Giro del mondo del dottor d. Gio. Francesco Gemelli Careri/Libro II/IX

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Libro II - Cap. IX

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CAPITOLO NONO.

Ritorno in Costantinopoli.


S
Abato 20. partii per Montagnà, dove giunsi dopo 18. m. di strada fangosa, con tre ore di giorno. Questo luogo è situato parte sul piano, e parte sopra un colle, alla riva di un seno, che vi forma il Canale, di 30. m. di giro. Le case sono la maggior parte basse. Alloggiai in un ben grande, e famoso Xan, con buone camere, che tiene una fontana in mezzo, e sopra questa una loggia coperta di tavole, dove vanno i Turchi ad orare cinque volte il dì.

Domenica 21. partendosi due Caicchi (che sono picciole barche a tre remi) m’imbarcai per Costantinopoli sopra uno di essi; ed essendo solito visitarsi le robe, le mie valige non s’apersero, avendo mostrato il Thescherè o bollettino della Dogana di Alessandria. S’imbarcò meco un di quei Santoni Turchi, che chiamano Dervisci; non già di quelli, che vivono ritirati in comune, ma più tosto un birbante vagabondo, che ostentava una vita austera per ingannare il Mondo. Dall’umbilico in su lo coprivano due pelli di pecora; nel rimanente altre pelli accomodate a modo di gonna. In testa portava una berretta bianca con un [p. 367 modifica]lungo laccio sfioccato all’intorno del collo; come anche alla cintura appese più pietre di marmo, ed al destro braccio un braccialetto delle medesime ben stretto. Aveva di più una bacchetta nelle mani con un pezzo d’avorio in punta a modo di serra, per fregarsi le spalle, dove non potea giunger la mano, oltre una grossa mazza, ed un corno appeso allato, per servirgli di tromba: abito in vero sì ridicolo e stravagante, che meritava d’esser dipinto. Dopo 30. m. di cammino giugnemmo nel Casale di Bosborva, posto alla punta del seno, che fa il Canale, dove per lo vento contrario convenne fermarci.

Il Lunedì 22. (lasciato il duro letto apprestatoci dal suolo arenoso) quattro ore prima di giorno ci ponemmo in barca con poco vento; sicchè coll’ajuto de’ tre remi, che lentamente erano adoprati, arrivammo circa mezzo dì, dopo 30. miglia, a Caterlì picciolo luogo al lido del Canale.

I bei capegli, che ivi hanno le Donne Greche, non ho a quali paragonargli di tutti quelli, che ho veduti in tanti Imperi e Paesi trascorsi. Sciolti, senza veruna esaggerazione giungono a’ piedi, ed [p. 368 modifica]annodati in treccie ben grosse si stendono fino a mezza gamba: non corrisponde però il volto all’ornamento della testa, non essendo elleno molto belle.

Non partimmo il Martedì 23. a causa del mal tempo, avendo sofferto una mala notte, per non esservi Xan. Il Mercordì 24. dopo Vespro ci ponemmo in barca, e seguitammo a camminare tutta la notte con vento fresco, a segno che ci bagnammo noi, e le robe; tale fu la marea, che si mosse.

Quando credeva la mattina del Giovedì 25. trovarmi in Costantinopoli, mi vidi dopo 40. m. di cammino, nell’opposta riva del Canale sui terreno di Romelia, lungi 4. ore da Costantinopoli; e non potendo innoltrarci a cagion dei vento contrario, pigliammo terra vicino un molino. Alcuni Turchi se ne andarono a piedi; però io mi rimasi per l’impedimento delle robe, dormendo la notte dentro il molino, col mormorio e freschezza dell’acqua. Vedendo il Venerdì 26. che tutti i Turchi avean risoluto chi per terra, e chi per Mare andarsene a Costantinopoli; e non essendo nel nostro Rais disposizion di partire con quella mareggiata, anch’io m’animai a far [p. 369 modifica]l’istesso; e lasciando il servidore in custodia della roba, mi posi in una picciola barca, e dopo sette ore (per lo vento contrario) giunsi in Galata: osservando intanto lungo il Canale, che buona parte delle di lei mura son cadute, senza pensare i Turchi a rifarle. Mi disposi il Sabato 27. di ritornare alla barca, per prendere le mie robe, acciò non andassero in Dogana. Non mi riuscì il disegno, perocchè andandole all’incontro con un Caicco, la trovai giunta alla punta del Serraglio, e richiesto il Rais, che mi dasse le mie valige, mi disse, che non poteva farlo, per stare a vista della Dogana.

