Giro del mondo del dottor d. Gio. Francesco Gemelli Careri - Vol. II/Libro III/III

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Cap. III

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CAPITOLO TERZO.

Della Pesca delle Perle, ed altre cose notabili

del Congo, e Seno Persiano.


A
Vendo data contezza del grande, e prezioso negozio delle perle, egli è dovere, che si parli della maniera, e tempo della lor pescagione. Quella si fa nel Seno Persiano, ed Isola di Baharen due volte l’anno; la prima a Marzo, ed Aprile; la seconda ad Agosto, e Settembre: la maggior vendita facendosi da Giugno per tutto Decembre. Ciò si fa cinque leghe discosto dalla Città (ove saranno quattro in dodici braccia di profondità) con molte barche dalla mattina sin dopo mezzo dì: ogni una di queste tiene il suo nuotatore, che si tuffa in Mare con una pietra di sei libre al dito grosso del piede, e ligato per sotto le braccia con una corda attaccata al capo della barca.

Egli si tuffa prestamente nell’acque, ajutato dal peso della pietra (che giunto al fondo si toglie subito, e i barcaiuoli la tiran su con una corda) e quanto più in fretta può, empie di ostriche un sacco fatto di reti, che ha un cerchio di ferro [p. 289 modifica]nell’estremità, per mantenerlo aperto: quando non può soffrire più il difetto della respirazione, colla corda, colla quale è ligato per sotto le braccia, dà segno a’ compagni, e questi con tutta la prestezza possibile lo tiran su; ciò che si replica più, e diverse volte per lo spazio di dieci ore. L’ostriche restano nel fondo ligate ad una fune, per torle a miglior agio.

Alcuni si pongono olio in bocca, per resistere maggiormente sott’acqua, e render chiaro il fondo, facendosene cadere qualche goccia di quando in quando. Passato Mezzodì, e tolte l’ostriche dall’acque, ritornano tutte le barche a terra, con un vento favorevole, che si leva dal Mare. Non si pigliano poi briga d’aprirle, perche lo fanno da loro stesse, corrompendosi; non essendo alcuno, che mangi volentieri la loro polpa, ch’è di mal sapore. I poveri vendono subito le perle a vil prezzo; ma chi non ha bisogno, le conserva sino a tanto ch’è finita la pesca, e poi le vendono tutte insieme a’ Baniani, e Mori. Costoro poscia separando le differenti qualità, vendono a minuto, per Abas in Persia, e per Ratì dentro l’Indostan; che son un’ottava meno del nostro carato Europeo, [p. 290 modifica]composto di quattro grani. Tutta questa pesca ascenderà, più o meno, ogni anno a cento e dieci mila scudi.

E’ pur lontano da ogni ombra di verirità quello, che scrissero gli antichi, che le perle si generano nella conca con la ruggiada, che cade dal Cielo; e che una solamente se ne truova per ogni conchiglia; imperocchè queste stanno immobili in un fondo di dieci, e più braccia, dove non può per alcuna via penetrar la ruggiada: e quanto al novero si sono trovate sette, e otto perle in una sola conchiglia, benche non tutte della medesima grossezza, ma qual più grossa, qual più picciola. Elleno si generano nella stessa maniera, che le uova nel ventre de’ volatili, di cui sempre il più grosso s’avanza verso l’orificio, restando le picciole nel fondo, per finire di formarsi: or così la perla più grossa s’avanza la prima, e l’altre più picciole non perfette, restano nel fondo della conca, finche abbiano la grossezza, che la natura loro può dare. E poi non si truovano perle in tutte l’ostriche, ma se ne aprono molte senza trovarcene pur’una.

In diverse parti del nostro gran continente si pescano perle, però le più [p. 291 modifica]stimate, cioè le più lucide e chiare, sono quelle della riferita Isola di Baharen, e della costa di Catifa nell’Arabia Felice; perche quivi se ne truovano ben poche gialle, ed ineguali. Il color giallo viene talora cagionato dal lasciare i mercatanti alle volte le conchiglie 14. e 15. giorni ad aprirsi da loro medesime; onde venendo alcuna fra questo tempo a perdere la sua acqua, s’imputridisce, e da quella infezione divien gialla la perla. Per altro le lasciano così aprire da per loro, perche se si facesse a forza, si potrebbe danneggiare, o rompere la perla.

Se ne truovano anche nel Giappone; però, come che nè quella Nazione, nè i Cinesi fanno gran conto delle perle, non se ne continua la pesca, nè s’usa la dovuta diligenza per investigare i banchi di arena, che ne abbondano maggiormente. Nell’Isole Filippine se ne truovano anche chiarissime, e a poco fondo, anzi nella foce de’ medesimi fiumi; però gli abitanti non sono ambiziosi d’aver nè perle, nettampoco dell’oro, che stà ne’ fiumi; ma amici dell’ozio, ripongono ogni loro ricchezza in un piatto di morischetta (cioè riso cotto in secco) la mattina, e un’altro la sera. Dicono [p. 292 modifica]dall’altro canto, che se pure ne facessero incetta, sarebbono loro tolte dal Paroco, o dall’Alcalde; rimanendo di più nemici d’uno di loro, per non averne da soddisfare amendue. In queste Isole le conchiglie medesime sono più chiare, che in altre parti.

