Giacomo Leopardi/XIX. 1822-23: «Alla sua donna»

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XIX. 1822-23: «Alla sua donna»

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XIX

1822-23


«ALLA SUA DONNA»

Più vicina al cuore è la Sua Donna. Non è già un inno all’amata, non è già che il cuore si svegli agli antichi palpiti. Anche qui la tendenza è alla riflessione; ma la riflessione piglia la forma di un’amabile fantasticheria, accompagnata da una emozione contenuta. Questo è il carattere originale e superiore della canzone del Leopardi.

Coloro che giudicano di opere di arte con animo archeologico, diranno subito: — Ecco, qui dentro c’è del platonico e del petrarchesco. E non solo ci è il concetto delle idee platoniche e delle donne indiate, ma ce n’è anche la espressione, una forma luminosa ed elegante, levigata qua e là con una abilità tecnica, che ricorda le migliori cose del Petrarca — .

Tutto questo c’è, come c’è in molti poeti contemporanei, di grande e piccola levatura. Ma chi potrebbe perciò confondere questa con le infinite imitazioni petrarchesche? Il platonico ed il petrarchesco entra anche nella storia dello spirito del Leopardi, formato dagli studi. E n’è prova la canzone per la giovinetta ammalata di mal sottile, e il Primo amore, imitazioni giovanili. Ma ora Leopardi è uomo. Ha acquistata la sua personalità e la sua originalità. Petrarca, Platone, Dante, latini, greci, tutto ciò egli lo impasta a modo suo e v’imprime la sua fisonomia. E questa fisonomia è da cercare, se vogliamo cogliere ciò che vi è di essenziale e d’interessante nella canzone. [p. 169 modifica]
La sua donna può essere una idea platonica, può essere una abitatrice di Venere, può essere una delle donne indiate di Dante e di Petrarca, può essere una reminiscenza dell’età dell’oro, od un presentimento di più felice età. E di questi «può essere», di questi «forse» è ordita la vagabonda fantasticheria del poeta. Tutto questo è possibile, ma nessuna di queste cose è certa, e così ogni base dogmatica è rovesciata, e l’esistenza di questa donna è abbandonata alle onde della immaginazione. «Mistero è tutto», anche questa donna è un mistero; ecco saltar fuori la fisonomia dell’autore. Non può affermare, non può dimostrare, fantastica. Gli si presentano tutte le ipotesi, e le fissa in forme peregrine, che ti fanno lucere innanzi una immagine fuggente, destinata ad oscurarsi e ricomparire in altra immagine. Sempre è quella, e sempre è altra. I «se» e i «forse» fortificano ancora più questo sentimento del cangiante e dell’infinito. La «leve anima intra la gente», «la non vestita di sensibil forma», l’«irraggiata da stella più vaga del sole», l’«ignoto amante», sono forme inaspettate e vive, che arrestano nella sua fuga l’immagine, e te la imprimono nella fantasia al punto stesso che la ti sfuma. Questo è un puro giuoco d’immaginazione; perché lo scrittore non crede in fondo a nessuna di queste ipotesi, e se le reca innanzi per vaghezza di reminiscenze poetiche, contemplando con diletto le varie immagini e scolpendole fortemente. Il mistero, il «se», il «forse», non turba il suo intelletto, non lo aguzza, non lo mette in una seria agitazione.

Nella quiete dell’intelletto l’immaginazione si dà carriera. Il poeta sa benissimo che questa donna non esiste; che è figlia della nostra immaginazione; che è un fenomeno psicologico, visibile e continuo nella giovinezza; che è insomma la Donna ideale che si cerca e non si trova in terra, né in cielo. Cosa sia e dove sia è il mistero, è l’ignoto; ciò che ci è di certo è l’apparizione della cara beltà in alcuni momenti della vita, e i suoi effetti sul cuore. Così all’incanto che nasce da quel mistero e da quel fantasticare si unisce l’emozione prodotta da quella apparizione. I due motivi, serpeggianti l’uno nell’altro, si contengono a vicenda e producono una impressione non serena e non turbata, che non [p. 170 modifica]è né l’una, né l’altra, perché è tutte e due insieme. Queste temperature medie chiudono nel loro grembo parecchi movimenti estetici, circoscritti l’uno dall’altro, e generano quel piacere che è nella temperanza dei suoni e dei colori e degli accenti.

Pure, l’intonazione generale è mesta, perché l’emozione del poeta è sincera. Egli racconta la storia di una infelicità che non è peculiare a lui, ma è comune a tutta l’umana stirpe: ideare una beltà, non trovarla e non possederla, e col crescere degli anni non idearla neppure, negato non solo il piacere del reale, ma anche dell’immaginazione e del sentimento, non possedere, non contemplare e non sentire.

Or questo, che più o meno avviene a tutti, e costituisce l’infelicità della vita mortale, questo è insieme storia sua e infelicità sua, e gli produce una emozione che si comunica a tutto il rimanente. Indi non dirò la tristezza, ma la mestizia di quest’inno all’Ignota.

