I Figli dell'Aria/27 - Una caccia al volo
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CAPITOLO XXVII.
Una caccia al volo.
Quella sconfitta inaspettata, doveva aver tolto ai Tibetani la speranza di riprendersi una rivincita sugli uomini bianchi.
La carica degli jacks, carica irresistibile, formidabile, che avrebbe dovuto spazzare via lo Sparviero o per lo meno ridurlo in uno stato così miserando da non poter più riprendere il viaggio, era stata veramente disastrosa per coloro che l’avevano organizzata.
Più di trenta cavalli erano rimasti a terra, atrocemente mutilati e parecchi Tibetani giacevano senza vita, coi fianchi fracassati ed i ventri squarciati.
— Un vero massacro, — disse il capitano che si era spinto oltre il villaggio assieme a Rokoff. — Se noi non arrestavamo quei furibondi animali, potevamo considerare il nostro viaggio finito per sempre.
— Sì, senza la vostra idea. Mi rincresce solamente pel vostro brandy, — rispose Rokoff. — Si poteva fare un punch migliore.
— Non lo rimpiangerò mai, perchè ci ha salvato la vita.
— Andiamocene, capitano. Ne ho abbastanza di questo vallone e anche degli altipiani del Tibet.
— Hanno già accomodato i piani, avendo avuto il tempo di ritirare il feltro prima che venisse stracciato dagli jacks. Viaggeremo colla massima velocità e non ci arresteremo che al lago di Mont-calm. Se nessun incidente sopraggiunge, fra tre giorni anche gli altipiani saranno superati e scenderemo verso regioni più civili.
— Vorrei già essere in India.
— Vi arriveremo, signor Rokoff, non dubitate. Spero però che non rinuncierete a vedere Lhassa, la capitale del Tibet, la sede del Budda vivente e del Gran Lama, una delle città più celebri del mondo e che ben rarissimi europei hanno potuto vedere.
— Giacchè lo volete, andremo a Lhassa. —
Non vedendo comparire più alcun Tibetano, levarono la lingua ad un jack che doveva essere stato ucciso, durante la carica da qualche cavaliere, e tornarono verso lo Sparviero.
Il macchinista aiutato da Fedoro e dallo sconosciuto, aveva allora terminato d’inchiodare il feltro sui piani danneggiati.
— È tutto pronto? — chiese il capitano.
— Sì, signore, — rispose il macchinista.
— Allora inalziamoci! —
Salirono tutti sul fuso.
In quel momento il sole, forata la nebbia, proiettò un fascio di luce nel vallone illuminandolo da un’estremità all’altra.
Più che un vallone era un immenso abisso di tre o quattro miglia d’estensione, largo cinque o seicento passi, colle pareti tagliate quasi a picco e alte per lo meno cinquecento piedi.
Un solo albero, un pino colossale, s’alzava quasi nel mezzo. Era su quello che lo Sparviero aveva urtato nella sua discesa e che per poco non aveva rovesciato il fuso.
Dall’altra parte invece, una gigantesca cascata saltava nell’abisso, con un fragore assordante, precipitando entro un profondo bacino.
Lo Sparviero mise in moto le ali e le eliche e si alzò maestosamente, salendo verso l’altipiano.
Aveva già raggiunto i duecento metri, quando dietro alcune rocce si udirono rimbombare dei colpi di fucile.
Erano i Tibetani che cercavano, ancora una volta, di abbattere gli stranieri.
Si erano nascosti in mezzo ad alcuni crepacci aperti nella parete e vedendo i loro nemici fuggire, li avevano salutati con una scarica.
Gli aeronauti non si degnarono nemmeno di rispondere. D’altronde lo Sparviero s’innalzava con crescente rapidità, aumentando di momento in momento la distanza.
Sorpassò il margine dell’enorme spaccatura e si slanciò attraverso gli altipiani nevosi con una velocità di trentacinque miglia all’ora.
L’uragano erasi calmato e anche la nebbia si era completamente dileguata sotto i vigorosi colpi di vento del settentrione.
Che caos però presentava l’altipiano, dopo lo scatenamento degli elementi! La neve, strappata dalle raffiche irresistibili, si era accumulata in mille guise, formando qui un bastione, più oltre una montagna, più innanzi una serie di cumuli che si profilavano indefinitivamente. In certi luoghi vi erano delle enormi valanghe staccatesi dai Crevaux e soprattutto dal Ruysbruck, la cui mole imponente giganteggiava un po’ al sud, all’estremità occidentale della catena e degli ammassi di ghiaccio capitombolato dai ghiacciai che si mostravano numerosissimi in quei luoghi.
