I Caratteri/Il filosofo Teofrasto/Capo primo

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Il filosofo Teofrasto - Capo primo

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Teofrasto - I Caratteri (Antichità)
Traduzione dal greco di Goffredo Coppola (1945)
Il filosofo Teofrasto Il filosofo Teofrasto - Capo secondo

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CAPO PRIMO


L’«ELEGANTISSIMO» TEOFRASTO

L'erma di marmo bianco che ritrovata nella villa di Cassio a Tivoli è oggi riposta nel Museo di Villa Albani ed è contrassegnata dalla dicitura in greco Theophrasius Melantae Eresius, ci mostra Teofrasto cinquantenne, la fronte alta e spaziosa solcata da due rughe profonde, le sopracciglia alquanto aggrottate, il naso diritto e un po’ grosso, la bocca ampia ed aperta e carnosa col labbro superiore appena sporgente, la barba folta che gli ricopre le gote e il mento, i mostacchi spioventi, la capigliera densa e pressoché ricciuta come la barba, i lineamenti marcati, il collo proporzionato. Il ritratto ha tutte le caratteristiche della scuola attica del terzo secolo avanti Cristo, e però esprime nella sobria semplicità delle linee l’attitudine di Teofrasto alla meditazione, colorendone fra le labbra il sorriso arguto ma nient’affatto sdegnoso o sprezzante. Copia di un originale che fu probabilmente composto intorno al 322, allorché Teofrasto raccolse l’eredità di Aristotele alla direzione del Peripato, o anche più tardi nel 288-284 alla sua morte, esso è il solo ritratto che oggi possediamo di lui ed è tale che corrisponde forse in tutto all’immagine che di lui ci siamo fatta leggendone le opere e particolarmente i «Caratteri».

Nativo di Ereso o Eresso città dell'isola di Lesbo situata sopra un colle che stendesi fino al mare e distante ventotto stadii dal promontorio Sigeion, Teofrasto figlio del tintore Melanta studiò dapprima in patria con un Alcippo che noi non conosciamo [p. 4 modifica]altrimenti e poi si recò in Atene dove ascoltò Platone, addimostrandosi ben presto incline alla critica che Aristotele cominciava a muovere contro la dottrina delle idee e rivelandosi poi uno di quei platonico-aristotelici che la scuola del vecchio Platone accoglieva già nel suo seno, insieme con Eraclide Pontico e altri i quali costituirono il primo nucleo peripatetico dell’Accademia. Alla morte di Platone nel 347, succeduto al maestro l’accademico Speusippo e rimasta soccombente la tendenza peripatetica, Aristotele si allontana da Atene e trova ricetto in Asso sulla costa dell’Asia minore, donde tre anni dopo si portò a Mitilene per fondarvi insieme con Senocrate la sua prima scuola di filosofia. È facile immaginare che Teofrasto di Lesbo non fosse estraneo alla decisione di Aristotele, ed è altrettanto legittimo supporre che in Mitilene prima che in Atene siano state gittate le basi della filosofia aristotelica e propugnato perciò un indirizzo nuovo del platonismo. Non ancora del tutto avverso alla dottrina platonica e in ogni caso contemperato dalla presenza di Senocrate, che è e rimarrà fedele discepolo di Platone, il nuovo indirizzo dei filosofi di Mitilene converrà ritenerlo piuttosto un’opposizione contro quel confondere la filosofia nella matematica cui pareva indulgesse bizzarramente lo scolarca ateniese Speusippo.

In Mitilene, Aristotele e Teofrasto cominciarono a scorgere i pericoli dell’astrazione e del considerar la scienza della morale come una geometria del bene, e in genere dell’adottar per ogni scienza il metodo matematico; e cominciarono pertanto a richiamarsi alla realtà, senza tuttavia dimenticare che essi movevano alla conquista del mondo reale partendo dai presupposti platonici del mondo ideale. Aristotele era di poco più che dieci anni più vecchio di Teofrasto, e però non è in nessun modo da trascurare neppur per Teofrasto l’influsso dell’insegnamento platonico, tracce del quale noi avremo modo di scoprire nella composizione stessa dei Caratteri, ancor meglio evidenti che le altre pressoché incolori di stampo aristotelico. Era uomo assai intelligente e perspicace il nostro Teofrasto, e gli aneddoti che narrano com’egli fosse giudicato pronto e garbato da Aristotele ce lo dicono o degno di freni rispetto al suo compagno Callistene che abbisognava [p. 5 modifica]invece di sprone, o di parola piacevole al gusto come il vino di Lesbo rispetto a Eudémo che invece era asprigno come il vino di Rodi. E Aristotele non solo avrebbe mutato il suo primo nome di Tírtamo in questo di Teofrasto «ispirato dagli dei», ma l’avrebbe accreditato con quest’ultima battuta sentenziosa a suo successore, allorché nel 324 avanti Cristo fu costretto a ritirarsi in Calcide per sottrarsi all’accusa di empietà. E avrebbe per ciò solo provveduto egregiamente alle fortune della scuola, la quale par che si accrebbe di nuovi edifizi e di numerosissimi scolari, se è vero che intorno a Teofrasto si raccolsero ben duemila scolari e ch’egli seppe coltivare liberamente le tendenze e gl’ingegni, a tal punto che lo stoico Zenone mosso da gelosia lasciò scritto che il «coro» di Teofrasto era più numeroso, ma il sto più armonioso e concorde.

