli; e Guelfo a lui rispose:
Anima non potea, d’infamia schiva,
Voci sentir di scorno ingiuriose,
452E non farne repulsa ove l’udiva.
E se l’oltraggiatore a morte ei pose,
Chi è che meta a giust’ira prescriva?
Chi conta i colpi, o la dovuta offesa,
456Mentre arde la tenzon, misura e pesa?

LVIII.


     Ma quel che chiedi tu, ch’al tuo soprano
Arbitrio il garzon venga a sottoporse,
Duolmi ch’esser non può; ch’egli lontano
460Dall’oste immantinente il passo torse.
Ben m’offro io di provar con questa mano
A lui, ch’a torto in falsa accusa il morse,
O s’altri v’è di sì maligno dente,
464Ch’ei punì l’onta ingiusta giustamente.

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LIX.


     A ragion, dico, al tumido Gernando
Fiaccò le corna del superbo orgoglio.
Sol, s’egli errò, fu nell’oblio del bando:
468Ciò ben mi pesa, ed a lodar nol toglio.
Tacque, e disse Goffredo: Or vada errando,
E porti risse altrove: io quì non voglio
Che sparga seme tu di nuove liti:
472Deh, per Dio, sian gli sdegni anco finiti.

LX.


     Di procurare il suo soccorso intanto
Non cessò mai l’ingannatrice rea.
Pregava il giorno, e ponea in uso quanto
476L’arte, e l’ingegno, e la beltà potea.
Ma poi, quando stendendo il fosco manto
La notte in Occidente il dì chiudea,
Fra duo suoi cavalieri e due matrone,
480Ricovrava in disparte al padiglione.

LXI.


     Ma benchè sia mastra d’inganni, e i suoi
Modi gentili, e le parole accorte,
E bella sì, che ’l ciel prima nè poi
484Altrui non diè maggior bellezza in sorte;
Talchè del campo i più famosi eroi
Ha presi d’un piacer tenace e forte;
Non è però, ch’all’esca de’ diletti
488Il pio Goffredo lusingando alletti.

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LXII.


     Invan cerca invaghirlo, e con mortali
Dolcezze attrarlo all’amorosa vita:
Chè qual satúro augel, che non si cali
492Ove, il cibo mostrando, altri l’invita;
Tal ei, sazio del mondo, i piacer frali
Sprezza, e sen poggia al ciel per via romita;
E quante insidie al suo bel volo tende
496L’infido Amor, tutte fallaci rende.

LXIII.


     Nè impedimento alcun torcer dall’orme
Puote, che Dio ne segna, i pensier santi.
Tentò ella mill’arti, e in mille forme,
500Quasi Proteo novel, gli apparve innanti:
E desto Amor, dove più freddo ei dorme,
Avrian gli atti dolcissimi, e i sembianti;
Ma quì (grazie divine) ogni sua prova
504Vana riesce, e ritentar non giova.

LXIV.


     La bella donna, ch’ogni cor più casto
Arder credeva ad un girar di ciglia,
Oh come perde or l’alterezza e ’l fasto,
508E quale ha di ciò sdegno, e maraviglia!
Rivolger le sue forze ove contrasto
Men duro trovi, alfin si riconsiglia:
Qual capitan ch’inespugnabil terra
512Stanco abbandoni, e porti altrove guerra.

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LXV.


     Ma contra l’arme di costei, non meno,
Si mostrò di Tancredi invitto il core;
Peroch’altro desio gl’ingombra il seno,
516Nè vi può loco aver novello ardore:
Chè siccome dall’un l’altro veleno
Guardar ne suol, tal l’un dall’altro amore.
Questi soli non vinse: o molto, o poco
520Avvampò ciascun altro al suo bel foco.

LXVI.


     Ella, sebben si duol che non succeda
Sì pienamente il suo disegno e l’arte,
Pur, fatto avendo così nobil preda
524Di tanti eroi, si riconsola in parte.
E pria che di sue frodi altri s’avveda,
Pensa condurgli in più sicura parte,
Ove gli stringa poi d’altre catene,
528Che non son queste ond’or presi gli tiene.

LXVII.


     E, sendo giunto il termine che fisse
Il Capitano a darle alcun soccorso,
A lui sen venne riverente, e disse:
532Sire, il dì stabilito è già trascorso:
E se per sorte il reo tiranno udisse
Ch’i’ abbia fatto all’arme tue ricorso,
Prepareria sue forze alla difesa:
536Nè così agevol poi fora l’impresa.

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LXVIII.


     Dunque, prima ch’a lui tal nova apporti
Voce incerta di fama o certa spia,
Scelga la tua pietà fra’ tuoi più forti,
540Alcuni pochi, e meco or or gl’invia:
Chè, se non mira il Ciel con occhj torti
L’opre mortali, o l’innocenza oblia,
Sarò riposta in regno, e la mia terra
544Sempre avrai tributaria in pace, e in guerra.