La Domenica 28. andai in Dogana con Mr. Mener, e con gran stento si contentò il Doganiere per un semplice diritto; pretendendolo doppio, senz’aver riguardo ai Tascarè di Alessandria; e dicendo, ch’era Regno separato, dove la Dogana (come quella d’Aleppo e Seide) è adeguata dal G. Signore a’ Bassà, che vi governano.

Paslai il Lunedì 29. a Costantinopoli, non ostante il divieto dell’officiale Turco. Trovai una galea sul punto di partire, per traggettare in Asia un Bassà, che andava alla Mecca, a visitare il [p. 370 modifica]Santuario Maomettano. Andava egli come in trionfo; portando i suoi servidori alcuni bastoni adorni di mirti, e come un turbate di tela, vago per la varietà di colori; alla punta dell’asta altri tenevano ligate penne di varie sorti: ciò che mi dissero, servir come di preparamento a quella divozione. Osservata di passaggio questa novità, passai vicino S. Sofia a vederci due antiche colonne di marmo bianco, che mi riferirno essere dentro le case di due Turchi. Trovai che l’una teneva un bel capitello lavorato; all’altra mancava, tagliato a bello studio, per poterla fabbricare dentro il muro: mi dissero, ch’erano uguali in altezza, che al mio giudizio sarà di 40. palmi, e di grossezza sedici, né altra notizia la loro ignoranza seppe darmi. Fra l’una, e l’altra colonna è una picciola strada larga venti palmi. Soddisfatta la curiosità me ne ritornai di buon passo a casa per timore de’ Turchi.

Era io ritornato da Smirne con deliberazione d’imbarcarmi per Trabisonda sul Mar nero, in compagnia de’ PP. Gesuiti Francesi, che passano alle loro Missioni; sicuro di non poter con la loro scorta prendere errore, facendo eglino la strada più brieve, meno dispendiosa, e più [p. 371 modifica]sicura da’ ladri, che vi sia, per portarsi in Persia: onde avendo trovato nel mio arrivo, che alcuni di essi aveano già patteggiato il passaggio, insieme con un P. Domenicano, sopra la saica d’un Greco, non trascurai l’occasione; ma presa una barca dopo desinare, me ne andai, 10. m. lontano, a’ Castelli dove stava la saica, per avervi imbarco ancora io. Or’i quattro PP. Francesi, e’l Domenicano aveano presa una camera per 25. piastre: ed avendo loro offerto di pagar la mia parte, ricusavano di ricevermi; perche voleano eglino i buoni Religiosi stare più agiati. Rivoltomi perciò al Rais, lo richiesi del luogo, che avea destinato per me sulla nave, per vedere se poteva starvisi onestamente. Egli mi condusse nell’istessa camera de’ Padri, che per esser buona, non ebbi di che lagnarmi, ma solamente volli sapere se vi venivano Turchi; mi rispose egli che nò, ma che vi sarei andato solamente io, e cinque Papàs; e ciò perche i Turchi si contentano star’ esposti alla pioggia, purche non eccedano il solito pagamento d’una piastra: e così senza restare obbligato a’ Religiosi, ebbi luogo nella lor camera, per lo prezzo di sei piastre, e un passaggio anche per lo servidore. [p. 372 modifica]

Gli accennati Castelli, situati in luogo dove il Canale è stretto un miglio, sono posti l’uno in Europa, con quattro picciole Torri ne’ quattro angoli, ed altre mezze lungo la cortina, con piccioli cannoni sopra; l’altro in Asia, che ha cinque picciole Torri, con altre mezze per lo circuito. In amendue i Castelli sono poche abitazioni per gli Soldati.