Scolaro di Teofrasto è Stratone che poi gli succederà nella direzione del Peripato, e scolari suoi sono anche il medico Erasfistrato, il commediografo Menandro, il grammatico Linceo di Samo e lo storico Diride anch’egli nativo di Samo, e quel Demetrio di Faléro che governò Atene per dieci anni dal 318 al 307. Protetto e ammirato da Cassandro, successore del grande Alessandro in Grecia, e da Tolemeo che governava l’Egitto, Teofrasto non sfuggì neppure lui alle accuse di empietà che la gelosia delle scuole avversarie sollevava contro i discepoli diretti di Platone e di Aristotele, e nel 319-318 fu costretto a difendersi in tribunale, forse dinanzi all’Areopago, dalla denunzia che tale Agnonide aveva presentato incolpandolo di sovvertir la fede negli dèi patrii. Egli stesso in una lettera indirizzata al suo condiscepolo e concittadino Fania raccontava che era assai difficile in Grecia ottenere tutti i suffragi a proprio favore non soltanto nei dibattiti della pubblica assemblea ma perfino nei giudiziari, per quanto piccolo potesse essere il numero dei giudici; e notizie di varia fonte confermano che il nostro filosofo, il quale volle difendersi da sé con le proprie parole e argomentazioni, pur essendo facundissimus tacque perché turbato dalla soggezione di parlare in pubblico, deturbatus verecundia, e non seppe dire altro che poche parole: tante, in ogni caso, che esse e l’assurdità e malvagità dell’accusa poco mancarono non facessero condannare Agnonide, [p. 6 modifica]

Dieci anni più tardi, quando il suo scolaro Demetrio di Faléro che governava Atene in nome di re Cassandro fu cacciato via in esilio e la filosofia peripatetica cadde anch’essa in disgrazia presso il nuovo monarca Demetrio Poliorcete figlio di Antipatro Monoftalmo, l’accusa di empietà contro Teofrasto fu ripresa con più violenza da Sofocle di Sunio il quale promulgò una legge affinché tutte le scuole filosofiche fossero bandite da Atene. E quel Demócare, nipote di Demostene, che in pubblica adunanza sostenne animosamente la legge sofoclea, accusò a viso aperto le scuole platoniche e aristoteliche di aver tratto vantaggio dalla Repubblica di Platone e dalle sue «illegali» Leggi, non solo concorrendo a spogliare i padroni dei propri averi per distribuirli agli schiavi e a far comunanza di mogli e di nozze, ma vivendo vita scellerata e indegna e attirando l’attenzione di tutti per la loro furfanteria. Assai probabilmente egli alludeva anche a Teofrasto, del quale, del resto, ricordò com’egli dieci anni innanzi non avesse saputo difendere se stesso dinnanzi all’Areópago, ma poche parole avesse a mala pena balbutito: «eppure, o Teofrasto, eran gli Ateniesi che ti giudicavano e non già i dodici giudici dell’Areopago!».

In verità, la legge di Sofocle pretendeva che nessuna scuola filosofica potesse fiorire in Atene la quale non avesse in precedenza ricevuto l’approvazione della pubblica assemblea, e Teofrasto fu insieme con altri capiscuola costretto a lasciar la città per un anno, ché per appunto un anno ebbe vigore quella legge e poi, nelle sempre instabili vicende della democrazia ateniese, essa fu abrogata, e il medesimo Sofocle, su accusa di un tal Filone, scolaro di Aristotele, condannato a pagar cinque talenti di ammenda, nonostante la difesa che a suo favore scrisse il solito Democare. Da allora fino al giorno della morte Teofrasto non ebbe nessun’altra noia che non fossero le polemiche contro gli avversari di altre scuole, soprattutto contro Epicuro e i suoi seguaci, perfino contro la Leonzio del cenacolo epicureo che osò di aggredirlo in scritti di purissimo dettato attico, lei che Cicerone affezionatissimo a Teofrasto chiama addirittura meretricula per essere stata la concubina di Metrodoro e forse anche l’amica [p. 7 modifica]di Epicuro. Leonzio era donna assai pericolosa, e non è escluso che fosse legata da amicizia con l’etèra Lamia favorita del Poliorcete; e dunque non è neppure escluso che allorché s’invelení contro Epicuro l’accusa di ateismo, Leonzio ritorcesse gli argomenti degli avversari del maestro suo, ricordando che non dalla scuola di Epicuro, ma dalle scuole di Platone e di Aristotele, erano usciti i «mutilatori delle Erme» come Alcibiade e i nuovi ermocópidi come Teofrasto. L’ambiente, corrotto e dominato da interessi economici e politici, era assai infocato ed esigeva perciò che anche i filosofi fossero o si trasformassero in uomini di mondo.

