Gli scorridori del mare/5. Il carico di carne umana

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5. Il carico di carne umana

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Capitolo V.

IL CARICO DI CARNE UMANA


La notte passò senza incidenti. I negri non avevano fatto alcun tentativo per sbarazzarsi dei legami; pareva si fossero ormai rassegnati alla loro triste sorte. Neppure il fiero Bonga aveva osato ribellarsi ai suoi guardiani. D’altronde la fuga sarebbe stata impossibile, perchè i marinai avevano circondato tutto il campo e accesi numerosi fuochi per sorvegliare le vicinanze.

All’indomani, ai primi albori, la lunga carovana si rimetteva in marcia, aprendosi penosamente il passo fra fitte boscaglie irte di piante spinose che facevano tribolare assai i poveri negri.

Fra quei macchioni giganteschi, la sorveglianza diventava difficile, poichè poteva riuscire facile ai negri di celarsi in quei folti cespugli. I marinai erano perciò divisi in vari drappelli, e percorrevano senza posa i fianchi della colonna.

Quelle precauzioni erano però inutili. I negri non manifestavano nessuna intenzione di cercare la libertà, non ignorando d’altronde che le palle dei fucili li avrebbero facilmente raggiunti, anche in mezzo ai boschi.

I marinai, per meglio terrorizzarli, li caricavano di legnate ogni qualvolta rallentavano la marcia o si permettevano di protestare. Anche il secondo, armato di uno scudiscio, si divertiva a dispensare frustate a tutti, imprecando orribilmente.

Il capo negro, vedendo maltrattare i suoi sudditi, fremeva di rabbia, e di tratto in tratto lanciava sguardi feroci sui marinai e soprattutto verso il secondo. Fece anzi un balzo innanzi come volesse lanciarsi su di lui, poi frenandosi tornò a camminare e si accontentò di stringere i suoi poderosi pugni.

Il secondo vide l’atto, allungò il passo e mettendosi a fianco del prigioniero gli disse con voce beffarda:

— Capo, cosa ne dici dei miei uomini? Non ti sembra che siano più valenti dei tuoi guerrieri, che non seppero difenderti? [p. 29 modifica]

Il negro gli lanciò uno sguardo ripieno d’odio e continuò a camminare.

— Ohè! Negretto mio, credi che le tue occhiate mi spaventino? — disse il secondo ridendo.

Il negro anche questa volta tacque; si morse però le labbra e fece gemere i legami.

Il secondo gli si avvicinò ancor più e fece fischiare lo scudiscio. Il gigante fulminò collo sguardo il bianco, poi facendo un passo indietro spezzò i legami, dicendo con voce minacciosa:

— Bianco, non irritarmi!

Sei o sette marinai si slanciarono contro di lui coi fucili spianati. Bonga non si mosse, e si lasciò tranquillamente rilegare.

Il secondo fece un gesto di meraviglia e di minaccia, borbottò alcune parole, poi si affrettò ad allontanarsi, temendo che quell’ercole, spinto all’estremo, gli si lanciasse improvvisamente addosso e lo strangolasse anche in mezzo ai suoi compagni.

La marcia continuò l’intera giornata in mezzo a selve più fitte, però alla sera furono segnalati i fari di posizione della nave e poco dopo il villaggio di Pembo, il quale, rischiarato dalla luna, sembrava un ammasso di coni e di cupole. Mezz’ora dopo la carovana vi entrava e gli schiavi venivano rinchiusi nel baracon. Otto marinai armati di fucili furono incaricati di vegliare intorno alla grande capanna, temendo che Pembo facesse sparire non pochi negri.

Al mattino il capitano Solilach scese a terra, e, trovato il secondo, gli domandò notizie sull’esito della caccia.

Mentre stavano chiacchierando, furono raggiunti da Pembo. Il monarca, già semi-ubriaco, reclamava vivamente le sue botti di acquavite, le merci e il sale. Il capitano credette opportuno di non insistere e gli fece consegnare ogni cosa, mentre i marinai cominciavano il carico di carne umana.

Quattro imbarcazioni furono messe nell’acqua, otto marinai armati presero posto in ognuna d’esse e si avvicinarono alla riva, dove altri venti armati sino ai denti, si tenevano pronti a consegnare i negri.

Il capitano con cinque de’ suoi uomini entrò nella gran capanna, fece venire dieci schiavi e li fece imbarcare nella prima lancia.

I negri, cupi, quasi vergognosi, presero posto nella imbarcazione, e, giunti sul bark, furono cacciati nel frapponte da cui non dovevano più uscire durante la lunga traversata.

Le altre imbarcazioni seguirono la prima, sbarcando altri negri, che andarono a raggiungere i loro disgraziati compagni.

Allorchè il capitano vide il re negro, non potè trattenere un grido di stupore, dinanzi a quello splendido campione della razza africana. Gli si avvicinò e gli chiese con accento alquanto raddolcito: — Chi sei? [p. 30 modifica]

— Bonga, — rispose il negro fieramente.

— Cosa eri prima?

— Domandalo a loro, — rispose additando i suoi sudditi. — Essi risponderanno che Bonga era il re della potente tribù dei Cassegna.

Il capitano tacque e fece passare il negro nel frapponte.

Il carico dei negri si compì rapidamente. Prima delle due tutto era terminato.

Gli uomini furono stivati a prora ed i più forti vennero incatenati agli anelli infissi nel tavolato. Le donne furono stivate a poppa coi loro bambini e lasciate libere.

Appena il carico fu compiuto, i marinai fecero la provvista di acqua, sotto la sorveglianza del secondo.