LXIX.


     Così diceva; e ’l Capitano ai detti
Quel che negar non si potea, concede:
Sebben, ov’ella il suo partir affretti,
548In se tornar l’elezion ne vede:
Ma nel numero ognun de’ dieci eletti
Con insolita instanza esser richiede:
E l’emulazion che ’n lor si desta,
552Più importuni gli fa nella richiesta.

LXX.


     Ella, che in essi mira aperto il core,
Prende, vedendo ciò, novo argomento:
E sul lor fianco adopra il rio timore
556Di gelosia per sferza e per tormento;
Sapendo ben, ch’alfin s’invecchia amore
Senza quest’arti, e divien pigro e lento;
Quasi destrier che men veloce corra,
560Se non ha chi lui segua, o chi ’l precorra.

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LXXI.


     E in tal modo comparte i detti sui,
E ’l guardo lusinghiero, e ’l dolce riso,
Ch’alcun non è che non invídi altrui:
564Nè il timor dalla speme è in lor diviso.
La folle turba de gli amanti, a cui
Stimolo è l’arte d’un fallace viso,
Senza fren corre, e non gli tien vergogna,
568E loro indarno il Capitan rampogna.

LXXII.


     Ei ch’egualmente satisfar desira
Ciascuna delle parti, e in nulla pende;
Sebben alquanto or di vergogna, or d’ira
572Al vaneggiar de’ cavalier s’accende;
Poich’ostinati in quel desio li mira,
Novo consiglio in accordarli prende.
Scrivansi i vostri nomi, ed in un vaso
576Pongansi, disse, e sia giudice il caso.

LXXIII.


     Subito il nome di ciascun si scrisse,
E in picciol’urna posti e scossi foro,
E tratti a sorte: e ’l primo che n’uscisse
580Fu il Conte di Pembrozia Artemidoro.
Legger poi di Gherardo il nome udisse:
Ed uscì Vincilao dopo costoro:
Vincilao, che sì grave e saggio innante,
584Canuto or pargoleggia e vecchio amante.

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LXXIV.


     Oh come il volto han lieto, e gli occhj pregni
Di quel piacer che dal cor pieno inonda,
Questi tre primi eletti, i cui disegni
588La fortuna in amor destra seconda.
D’incerto cor, di gelosia dan segni
Gli altri, il cui nome avvien che l’urna asconda:
E dalla bocca pendon di colui
592Che spiega i brevi, e legge i nomi altrui.

LXXV.


     Guasco quarto fuor venne, a cui successe
Ridolfo, ed a Ridolfo indi Olderico;
Quinci Guglielmo Ronciglion si lesse,
596E ’l Bavaro Eberardo, e ’l Franco Enrico:
Rambaldo ultimo fu, che farsi elesse
Poi, fe cangiando, di Gesù nemico;
Tanto puote Amor dunque? e questi chiuse
600Il numero de’ dieci, e gli altri escluse.

LXXVI.


     D’ira, di gelosia, d’invidia ardenti
Chiaman gli altri Fortuna ingiusta e ria:
A te accusano, Amor, che le consenti
604Che nell’imperio tuo giudice sia.
Ma perchè instinto è dell’umane menti,
Che ciò che più si vieta, uom più desia,
Dispongon molti, ad onta di Fortuna,
608Seguir la donna, come il ciel s’imbruna.

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LXXVII.


     Voglion sempre seguirla all’ombra, al Sole,
E per lei, combattendo, espor la vita.
Ella fanne alcun motto, e con parole
612Tronche, e dolci sospiri a ciò gl’invita:
Ed or con questo, ed or con quel si duole,
Che far convienle senza lui partita.
S’erano armati intanto, e da Goffredo
616Toglieano i dieci cavalier congedo.

LXXVIII.


     Gli ammonisce quel saggio a parte a parte,
Come la fe Pagana è incerta e leve,
E mal sicuro pegno: e con qual’arte
620L’insidie, e i casi avversi uom fuggir deve.
Ma son le sue parole al vento sparte:
Nè consiglio d’uom saggio Amor riceve.
Lor dà commiato alfine, e la Donzella
624Non aspetta al partir l’alba novella.

LXXIX.


     Parte la vincitrice, e quei rivali,
Quasi prigioni, al suo trionfo innanti
Seco n’adduce, e tra infiniti mali
628Lascia la turba poi degli altri amanti.
Ma come uscì la notte, e sotto l’ali
Menò il silenzio, e i lievi sogni erranti;
Secretamente, com’Amor gl’informa,
632Molti d’Armida seguitaron l’orma.

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LXXX.


     Segue Eustazio il primiero, e puote appena
Aspettar l’ombre che la notte adduce.
Vassene frettoloso, ove nel mena
636Per le tenebre cieche un cieco duce.
Errò la notte tepida e serena;
Ma poi, nell’apparir dell’alma luce,
Gli apparse insieme Armida e ’l suo drappello,
640Dove un borgo lor fu notturno ostello.