Vicino a’ medesimi è una corrente sì rapida verso il Mar bianco, che le barche picciole non ponno passare sopra, se non tirate con corde dalla riva; l’altra corrente è un miglio lontana verso Costantinopoli, a’ lati della quale li vedono picciole casette, ed un fanale rovinato.

Il Martedì 30. presa una barca, condussi le mie valige nella saica; avendo già pagato i diritti al Doganiere, che dà per l’affitto di tutte le Dogane dell’Imperio Ottomano (eccetto il Cairo, Aleppo, e Seide) 1500. borze di 500. ducati l’una. Godei di bel nuovo la prospettiva del Canale, dilettando lo sguardo dalla parte d’Europa sopra Galata, Toppanà, Biscitasci, Ortà-chioy, Crey-Jasmy, ed Arnaut; e sulla Riva d’Asia Cadì-chioy, il delizioso Scutaret, Euscungiù, Estauros, Cinghii-chloy, ed Elissar. [p. 373 modifica]Riposte le robe in nave me ne ritornai a casa per la stessa via, a disporre il di più per la partenza.

Non avendo in che occuparmi, ritornai il Mercordì 31. a vedere la colonna di Marziano Imperadore, per osservare dove mai potessero essere i due versi latini, che trascrisse Mr. Spon; giacchè per la privazione del Caimecan poteva andare in Costantinopoli con meno pericolo. Andai adunque nella Saraviana (ch’è molto più in giù di Cesada-bascì) ed entrato in una casa diruta d’un Turco, di nuovo vidi la colonna; e considerandola con meno timore per tutti i lati, non potei leggere tai versi; ma solamente vidi ne’ quattro angoli del capitello scolpiti quattro uccelli come Aquile; e nel piedestallo, dalla parte del bagno, due Angeli intagliati, che sosteneano uno scudo senz’alcuna figura, sopra al quale erano tre versi talmente rosi dal tempo, che non solo non si potevano leggere, ma nè anche conoscere il carattere; sicchè Mr. Spon nemmeno arebbe potuto interpretargli da cento anni addietro: aveano però maggior somiglianza a Greco carattere, che a Latino. Dagli altri tre lati erano tre scudi; come quello della [p. 374 modifica]Fortuna. Nel ritorno passai per la Zecca, dove vidi battere moneta.

Giovedì primo d’Aprile, essendo buona giornata, presi una barca, e per lo lato della estremità del gran Serraglio, passai in Asia a diportarmi nel Serraglio di Cavach, che tiene il G. Signore dirimpetto a quello di Europa. Trovai tutte le porte serrate, però vidi al di fuori quattro appartamenti alla maniera di Levante separatamente fabbricati, a’ quali s’entra per una porta di ferro: sonovi altre fabbriche negli angoli, e tutto il giardino è serrato di buone mura, con bellissimi ordini di cipressi, abeti, saggi, e molti alberi fruttiferi.

Essendo questo Serraglio vicino Calcedonia, passai di nuovo per osservare qualche reliquia della medesima; ma non vi trovai, come mi avean riferito, ancora in piedi la Chiesa, dove li celebrò il Concillo.

Nel venir a casa, vidi all’incontro la Torre di Leandro, un’altro Serraglio abitato dalla figlia di Sultan Mehemet, ch’è più grande del mentovato di Cavach, quantunque non cosi delizioso.