Nessuno può negare che Teofrasto fosse uomo di mondo. Le sue abitudini sembrano quelle di un elegante che veste robe, non dico di lusso, ma tutt’affatto diverse dalle altre logore e dimesse degli altri filosofi, e che mostrasi incline ai piaceri della tavola. L’antologista Stobeo ricorda che un suo detrattore gli rinfacciava «di non averlo mai veduto calzar scarpe con doppia suola o chiodate, e di assidersi sempre a tavola ben servita in un appartamento assai spazioso che gli permettesse anche di convitarvi liberalmente amici e scolari». Un altro antologista raccoglitore di curiosità letterarie, Ateneo di Nàucrati, riferisce che Teofrasto a lezione illustrava i più gravi argomenti con naturali artifizi, onde potevasi apprender meglio la cognizione delle cose belle e utili. Ed era così piacevole e arguto che il medesimo Ateneo ce lo mostra in cattedra maestro vivacissimo, narrando come «solesse venire al Peripato puntuale e vestito con accurata eleganza, e poi, messosi a sedere, tenesse lezione, e da nessun movimento o atteggiamento aborrisse, ma una volta imitando il ghiottone tirata fuori la lingua si leccasse le labbra». Teofrasto noi dobbiamo immaginarlo socievole e lindo senza soverchia affettazione o attillatura, ma di gusto fine e in tutto degno della proprietà e misura ch’egli soleva prediligere in quel che facesse e dicesse o scrivesse. Di carattere incline alla piacevolezza, [p. 8 modifica]raccontasi di lui che un giorno a re Cassandro il quale par che fosse provvisto di naso adunco o schiacciato, dicesse motteggiando: „è assai strano, o Cassandro, che gli occhi tuoi non cantino, sebbene il naso gliene offra incentivo“; ed egli stesso poi ha lasciato scritto che l’anima dovrebbe pagare al corpo un tanto per abitarvi, volendo con ciò fare intendere ch’essa non debba troppo pretender dal fisico ma provvedere alla sua sanità e robustezza.

La teoria che la felicità abbia bisogno dei beni esterni, in chiaro contrasto con la fede del platonismo e dell’Accademia e forse col medesimo Aristotele, spiegano perché mai la dottrina peripatetica sia apparsa più tardi intinta di pragmatismo, e siasi spinta fino alle esagerazioni dell’ingegnosissimo Dicearco. E spiegano altresi l’accanimento che Teofrasto mise in combattere la tesi epicurea della distruttibilità del mondo, e in affermare l’altra della sua eternità e del periodico ricostituirsi della civiltà. Spirito tutt’altro che apocalittico, Teofrasto è il primo entusiastico studioso della storia della cultura, ed è, come risulta dalle opere scientifiche sulla Natura delle piante, e sulle Origini delle piante, il primo che riesca a fondare felicemente una sistematica delle scienze, a quel medesimo modo che i suoi condiscepoli Aristósseno, Eraclide e Dicearco, talvolta d’accordo con lui tal’altra in disaccordo, fecero per la politica, la musica e la geografia. I suoi libri sulle pietre, sul fuoco, sugli animali, sulle acque, sugli odori, sui venti, sulle sensazioni, sui sudori, e su altri accidenti naturali ed umani sono frutto di questa sua curiosità scientifica e di ricerche le quali appaiono notevolmente precise e preziose nei frammenti. Risulta da cotali opere sulle piante che egli dovunque si recasse soleva raccogliere notizie ed appunti particolarmente utili agli studi, e vi si leggono difatti particolari sui platani che s’ammiravano in Stagira patria di Aristotele e presso la biblioteca di quella cittadina di Macedonia, e su altre piante arboree: i quali sono particolari che difficilmente egli avrebbe come osservato con altri occhi che non fossero come i suoi adusati alla ricerca e osservazione scientifica.