Per tutta la costa della California se ne pesca una prodigiosa quantità; particolarmente dal Capo di S. Lucar, sino al Capo bianco dagl’Indiani detti Alzati. Costoro vanno nudi, ed errando come bruti; nè coltivano, nè seminano il terreno, ma si pascono delle frutta, radici, e cacciagione, che dà il paese. Le conchiglie le aprono sopra al fuoco, per mangiarne la carne, e così fanno perder alle perle la loro bontà. Ne pescano anche gli Spagnuoli dal Capo di Corrientes sino ad Acapulco; però le perle sono la maggior parte oscure, a color di piombo, ed ineguali; sicchè poco sarebbono stimate dal buon genio delle Dame Europee: le donne però Mexicane ne portano il collo, orecchie, e braccia coperte; poco curando della chiarezza, pur che le abbiano a buon prezzo, e i vezzi, e maniglie sian pesanti.

Nella costa del Perù, e Panama se ne prendono grosse, essendosene trovata [p. 293 modifica]taluna più grande della pellegrina; ma non tengono la chiarezza delle Orientali, anzi sono tutte schiacciate, nere, e piombose, a cagion del mal fondo, dove si generano, alle volte basso uno, e due braccia.

Nell’Isola della Margarita per l’addietro si pescavano anche buone perle, così per la grandezza, come per la chiarezza; oggidì però non se ne truova molte, oltreche la pesca s’è dismessa. Se ne prendono anche poche in Santa Marta, ed altre Isole, però di niun pregio, e valore.

Avendo abbastanza ragionato delle perle, egli fie bene dar contezza al lettore di altre cose notabili di quei luoghi. E primamente deesi sapere, che nelle vicinanze dell’Isola di Baharen, essendo tutte le acque di mal sapore, e salmastre; i forestieri, non avvezzi a beverla come i naturali (come che non ponno averne migliore, nè anche da’ luoghi di Terraferma) la fanno prendere dolce dal fondo del Mare, una lega discosto dall’Isola. Vi vanno quattro uomini in barca, de’ quali due si tuffano al fondo, con vasi ben serrati alla cintola: essi quando toccano terreno, subitamente aperti i vasi, l’empiono d’acqua (ch’è dolce per due o tre piedi dal suolo) e gli tornano a chiudere: [p. 294 modifica]indi danno il segno con una picciola corda, e sono tirati su dagli altri due rimasi in barca.

E’ singolare anche il modo di fabbricarsi le barche nel Congo; imperocchè in difetto di chiodi di ferro, ce ne pongono alcuni di canna, o bambù, e nel rimanente congiungono insieme le tavole con spaghi, e funicelle fatte di giunchi. In vece di ancore servonsi d’una grossa pietra forata, e per remi d’un legno con una tavoletta rotonda ligata nell’estremità. Vidi molti barcajuoli il Venerdì 15. che si adopravano, come tanti Sarti intorno una nuova barca.

Il Sabato 16. andai a restituir la visita a Giuseppe Pereira d’Azevedo Soprantendente. La Domenica 17. con molta solennità si cantò la Messa nella Chiesa de’ PP. Agostiniani Portughesi, colle porte aperte, appunto come se si fusse celebrata in Cristianità. Andando per lo Bazar il Lunedì 18. incontrai alcuni Arabi, che aveano fama di grandi osservatori della legge Maomettana: costoro chiedeano limosina in una bottega di Baniani; e per averla prestamente, e buona, si ponevano in bocca carboni accesi, come se fussero state ciriege. Mi dissero, [p. 295 modifica]che ciò facevano per opra del Demonio, al quale eran devoti per mezzo della stregoneria; e che ciò non era che apparentemente, e per una illusione degli occhi: però io gli vedeva realmente prendere il fuoco ben’acceso, e porselo in bocca.

Ritirato che fui in Convento, vidi passare avanti il medesimo due birbanti Arabi, che per avere una tenue limosina si battevano il petto a più non posso, con un chiodo lungo un palmo (la di cui testa solamente pesava ben’otto libre) senza che si facessero alcun male; quando l’istrumento era bastevole a passare una muraglia. Come ciò seguisse lo sanno essi, e’l Demonio, che in ciò gli ammaestra; so bensì, che questi gabba-mondo, e figli di perdizione non permettevano che altri gli battesse coll’istesso chiodo; perche forse l’incanto più loro non arebbe giovato.