Scendiamo nell’anima del poeta. Egli è giovane ancora; pure, gli anni che sentiva giovenilmente sono già scomparsi. La vede ancora in sogno, per le valli, pei poggi, a riso di natura, a splendore di sole; ombra diva, che lo scuote nel suo torpore, «a palpitar lo sveglia». Ma è un’ombra, non è più persona viva, che nel suo giovanile errore sperava di trovare in terra. Era una illusione dei primi anni, quando l’amore di lei gli faceva seguire «loda e virtù». Ora piange i perduti desiri e la perduta speme. Potesse almeno serbare l’immagine, poi che gli è tolto il vero!

Quest’ultimo pensiero, che ricorda Petrarca, è nella lettera a Jacopssen:

Il n’appartient qu’à l’imagination de procurer à l’homme la seule espèce de bonheur positif dont il soit capable. C’est la véritable sagesse que de chercher le bonheur dans l’idéal.

La sua Donna non fu mai altro che un ideale, la donna della sua immaginazione.

Je savais que ce charme aurait été détruit en s’approchant de la réalité. Cependanl- je pensais toujours à cet objet, mais je ne le considerai pas d’après ce qu’ il était: je le contemplais dans mon imagination. [p. 171 modifica]
Gli uomini cercano di realizzare il loro ideale; egli temeva di avvicinarlo al reale, e serbava l’«alta specie» nell’immaginazione; la felicità per lui era solo contemplativa. E anche questa felicità gli è tolta.

Je vois avec une sort d’effroi que mon imagination devient stérile.

Questa canzone non è dunque una generalità, e tanto meno una imitazione o una reminiscenza. Qui dentro si muove tutta una storia personale in ciò che ha di più intimo. Ci si vede un momento felice in cui l’immaginazione s’è desta, e contempla la sua amata de’ primi anni, e se la pinge viva, al volto, agli atti, alla favella. E ne nascerebbe un entusiasmo giovanile, se non fosse contenuto dal mesto pensiero, che quella donna non è persona ma specie, l’«alta specie»; e che non gli è dato neppure di serbare quella: «e potess’io l’alta specie serbar»!

Se paragoniamo insieme la canzone alla giovinetta malata, il Sogno e quest’inno Alla sua donna, possiamo scorgere meglio il cammino del suo pensiero. La prima canzone non manca di alcuni tratti originali, ma nel concetto e nella forma è imitazione petrarchesca. Nel Sogno la donna morta in terra, e trovata in cielo più bella e meno altera è detronizzata; la donna del Sogno dice: «di beltà son fatta ignuda». Oltre a ciò è ivi l’espressione di un vero amore naturale, più a modo di Saffo, che a modo di Petrarca:

                                        Or mentre
Di baci la ricopro, e d’affannosa
Dolcezza palpitando all’anelante
Seno la stringo, di sudore il volto
Ferveva e il petto, nelle fauci stava
La voce, al guardo traballava il giorno.

Questi impeti questi rapimenti non li troveremo più. Nella sua lettera a Jacopssen dice:

Dans l’amour, toutes les jouissances qu’ éprouvent les âmes vulgaires, ne valent pas le plaisir que donne un seul instant de [p. 172 modifica]ravissement et d’émotion profonde. Mais comment faire que ce sentiment soit durable, ou qu’ il se renouvelle souvent dans la vie? Oú trouver un coeur qui lui réponde?

Il poeta ha rinunziato all’amore reale e profondo, in cui fa consistere la suprema felicità, e si contenta di un amore ideale e contemplativo; se ne contenta, con un certo disdegno del reale, un disdegno apparente, sotto cui si cela un inconsolato desiderio di quello.

Ciò è che rende malinconica la sua felicità contemplativa, accompagnata da inevitabili ritorni sui primi anni, dalla sua poca durata, da emozioni dolorose; vorrebbe ingannare sé stesso, chiudersi nella sua immaginazione, dov’è «le seul bonheur positif doni l’homme soit capable».

Ma questo «bonheur» non gli basta, quando pure durasse. S’illude, non scruta profondamente il suo male, di cui appare qua e lá l’espressione senza sua coscienza. Acutissimo osservatore del proprio petto, questo gli sfugge ed è la sua parte inconsciente: è cosa che nessuno vorrebbe confessare a sé stesso, dissimulata nei sofismi dell’intelletto, che si presta sempre al giuoco. Or questa parte incosciente è dessa appunto la Musa della poesia leopardiana, e ce lo rende sincero e commovente. La Donna reale del Sogno non è più. Succede la Donna ideale, la Donna della sua immaginazione. All’elegia succede l’inno; e perché il godimento non è intero, l’inno esce mescolato di motivi elegiaci.

Le canzoni a Paolina e al Vincitore nel pallone, a Bruto e a Saffo, alla Primavera e ai Patriarchi, e questa Alla sua donna, sono le sette poesie che egli chiamò le «nuove» canzoni. Le prime sei sono un campo chiuso, non hanno ulteriori esplicazioni. L’ultima è una prima formazione della Donna, è l’aurora di nuove poesie.