Altrettanto vivo ed acuto fu l’interesse suo per i problemi [p. 9 modifica]della rettorica, e una sua opera sul Dettato ebbe risonanza somma presso gli antichi, che, come Cicerone e Quintiliano, ne trassero consiglio a seriver le proprie dissertazioni sul medesimo argomento. E se fa meraviglia che nelle opere di botanica Teofrasto si riveli osservatore meticoloso al pari dei moderni fitologi, egualmente mirabile suona a noi quel che Cicerone ripete da Teofrasto nel capitolo 59 del De oratore a proposito del gesto che debbe accompagnar la parola, un gesto che non sia però scenico o istrionico se vogliasi esprimere ira o pietà, timore o forza, gioia o fastidio, ma virilmente composto, e la mano non sarà troppo espressiva ma accompagnerà le parole con le dita e il braccio sarà teso in alto come se fosse il dardo delle parole: manus autem minus arguta, digitis subsequens verba, non exprimens: brachium procerius proiectum, quasi quoddam telum orationis... «Ma», continua Cicerone ripetendo da Teofrasto, «tutto sta nel volto, e son gli occhi che hanno dominio sul volto giacché ogni nostro atto è dell’animo nostro e il volto è l’immagine dell’animo e gli occhi ne sono gl’indici, i quali sono quella parte del corpo che da sola può esprimere e comunicar tanti significati per quante sono le commozioni dell’animo, Teofrasto racconta che un attore di nome Taurisco era solito recitar volgendo le spalle al pubblico e con gli occhi immobili, fissi sur un oggetto qualunque». Ed è evidente che Teofrasto narrando di Taurisco, com’egli fosse pessimo attore, ne consideri anche la fisiognomica e ne studii il gesto e l’espressione del viso.

Per quel che a noi qui interessa dimostrare, tutta l’operosità filosofica e scientifica di Teofrasto si annunzia ricca di esperienze e tale che anche nel campo dell’etica debba apparire fecondamente innovatrice. Le sue stesse ricerche sullo stile, sulla tecnica oratoria, sull’arte istrionica, a giudicarne dai frammenti e dalle notizie, sono frutto di concreta esperienza umana, e ad analoghe conclusioni guidano quelle altre notizie e frammenti che noi possediamo di altre sue opere sul diritto contrattuale, sulle leggi, sulle feste, sulle invenzioni, sui legislatori, sui costumi politici, sul ridicolo, sulla commedia, e di un trattato di astronomia e di un altro sull’agricoltura. Teofrasto era un curioso nel miglior [p. 10 modifica]senso etimologico della parola, in omni historia curiosus o, forse meglio, ad investigandidum curiostor, se ci è permesso di adoprar per lui espressioni che Cicerone usa per altri filosofi dell’antichità; e in questo senso egli è per davvero il miglior discepolo di Aristotele ed è anche tutt’affatto diverso da Epicuro il quale scorgeva in lui l’autentico rappresentante di un indirizzo filosofico inteso e volto ad interessi culturali anziché filosofici. Egli è l’erede della biblioteca di Aristotele, ed è sua l’amara confessione con che credette a guisa di ammaestramento dover conchiudere la vita, rispondendo a quel discepolo che il dimandava se lasciasse nessun ricordo o consiglio:

«Niuno; salvo che l’uomo disprezza e gitta molti piaceri a causa della gloria, ma non così tosto incomincia a vivere che la morte gli sopravviene, e però l’amor della gloria è quant’altri mai svantaggioso. Vivete felici e lasciate gli studi che vogliono gran fatica; o coltivategli a dovere che portano gran fama. Se non che la vanità della vita è maggiore che l’utilità. Per me non è più il tempo a deliberare; considerate voi altri quel che sia più spediente». Tale è il racconto che leggesi in Diogene Laerzio, e queste e non altre sarebbero state, secondo il biografo, Ie parole di Teofrasto vicino a morte; ma esse non sono, io penso, da interpretare come credette di doverle interpretare Giacomo Leopardi, sibbene appaiono sempre più simili a quelle che Cicerone riferisce nel capitolo ventesimo ottavo del terzo libro delle «Disputazioni Tusculane»: Theophrastus autem moriens accusasse naturam dicitur, quod cervis et cornicibus vitam diuturnam, quorum id nihil interesset, hominibus, quorum maxime interfuisset, tam exiguam vitam dedisset: quorum si aetas potuisset esse longinquior futurum fuisse ut omnibus perfectis artibus, omni doctrina hominum vita erudiretur. Vicino a morte Teofrasto si sarebbe rammaricato che la natura avesse fatto dono ai cervi e alle cornacchie di una lunga vita che ad essi poco o nulla giovava, e per contro avesse dato agli uomini una vita troppo breve, i quali se potessero vivere più a lungo avverrebbe che forse sarebbero in ogni disciplina istruiti e culti e raggiungerebbero la perfezione nelle arti. [p. 11 modifica]