Essendo alla vela in Gomron quattro vascelli della compagnia Olandese, mandammo un Corriere per avervi su l’imbarco; però giunse tardi, trovandogli di già partiti di ritorno per Batavia. La medesima sera i Baniani Idolatri cominciarono, per la festa del Divalì (ch’è un loro Dio, il quale dicono prendesse una Fortezza) ad adornare dentro, e [p. 296 modifica]fuori tutte le loro case, e botteghe di ricchi panni, e di lumi. Questa solennità dura tre giorni ogni anno, in memoria della favolosa vittoria, ed espugnazione di Fortezza; cessando ciascheduno di faticare. Andai io la medesima sera a vederla, e fui ricevuto con molta cortesia da que’ Mercanti Idolatri: avendomi eglino spruzzato il viso con acqua di rose nell’ingresso, come si costuma in Oriente; e poi fattomi sedere nel primo luogo, e regalato di quelle cose dolci, che dà il paese. Non guari di tempo dopo uscirono Ballarine del Syndì a ballare, per annunzio delle buone feste al Mercante. Elleno eran vestite parte alla Persiana, parte all’Indiana, e cantavano in ambe le lingue. Quelle che vestivano alla Persiana, aveano una Cabaya, o Ciamberlucco di seta rigata (che si stendeva sino a mezza gamba) però largo nella parte inferiore come una gonna: sotto portavano un lungo calzone sino al collo del piede, con un cerchio d’argento per ornamento. Le dita così de’ piedi, come delle mani erano adorne di molti annelli d’oro, e d’argento, e tinte d’immà, o terra rossa; siccome i denti, la parte interiore degli occhi, e la fronte di terra nera. In testa aveano una [p. 297 modifica]picciola berretta fasciata d’un dilicato drappo di lino, e seta; di sotto al quale cadevano le lunghe treccie sino alla cintola: un lungo velo giallo, o rosso copriva le spalle, e girando cadeva dinanzi gli omeri. Oltre i duplicati pendenti, tenevano in mezzo le narici un grosso annello d’oro, e nella fronte altri pendenti ligati, o incollati; però il più penoso ornamento mi parve quello del naso, perche nella sommità, e parte curva del medesimo, tenevano passato dall’una parto all’altra un picciol chiodo dorato, o d’oro per ornamento, che a noi altri Europei sembrava deformità. Nella gola aveano una collana d’oro, o vezzo di perle secondo il potere, e vaghe maniglie alle braccia. In quest’abito principiarono il ballo, con gravità, al suono d’un tamburo, e di due pezzi di metallo, che facevano un grande strepito giunti a’ sonagli, che aveano ne’ piedi. Continuarono poscia con infiniti atti, e posture immodeste, facendo quello scoppio di dita, che noi volgarmente chiamiamo castagnole, con le mani giunte assai graziosamente; o frammettendo il canto al ballo di quando in quando. A dire il vero mi piacque tanto, che volli vederlo più d’una volta, [p. 298 modifica]e da diverse ballarine, che andavano in giro d’una in un’altra casa.

Il Martedì 19. fatte porre le selle a’ quattro cavalli, che s’erano ricevuti per lo tributo del Re di Persia dagli uficiali di Portogillo; andammo Io, il Padre Vicario, il Padre Costantino, e’l Fattore di Bassora, in un luogo cinque miglia lontano verso Occidente, e trè discosto dal Mare, per veder un’antichissima Fortezza, detta Calaleston, o per dir meglio una Città forte edificata già da un Re di Persia sopra la Sommità d’un’alta rocca. Tiene di circuito tre miglia, nè vi si può avere ingresso, che per un cammino angustissimo, e precipitoso: oggidì non è in piedi veruna casa, essendo state appianate tutte dalla voracità del tempo, che per quanto puossi discernere dalle rovine, sono già molti secoli, che ha preso a divorarla. Vi si veggono sepolcri di Maomettani, et una Moschea dirupata; niuna cosa però può servire d’argomento più certo del suo antico splendore, che il numero di trecento ampie, e buone cisterne, delle quali la maggior parte è piena di terra, e ben poche d’acqua: bevemmo di questa con cose dolci, e la trovammo di buon sapore. [p. 299 modifica]

Accadde il Mercordì 20. un funesto, e strano caso. Essendo lo Scibandar del Congo mal soddisfatto di due ricchi Mercanti Arabi, coll’occasione che essi andarono in sua casa a visitarlo, diede loro (giusta il costume) il caffè, avvelenato con polvere (come ivi si disse) di diamanti. Uno lo beve, e l’altro per usar cortesia, io diede al Zio dello Scibandar: beverono amendue insieme col caffè la morte; imperocchè avendo la notte seguente mandate tutte in pezzi le interiora, passarono all’altro mondo: restando nello stesso tempo vendicato in parte il tradimento dello Scibandar, colle medesime sue velenose armi. Il servidore, che apparecchiò la micidiale bevanda, non si seppe, che se ne facesse; dicevano però, che l’avessero fatto uccidere, acciò non iscoprisse il vero.