LXXXI.


     Ratto ei ver lei si muove, ed all’insegna
Tosto Rambaldo il riconosce, e grida
Chè ricerchi fra loro, e perchè vegna.
644Vengo, risponde, a seguitarne Armida,
Ned ella avrà da me, se non la sdegna,
Men pronta aita, o servitù men fida.
Replica l’altro: Ed a cotanto onore,
648Dì, chi t’elesse? egli soggiunge: Amore.

LXXXII.


     Me scelse Amor, te la Fortuna: or quale
Da più giusto elettore eletto parti?
Dice Rambaldo allor: nulla ti vale
652Titolo falso, ed usi inutil’arti:
Nè potrai della vergine regale
Fra i campioni legitimi mischiarti,
Illegittimo servo: e chi, riprende
656Cruccioso il giovinetto, a me il contende?

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LXXXIII.


     Io tel difenderò, colui rispose;
E feglisi all’incontro in questo dire:
E con voglie egualmente in lui sdegnose
660L’altro si mosse, e con eguale ardire.
Ma quì stese la mano, e si frappose
La tiranna dell’alme in mezzo all’ire;
Ed all’uno dicea: deh non t’incresca
664Ch’a te compagno, a me campion s’accresca.

LXXXIV.


     S’ami che salva i’ sia, perchè mi privi
In sì grand’uopo della nova aita?
Dice all’altro: opportuno, e grato arrivi
668Difensor di mia fama, e di mia vita.
Nè vuol ragion, nè sarà mai ch’io schivi
Compagnia nobil tanto, e sì gradita.
Così parlando, ad or ad or tra via
672Alcun novo campion le sorvenia.

LXXXV.


     Chi di là giunge, e chi di qua: nè l’uno
Sapea dell’altro; e’l mira bieco e torto.
Essa lieta gli accoglie, ed a ciascuno
676Mostra del suo venir gioja e conforto.
Ma già nello schiarir dell’aer bruno
S’era del lor partir Goffredo accorto:
E la mente, indovina de’ lor danni,
680D’alcun futuro mal par che s’affanni.

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LXXXVI.


     Mentre a ciò pur ripensa, un messo appare
Polveroso, anelante, in vista afflitto,
In atto d’uom, ch’altrui novelle amare
684Porti, e mostri il dolore in fronte scritto.
Disse costui: Signor, tosto nel mare
La grande armata apparirà d’Egitto:
E l’avviso, Guglielmo il qual comanda
688Ai liguri naviglj, a te ne manda.

LXXXVII.


     Soggiunse a questo poi, che dalle navi
Sendo condotta vettovaglia al campo,
I cavalli, e i cammeli onusti e gravi
692Trovato aveano a mezza strada inciampo:
E che i lor difensori uccisi, o schiavi
Restar pugnando, e nessun fece scampo;
Da’ ladroni d’Arabia, in una valle,
696Assaliti alla fronte ed alle spalle.

LXXXVIII.


     E che l’insano ardire, e la licenza
Di que’ barbari erranti è omai sì grande,
Ch’in guisa d’un diluvio intorno, senza
700Alcun contrasto, si dilata e spande;
Onde convien ch’a porre in lor temenza
Alcuna squadra di guerrier si mande,
Ch’assicuri la via che dalle arene
704Del mar di Palestina al campo viene.

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LXXXIX.


     D’una in un’altra lingua in un momento
Ne trapassa la fama e si distende:
E ’l volgo de’ soldati alto spavento
708Ha della fame che vicina attende.
Il saggio Capitan, che l’ardimento
Solito loro in essi or non comprende,
Cerca con lieto volto, e con parole,
712Come li rassicuri e riconsole.

XC.


     O per mille periglj, e mille affanni
Meco passati in quelle parti, e in queste,
Campion di Dio, ch’a ristorare i danni
716Della Cristiana sua fede nasceste;
Voi, che l’armi di Persia e i Greci inganni,
E i monti e i mari, e ’l vento e le tempeste,
Della fame i disagj e della sete
720Superaste; voi dunque ora temete?

XCI.


     Dunque il Signor, che n’indirizza, e move,
Già conosciuto in caso assai più rio,
Non v’assicura? quasi or volga altrove
724La man della clemenza, e ’l guardo pio?
Tosto un dì fia, che rimembrar vi giove
Gli scorsi affanni, e sciorre i voti a Dio.
Or durate magnanimi, e voi stessi
728Serbate, prego, ai prosperi successi.

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XCII.


     Con questi detti le smarrite menti
Consola, e con sereno e lieto aspetto;
Ma preme mille cure egre e dolenti,
732Altamente riposte in mezzo al petto.
Come possa nutrir sì varie genti
Pensa, fra la penuria e fra ’l difetto:
Come all’armata in mar s’opponga, e come
736Gli Arabi predatori affreni, e dome.