A me sembra pertanto che le parole del morente Teofrasto in Cicerone e in Diogene Laerzio una cosa soprattutto lamentino, la brevità della vita umana e la difficile condizione dell’uomo che, per correre dietro al vano rumor della gloria assai tardi s’accorge ch’egli medesimo ha sottratto tempo prezioso alle preziosissime gioie della sapienza e dello studio. E dunque Teofrasto esorta i discepoli a seguire o le vanità della vita o gli studi, o la mondana gloria che pur nella felicità ch’essa procura è tuttavia svantaggiosa o la fatica delle ricerche che però procurano fama e l’interiore felicità dello spirito. Aveva Teofrasto amato gli studi e la gloria mondana e la gloria vera sopra ogni cosa, e si avvedeva solo tardi che anch’egli per correr dietro alle vanità della vita aveva sottratto tempo prezioso all’esercizio della virtù, e però conobbe e dichiarò formalmente l’inutilità dei sudori umani, la poca proporzione che passa tra la virtù e la felicità della vita, e quanto prevalga la fortuna sul valore in quello che spetta alla medesima felicità così degli altri come ancor dei sapienti e dabbene.

Anche Cicerone scriverà che gli onori disingannano meglio che le sventure, e negli «Uffizi» finirà col dire come Teofrasto quae putavi esse praeclara expertus sum quam essent inania. E però penso che così siano da intendere le parole di Teofrasto e che in questo senso siano anche da correggere le considerazioni di Giacomo Leopardi in quella delle appendici alle «Operette morali» che tratta della comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte. Io non so dire se Teofrasto si credesse felice, e non oso immaginarlo, conoscendo quali punte di scetticismo e di feconda ironia potessero impedirgli di giudicarsi felice; ma posso dire ch’egli, no, non era di quelli i quali si compiacciono di affermare che il sapiente è felice per sé; ma che, pur devotamente legato alla sua scuola dove si recò fino negli ultimi giorni facendosi trasportare in lettiga perché vecchio e sofferente e pure acclamato per le vie di Atene e suntuosamente onorato di funebri fastosi alla sua morte, egli era comunque arrivato a conoscere «la somma della sapienza, cioè la vanità della vita e della sapienza medesima». [p. 12 modifica]

Ho citato le parole di Leopardi che mi sembrano più caratteristiche di tutte le altre della sopraccitata operetta, sebbene io non concordi col giudizio del poeta sul pessimismo di Teofrasto, ma creda, come ho detto innanzi, che l’amarezza del Teofrasto vicino a morte non nasca da pessimismo ma da scetticismo, e il filosofo rimpiangesse morendo di non poter più attendere agli studi e si rammaricasse altresì di non aver dedicato agli studi tutto il tempo di sua vita. «Ora», potremmo noi proseguire con altre parole di Leopardi, «ora volendo cercare quello che potesse avere indotto nell’animo di Teofrasto il sentimento della vanità della gloria e della vita, il quale a ragguaglio di quel tempo e di quella nazione riesce straordinario; troveremo primieramente che la scienza del detto filosofo non si conteneva dentro ai termini di tale o tal altra parte delle cose, ma si stendeva poco meno che a tutto lo scibile come si raccoglie dalla tavola degli scritti di Teofrasto lasciati perire la massima parte. E questa scienza universale non fu subordinata da lui come da Platone all’immaginativa, ma solamente alla ragione e all’esperienza, secondo l’uso di Aristotele; e indirizzata non allo studio né alla ricerca del bello, ma del suo maggior contrario che è propriamente il vero». A questa verità Teofrasto è stato sempre fedele, e questa verità egli ha desiderato di scoprire nelle cose animate e nelle fisiche e nelle politiche e morali e nelle religiose, e di essa egli è rimasto vittima una prima volta allora che fu accusato di sovvertir la fede negli dèi patrii, egli che tuttavia fece opera di accesa religiosità in un suo scritto intitolato La religione, e anche dopo quando gli avversari lo maltrattarono e vituperarono acremente.