Tutte le botti ed i barilotti disponibili furono riempiti nella Coanza, stivati in buon ordine, cioè col tappo in alto, acciocchè non corressero rischio di vuotarsi.

Il capitano poi, in cambio di alcuni vecchi fucili, si fece dare un’ampia provvista d’olio d’elais, materia grassa e gelatinosa, e che costituisce il principale nutrimento degli schiavi a bordo dei negrieri. Vuotata poi un’ultima bottiglia con Pembo, il capitano e il secondo gli strinsero la mano promettendo di tornare il più presto possibile.

Mentre la musica reale suonava in onore dei bianchi, i marinai issarono le àncore e spiegarono le vele. Salutarono un’ultima volta il villaggio con un colpo di cannone, e il bark cominciò a discendere le rapide e bianche onde della Coanza.

Il capitano, ritto sul ponte, guardava il villaggio che a poco a poco smarrivasi fra il verde cupo dei boschi.

— Temo di non rivederlo mai più, — mormorava.

Un triste presentimento gli era balenato in mente, e gli diceva che non avrebbe riveduto più mai le verdeggianti sponde della Coanza. Forse quel presentimento era vero, ma Solilach lo ricacciò lungi da sè e si volse a comandare la manovra.

Quattro marinai, con degli scandagli si erano messi alla prora per misurare la profondità dell’acqua ed avvertivano il timoniere sulla via da prendere onde evitare i numerosi bassifondi che sorgevano qua e là. Il secondo stava attento a trasmettere gli ordini all’equipaggio.

Le due rive erano ovunque coperte da folta vegetazione, la cui ombra rendeva la navigazione sempre più difficile.

Però il sangue freddo del capitano e la bravura dell’equipaggio trionfarono e all’indomani il bark giungeva sano e salvo a un solo miglio dalla foce della Coanza. Solilach, temendo che qualche incrociatore lo aspettasse al largo, fece caricare tutti i cannoni, e ordinò che ognuno si tenesse pronto. Terminati i preparativi fece gettare le [p. 31 modifica]àncore, mise un’imbarcazione in acqua e comandò che otto marinai e il secondo che si dirigessero verso la foce, onde accertarsi se la via era libera. Di passo in passo che si avvicinavano alla foce, la corrente diventava più rapida, accrescendo la velocità dell’imbarcazione.

Alcune volte sulle due rive si alzavano stormi d’uccelli i quali venivano a volteggiare al disopra della lancia mandando grida roche, mentre dei tonfi ripetuti annunciavano la presenza di alcuni coccodrilli.

Alcuni minuti dopo, la scialuppa giungeva alla foce del fiume. Con pochi colpi di remo i marinai la spinsero in mare, e là girarono i loro occhi in tutte le direzioni per vedere se vi era qualche vela.

Nulla! Il mare era tranquillo, deserto.

— Tutto va bene, — disse il secondo.

— Iddio ci protegge, — mormorò un marinaio.

— Ed anche il diavolo, — esclamò il secondo, ridendo.

— Comunque sia, possiamo chiamarci fortunati. Si vede che gli incrociatori hanno paura di noi, — ripetè il marinaio.

— Arrancate lesti, figliuoli, e torniamo a bordo a recare la buona nuova, — disse il secondo.

La scialuppa virò sul posto, risalì rapidamente la Coanza, e venne a fermarsi presso il bark. Un marinaio gettò un’alzanella e l’imbarcazione venne saldamente ormeggiata.

Il secondo si aggrappò alla scala e risalì lestamente a bordo, ove l’aspettavano ansiosamente il capitano ed i marinai.

— Dunque? — gli domandò sollecitamente Solilach, muovendogli incontro.

— La fortuna è con noi, — rispose il secondo, ridendo.

— Nessun incrociatore?

— Nessuna vela, signore.

— Ecco una buona nuova; temevo che qualche nave ci aspettasse alla foce.

— Anch’io lo temevo, signore; però non siamo ancora giunti in America.

— Bah! Una volta in mare vedremo chi saprà raggiungerci. La Garonna non è una nave da lasciarsi prendere facilmente.

— Eh! Capitano! Conosco tre vascelli che potrebbero benissimo raggiungerci, — disse il secondo.

— Sono degli incrociatori?

— Sì, e due di essi incrociano precisamente nelle coste della Guinea e dell’Angola.

— Che navi sono?

— L’Orient, una bella corvetta da guerra, armata di sedici cannoni e centocinquanta uomini d’equipaggio.

— E l’altra?

— Il Cape-Town, un brik armato con dieci cannoni e novanta uomini d’equipaggio. [p. 32 modifica]

— Non importa; e poi il Cape-Town ha due cannoni di meno e se l’Orient ne ha sedici, e novanta marinai più di noi, non lo temo punto, — rispose il capitano che confidava nei suoi due cannoni da trentasei.

— Se verranno, noi saremo pronti a riceverli, — disse un vecchio artigliere, accarezzando un cannone.

— Sì, Vasquez, li riceveremo bene, — disse Solilach tornando sul ponte di comando.

— Su le àncore, — gridò il secondo mettendosi alla ribolla del timone.

I marinai si slanciarono all’argano, le due àncore vennero issate, e il bark riprese la navigazione, seguendo il filo dell’acqua. A poca distanza dal mare, il capitano fece spiegare le vele, e la Garonna, attraversata la barra, si slanciò arditamente in pieno mare.

Tutti gli sguardi si fissarono sull’orizzonte, ma anche questa volta nessuna vela era in vista. Pareva che la fortuna si ostinasse a proteggere quei trafficanti di carne umana!