Il Venerdì 2. di Aprile, essendo giorno dedicato al mio Santo, mi confessai e [p. 375 modifica]comunicai; e il dopo desinare per mera curiosità dì vedere 24. bergantini di 28. remi l’uno, e sei galeotte di 42. e 44. desinate contro l’Armata Imperiale in Ungheria, inciampai nel funesto accidente, ch’ora sono per narrare. Sbarcato nella Darsena, vidi quella picciola Armata (provveduta di buona ciurma, e di 8. m. soldati) che per lo Canale dovea passare al Mar nero, ed entrare nella foce del Danubio, per combattere la contraria. Osservati lungamente questi piccioli legni tutti nuovamente fabbricati, mi spinse il Destino a vedere due carene di galeazze, che da più anni incominciate, restano imperfette, senza continuarsene il lavoro. Volendo quindi dare alcuni passi avanti appresso a gran moltitudine di persone, mi udii chiamare da un Turco, ch’era dì guardia: non gli diedi alcuna risposta, e passai più oltre; ma egli mi sopraggiunse, e mi condusse nella barracca d’un Capitano Francese rinegato. Costui mi fece vari quesiti; e volendo sapere alla fine dove andava, risposi, che andava in busca di un’amico. Non perciò mi lasciarono, ma menatomi avanti il Capitan Mezzo-morto, cominciarono tutti uniti a farmi più dimande della [p. 376 modifica]qualità, e nome dell’amico; e con tutto che le risposte soddisfacessero, mi condussero avanti il Capitan Bassà, dove aspettai mezz’ora, senza potergli parlare. Alla fine eglino ne diedero contezza al Provveditor Generale dell’Armata; il quale andato dal Capitan Bassà, nel ritorno mi comandò che andassi con un’ufficiale, che giusta l’ordine avuto condottomi al bagno de’ schiavi, mi consegnò al carceriere da parte del medesimo Capita Bassà.

Allora io cominciai ad esser sorpreso da grandissimo timore, in considerando, che mi trovava preso come spione da Barbari, ne’ cui petti non regna pietà, nè ragione, ma sopra vane immaginazioni fondano il meglio del loro operare. Volli in venendo al bagno parlare ad un Giudeo, acciò avvisasse Mr. Mener della mia prigionia; ma il Turco lo sgridò, correndogli dietro con sassi, sì che fuggì, e saltò ii Giudeo come un cavriolo. Il carceriere, barbaro di sede e di costumi, il primo passo che diede, fu di riconoscermi s’era circonciso; e vedendo che no, cominciò a porre in opra le minaccie, prima d’esaminarmi. Sentendo, che non era Veneziano, ma che per mera curiosità era andato a vedere le galeotte, e le [p. 377 modifica]carene delle galeazze, appresso a gran moltitudine di gente, non si soddisfece, ma si pose a vedere se addosso teneva scritture: nè trovadone alcuna (per aver io avuto sempre l’accortezza di lasciarle in casa, quando andava in luoghi sospetti) cominciò ad eseguire il di più che gli avea ordinato il Capitan Bassà. Mi fece adunque scalzare, e levare le gambe in alto in atto di farmi battere; tenendo due schiavi i bastoni nelle mani, mentre altri due mi tenevano in alto i piedi. Ma persistendo io nell’istessa narrazione, dandogli puntuale ragguaglio di tutto il mio viaggio; ed essendo l’ordine del Capitan Bassà solo di darmi terrore, senza passare all’effettive bastonate, mi rilasciò: rivedendo però di nuovo tutte le mie vesti, per ritrovarvi scritture, perche s’aveano immaginato, ch’io disegnava sul libretto di memoria la poppa d’un vascello; e buon per me fu, l’aver lasciata ogni scrittura in casa: solamente trovò una letterina, che mi era stata data da un Francese per portarla in Ispahan; perche l’orologio, e 20. zecchini gli avea nascosti, che se gli avesse trovati il Turco, mai più gli arebbe restituiti.