Scrive Cicerone: «Teofrasto è malmenato nei libri e nelle scuole di tutti i filosofi per aver lodato nell’opera intitolata Callistene quel motto che non la sapienza ma la fortuna è signora della vita, e però affermano che nessun filosofo ha mai detto sentenza più fiacca. E va bene, ma non capisco che mai si potesse dire di più vero...». E parrebbe per ciò che Teofrasto consigliasse [p. 13 modifica]viltà e non virtù nei suoi insegnamenti, e stringesse la ragione alla condizione del personale tornaconto ammiserendola in un volgare adattamento alle circostanze. La qual cosa senza dubbio intesero di rimproverare a Teofrasto quei filosofi troppo sottili e altrettanto superbi, i quali, non volendo confessare a sè stessi che virtù e sapienza non bastano alla beatitudine, trascurarono di considerare che l’amara sentenza di Teofrasto era scritta in un libro intitolato Callistene o il dolore, e che l’autore, legato a Callistene da intima affettuosa amicizia, ne piangeva la morte crudele e violenta dolendosi che la sorte l’avesse condotto accanto al grande Alessandro, uomo potente e fortunato e tuttavia incapace di capire in qual modo si debba far uso della fortuna e altresì pronto a sacrificare alla propria ambizione la virtù degli amici. Era Callistene nipote di Aristotele, e aveva accompagnato Alessandro nella spedizione contro la Persia come storiografo, ma, poiché aveva ingenerato negli adulatori del re ch’egli disprezzava avversione e odio contro la sua probità, Alessandro non esitò a condannarlo accusandolo di aver fatto parte della congiura di Ermoláo: orbene, Teofrasto, se vogliamo credere a Cicerone che leggeva quel suo scritto, non tanto dolevasi della misera sorte di Callistene quanto della fortuna che accompagnava la gloria di Alessandro.

Del resto, se qui volessimo riassumere con Cicerone il contenuto dell’opera che Teofrasto scrisse sulla vita beata e spiegare perché egli si opponesse alla comune credenza dei filosofi ostinati in proclamare che il saggio è felice fra i tormenti e incapati ormai in ridurre il Socrate platonico a un fantoccio di scuole e di teatro, dovremmo per ciò solo concludere che a Teofrasto appariva irreale e astratta una tale opinione. Egli è il medesimo Teofrasto che in un libro sulle ricchezze molto si distendeva a lodare la magnificenza e l’apparato degli spettacoli e delle feste popolari e metteva nella facoltà di queste spese molta parte dell’utilità che proviene dalle ricchezze; il medesimo che in un altro libro intitolato La polifica adattata alle circostanze, stabiliva quali fossero in uno Stato le inclinationes rerum et momenta temporum, quali cioè le tendenze e le circostanze, e come bisognasse a [p. 14 modifica]seconda delle necessità, adattarvisi. Ed è in ogni caso evidente quel che di coteste sue opere sulla vita beata e sulla politica pensasse Cicerone menzionandole l’una accanto all’altra nel capitolo quarto e quinto dei «Doveri», e affermando, sí, che la ratio teofrastea è più fiacca e comoda di quel che la forza della virtù, la virtutis vis non richiegga, ma concludendo: «serviamoci però di Teofrasto in molti punti, salvo che s’attribuisca alla virtà più consistenza e più gagliardia che questi non le diede».

Theophrastum tamen adhibeamus ad plerague, scrive Cicerone, accettandone quei precetti ai quali in ogni occorrenza si possono conformare le opere della vita, e pronunziando, per cosí dire, una tacita ma eloquente condanna di quel troppo volere ridurre agli ultimi termini le questioni morali, a’ quali non vengono mai nella pratica del vivere. Questi uffizi della vita civile, Teofrasto, conviene pur dirlo, intendeva ben meglio di altri filosofi, assuefatto com’era a credere, secondo gl’insegnamenti della natura, che le cose fossero cose e non ombre e la vita umana destinata ad altro che alla miseria. Si risolve, adunque, che Teofrasto in età di ottantacinque anni, avendola spesa tutta a studiare e scrivere e servire indefessamente alla fama e dato altresí opera a liberar due volte la patria sua dalla tirannide, ridotto come dice il lessicografo Suida all’ultimo della vita per l’assiduità medesima dello scrivere, circondato da forse duemila scolari ch’è quanto dire seguaci e predicatori delle sue dottrine, riverito e magnificato per sapienza da tutta la Grecia, moriva, diciamo così, penitente della gloria. Che è poi quel modo di risolvere e argomentare da Giacomo Leopardi proposto, con le parole da me ripetute, nella sopraccitata operetta, e che tuttavia non sarà da piegare a pessimismo, ma da giudicare come in tutto degno di un animo molto delicato e s’era assuefatto a meditare col metodo che appartiene alle scienze speculative.

L’etica di Teofrasto dipende direttamente da cotesto suo metodo sperimentale e razionalistico. E però direi che gli uomini ei li vedesse come vedeva le piante, e così li catalogasse come catalogava le piante e ogni altro elemento o accidente della natura. [p. 15 modifica]Teofrasto è preciso se vi descrive un albero o un arbusto, e scrive apte e distincte in quel suo temperato ed equabile dettato: «Il cosiddetto euonymus nasce altrove e anche sul monte chiamato Ordinno dell’isola di Lesbo, ed è grosso quanto un melograno e ha la foglia cadente, ma è più grosso del lauro-nano ed è tenero come il melograno. Comincia a germogliare in decembre e fiorisce di primavera, e il suo fiore è di colore simile alla viola bianca e odora forte come di sangue. Il frutto poi rassomiglia con la corteccia all’estremità del sesamo, e dentro esso è compatto ma diviso in quattro spicchi...»; «il vento zeffiro è più leggiero di ogni altro vento e soffia di sera e sulla terra ed è freddo, e c’è in due sole stagioni dell’anno a primavera e d’autunno. In certi luoghi soffia glaciale, sí che Omero lo denomina sgradevole, in altre invece soffia temperato e carezzevole sí che Filósseno definisce soave il suo soffio; e dei frutti alcuni li fa crescere, altri invece li guasta e addirittura li distrugge». Un osservatore cosí attento e meticoloso, cosí chiaro e perspicuo non è meraviglia che abbia messo altrettanta attenzione e meticolosità nello studio dei problemi etici e abbia piuttosto attinto dalla realtà che dall’immaginativa, e piuttosto dipinto e ritratto gli uomini e le cose degli uomini che fantasticato.

Egli viveva la vita tutti i giorni e la studiava senz’avvedersene, guidato dall’istinto a studiarla e considerarla con gli occhi e il cuore umanissimi. Persecutus est Aristoteles animantium omnium ortus, victus, figuras; Theophrastus autem stirpium naturas omnium que fere rerum quae e terra gignerentur, causas atque rationes... «Aristotele ha studiato il nascere, il modo di vivere, le figure di tutti gli esseri animati; Teofrasto, invece, ha studiato le origini e le forme di tutto ciò che dalla terra nasce e la natura delle piante»; e Cicerone conclude che per cotesta loro esperienza fu ad essi assai facile investigare anche i segreti delle più riposte cose, qua ex cognitione facilior facta est investigatio rerum occultissimarum: la qual relazione tra l’attività scientifica e l’etica e la rettorica di Teofrasto sembra cosí spontanea ed efficace che il medesimo Cicerone nel quinto libro dell’opera sui «Doveri» trova modo di piú volte rilevarne l’evidenza. Del resto io non sono alieno dal [p. 16 modifica]credere che teofrastea e dicearchiana e ciceroniana insieme sia questa sentenza, alla quale i letterati moderni non so se tutti vorranno adattarsi, ma che figura come ammonimento di anima onesta e civile nell’opera tulliana sugli uffizi del cittadino; «Che l’amore dell’investigazione del vero ci distolga dal bene operare è cosa al dovere contraria, poiché della virtú la lode tutta nell’azione è riposta, dalla quale però sovente l’uomo riposa e gli è dato ritornare agli studi». E altrove, in altro passo della medesima opera, leggesi a rincalzo: «Quei filosofi che s’adoprano nella investigazione del vero perché disprezzano le cose che a molti paiono fortemente desiderabili ed essi invece le tengono da nulla, si stimano giusti. Ma mentre l’un genere di giustizia conseguono, non nuocere recando danno, inciampano in altra ingiustizia e impediti dalla cura di apprendere, abbandonano quelli che pur dovrebbero con la parola aiutare».

L’elegantissimis omnium philosophorum et eruditissimus, questo Teofrasto che è il filosofo piú elegante ed erudito, non avrebbe saputo né potuto pensare altrimenti in tempi che non erano repugnanti agli otia dello studioso e neppure ai negotia dell’uomo di parte, e che gli diedero facoltà di non soltanto studiar le piante e le acque, ma anche di notar che gli abitanti di Tirinto erano proclivi a menar vita giocosa e che però messi dinanzi ad avvenimenti gravi ricorrevano per guarirne all’oracolo di Delfi; o di considerar come fossero i Greci della Ionia inchinevoli al fasto e al piacere. Io non oso dire che sia di Dicearco il frammento di un’opera sulla condizione della Grecia, che porta il nome del condiscepolo di Teofrasto e figura dedicato a Teofrasto ma che è senza dubbio di età molto piú tarda: dico però che chi la compose si serví certamente di un autentico scritto di Dicearco dedicato a Teofrasto, nel quale i cittadini di Orópo erano dipinti come scrocconi, e quei di Tànagra invidiosi, e i Tespiesi bastian contrari, e însolenti i Tebani, avidi quelli di Antédone, spocchiosi i Plateesi, stupida la gente di Alicarnasso, e falsamente officiosi quelli di Coronea. Il nostro filosofo raccoglieva d’ogni parte notizie che potessero illustrare i costumi e le consuetudini delle diverse genti e città e ne faceva tesoro per le sue opere, addimostrandosi sempre [p. 17 modifica]disposto al concreto, qualunque cosa egli imprendesse a scrivere, e perfino le passioni d’amore illustrando con aneddoti che ne chiarissero concretamente ed efficacemente il valore etico ed umano.