Terminate tai diligenze, fece pormi [p. 378 modifica]al piè sinistro una ben pesante catena di 14. annelli: poi mi condusse nella casa del Caffè, ed indi mi trasportò in quella d’un Fornaio Armeno; il quale vedendomi la notte dormire su d’una nuda tavola, ebbe la carità di darmi un sacco per ricoprirmi. Però più che la durezza della tavola, mi cruciavano la mente mille pensieri e di timore, e di speranza, i quali non mi davano minor noja del rumore, e strepitoso canto de’ Fornari; e delle morsicature degli animali notturni, di cui abbondava la stanza. Due notti sole stiedi in essa, perche il Turco soprantendente si lagnò, che io passeggiava con le scarpe sulle tavole del pane; onde mi menarono nell’altra, dove il pane si dispensava. Quivi un Polacco mi accomodò una coltre sulle tavole, dandomi per guanciale un suo mantello cosi ben fornito d’animaletti, che la notte seguente, per servirmene lo feci lavare; altrimente meglio mi sarei contentato d’una selce.

Benche i Turchi mi avessero vietato il conversare, e lo scrivcre, tanto feci il Sabato 3. che diedi contezza della mia prigionia a Mr. Mener. Egli subitamente andò a parlare al Capitan Bassà per la [p. 379 modifica]mia liberazione; ma trovatolo occupato nella spedizione della picciola Armata, non potè recarla ad effetto. Venne bensì nel Bagno, per fare ordinare al Rais della Saica, che consegnasse le mie robe a’ Padri Gesuiti, per tenerle a mio piacere in Trabisonda; imperciocchè non si era trovato a tempo il suo servidore a’ Castelli per farle sbarcare, e portarle in sua casa quando io fui carcerato, ma avea trovato partito il Rais.

La Domenica 4. vennero due PP. Gesuiti Francesi a dir Messa nel Bagno, per farla sentire a tutti noi altri carcerati; e’l Padre Superiore mostrò sentir molto il mio accidente.

Andai passeggiando il Lunedì 5. per lo Bagno in conversazione di alcuni Capitani Corsali, che quivi erano ritenuti, senza voler il Sultano ascoltar parola di riscatto: ciascheduno mi narrava le sue sciagure, con dolorosi sospiri, e come chiuse eran l’orecchie de’ Ministri Ottomani ad ogni loro proposizione.

Il Martedì 6. prima di mezzo dì fui sciolto dalle catene, e posto in libertà a richiesta de’ Deputati della nazion Francese Grimau, e Fabri; i quali rappresentarono per lo Turcimanno Brunetti, che [p. 380 modifica]io non era altrimente Veneziano, nè persona sospetta, ma della loro nazione, e ben conosciuto. Mi condusse il Brunetti dal Capitan Bassà, e Provveditor generale dopo l’escarcerazione, e parlò loro in mio nome.

Liberato da quella penosa carcere, in cui pareva un rumore infernale quello, che facevano le catene di mille schiavi, che allo spuntar dell’alba andavano al lavoro de’ vascelli, e galee; fui la mattina a desinare con Giovanni e David Mener, e Madama di costui moglie: e senza perder punto di tempo, immediatamente dopo andai a trovare il Rais d’una saica, che partiva per Trabisonda; patteggiando una camera separata per me quattro piastre.

I Padri Gesuiti, che aveano avuto a male, che io andassi nella loro camera, pure ebbero bisogno di prendere altro imbarco; imperciocchè eglino non volendo avere il disagio di dormire due notti in Mare sopra la saica, in cui erano le mie, e loro robe, si trattennero nel Convento aspettando, che nell’ora del partire lo Scrivano venisse a chiamargli: ciò che avendo persuaso anche a me, mi fur cagione della prigionia. Quietato il vento venne fedelmente lo Scrivano; ma [p. 381 modifica]perche bisognò consumar tempo in venire sei miglia distante, e i Padri dimorarono anche qualche spazio a partire; quando furono a’ Castelli trovarono la saica partita con le valige. In tal guisa per la seconda volta correndo rischio di mai più vedere le mie robe, mi partii (siccome ho detto) per gire in traccia delle medesime: e i Padri fecero lo stesso in un’altra saica con lo Scrivano. Tutte queste sciagure mi accaddero nella Settimana di Passione; e certamente posso dire, che mai a’ miei dì ne ho avuta una più dolorosa, e lagrimevole.