Dicearco di Messina era uomo di fortissimo ingegno e in una grande opera intitolata «La vita della Grecia» aveva pur dimostrato che la civiltà riduce sempre più l’uomo a un’esistenza infelice, accedendo piuttosto alla tesi della «Repubblica», del «Timeo» e di altri dialoghi di Platone che alla tesi aristotelica. Teofrasto no, non accettava le conclusioni di Dicearco, e difatti litigò con Dicearco allo stesso modo che questi aveva litigato col maestro Aristotele, ma i due erano tra loro d’accordo in credere che ormai filosofia e politica fossero una scienza sola, e Teofrasto avrebbe potuto far suo questo bellissimo frammento di Dicearco: «La politica non consiste in tenere una carica, in assumere un’ambasceria, in affannarsi a parlare e scrivere per raggiungere la tribuna degli oratori. Questo crede il popolo che sia la politica, e pensa altresi che la filosofia consista nel tener cattedra e pubblicare i corsi delle proprie lezioni. Politica e filosofia hanno, invece una loro continuità sulle azioni della vita cotidiana, che non è visibile giacché solitamente si dice che sono filosofi soltanto quelli i quali passeggiano nel portico, ma non si dice che è filosofo chi va in campagna o chi si reca a visitare un amico. Orbene, la filosofia è stretta parente della politica, e Socrate non fece costruire dei banchi né sedette in cattedra e non fissò per i suoi amici un’ora determinata di una sua conferenza o lezione, ma faceva della filosofia alla buona, scherzando, bevendo, in campagna o al mercato, e finí col farsi imprigionare e avvelenare; egli per primo dimostrando cosí che la filosofia abbraccia tutt’intera la vita di un uomo, nelle sue varie esperienze e attività. E però io credo che la medesima cosa possa dirsi della politica, giacché gli stolti, siano essi strateghi, burocrati od oratori, non fanno vera politica, ma o si mostrano in pubblico col codazzo dei propri clienti, o tengono concioni, o fanno i capipopolo, o prestano a forza la propria opera. Politica invece fa chi è socievole e umano e vuole il bene della sua città, e se ne prende cura per davvero, [p. 18 modifica]anche se non veste la montura, eccitando i competenti al governo, e guidando chi ha bisogno, e incutendo pudore agli scellerati... e non va, no, a teatro o al senato per farsi ammirar seduto nei primi posti, ma va dove piú gli piace per ascoltare e vedere, e anche se non è presente col suo corpo egli è sempre presente col suo giudizio...».

Cicerone faceva assai bene in lodar Dicearco chiamandolo «ammirevole» e «dottissimo», e sollecitandone dall’amico Attico, che ne era studioso e ammiratore appassionato, una copia di tutte le opere. E nonostante gli apparisse piuttosto filosofo della ragion pratica e Teofrasto invece ei lo sentisse e approvasse come filosofo della ragion teoretica, finí poi col dirimere l’antica controversia dei due e col chiamar l’uno e l’altro delicias meas. In verità io non credo che ci fosse mai controversia grave tra Dicearco e Teofrasto, ma credo che anche Teofrasto si acconciasse ai tempi, e dai tempi e dalle lor congiunture traesse, non dico profitto, ma esperienza. In ogni caso trasse quel che poté dal favore di Demetrio di Faléro, danari e soccorsi per il suo Peripato che crebbe in decoro di edifizi e di suppellettili e di libri e altre cose bisognevoli alla scuola. Che se poi una controversia scoppiò un giorno tra i due e li fece avversari, chissà se dei due si rivelasse piú «pratico» Teofrasto che Dicearco: questo Teofrasto che costruiva muove aule per le sue lezioni e pubblicava le opere sue e del maestro Aristotele, e in robe eleganti, riverito ed acclamato, passeggiava per le vie di Atene, e raccoglieva intorno a sé ben duemila scolari; o quel Dicearco che accarezzava tuttora, per volontà della sorte a lui malvagia o per libera elezione, i sogni vagabondi del figlio di Sofronisco e del marito di Santippe.