— Guai se invece di scendere nel vallone noi ci fossimo arrestati qui, — disse il capitano. — Il nostro Sparviero sarebbe rimasto schiacciato subito, non credendo io che i Crevaux ci fossero così vicini.
— Ed è anche stata una fortuna che l’ala si sia spezzata, — disse Fedoro. — Diversamente ci saremmo fracassati contro quelle montagne che la nebbia c’impediva di scorgere.
— Sì, una disgrazia ed una fortuna ad un tempo.
— Che si rompa ancora l’ala?
— Non lo credo, essendo stata saldata perfettamente, meglio dell’altra volta.
— E anche i piani funzionano come prima?
— Sono diventati più pesanti, ma lo Sparviero ha una forza ascensionale poderosa e non se ne risente. Attenti, amici, passiamo i Crevaux.
— I Crevaux! — esclamò Rokoff. — Un nome francese in mezzo al Tibet.
— Dato a questi monti da Bonvalet, — rispose il capitano. — Quella missione ha battezzati anche parecchi laghi con nomi che ricordano la Francia. —
Lo Sparviero s’inalzava facendo forza d’ala, onde superare la catena, la quale appariva imponente, e con una massa di piramidi e di picchi altissimi, coperti di neve e di ghiaccio.
Esso si dirigeva fra l’estremità occidentale dei Crevaux ed il Ruysbruck, dove si vedeva una enorme spaccatura, che doveva servire di passo ai pellegrini provenienti dalla Mongolia.
Che orribile regione era quella! Abissi, valloni selvaggi, creste che pareva si spingessero fino in cielo, punte aguzze, nevi e ghiacciai. Non un albero, non una pianticella qualsiasi, nemmeno dei modesti licheni. Una vera regione polare, forse peggio; perchè anche nelle isole dell’Oceano Artico e anche in quelle dell’Antartico, durante la breve estate nasce un po’ di vegetazione.
E poi non un animale, non un volatile. Perfino le aquile mancavano.
— Questa si potrebbe chiamare la terra della desolazione, — disse Rokoff.
— In questa stagione sì, — rispose il capitano. — In estate invece vi sono dei pastori che si spingono anche quassù colle loro mandrie di jacks e di montoni.
— A pascolare che cosa?
— Le magre erbe che spuntano timidamente fra i crepacci.
— Questa regione non potrà mai essere popolata stabilmente.
— Eh! Chissà, signor Rokoff. Io non mi stupirei se fra due o trecent’anni anche questi spaventevoli deserti avessero una popolazione. Pensate che gli abitanti del nostro globo aumentano ogni anno prodigiosamente e che la nostra Terra rimane sempre eguale per estensione.
— Oh! Ve ne sono ancora degli spazi inoccupati.
— Meno di quello che credete, signor Rokoff. Guardate l’America del Nord per esempio. Cinquant’anni or sono le sue immense praterie erano popolate solamente da poche centinaia di migliaia d’indiani; oggi tutti quei terreni sono stati invasi dalla razza bianca che non è meno prolifica di quella mongola, e spazi liberi o semi deserti non ve ne sono quasi più.
— Non dico di no.
— Guardate l’Africa. Cent’anni or sono aveva immense plaghe abitate da tribù di negri; ora gran parte di quel continente è stato invaso e fra altri cinquant’anni non vi saranno più terre disponibili.
— In quanti siamo ora noi?
— La popolazione del mondo conta oggidì, in cifra tonda, un miliardo e cinquecento milioni, mentre le terre abitabili o semiabitabili non sono che quarantasei milioni di miglia quadrate. Calcolato che le terre fertili non possono nutrire più di duecento sette abitanti per miglio quadrato, vedrete che non rimarrà gran margine pei nostri futuri nipoti. E non dimenticate che fra i quarantasei milioni di terre, ve ne sono quattordici di steppe e quattro di deserti.
— Sicchè voi credete che fra due o trecento anni la nostra terra non sarà più capace di nutrire tutta la sua popolazione.
— Molto prima, signor Rokoff. Da un calcolo fatto da eminenti scienziati, parrebbe che quell’epoca fatale dovesse scadere dopo il duemila. Vi sarà forse dell’esagerazione, perchè vi sono certi paesi anche oggidì occupati da una popolazione intensissima e che pur vivono comodamente. La Cina, per esempio, ha duecentonovantacinque abitanti per miglio quadrato e il Giappone duecentosessantaquattro, eppure cinesi e giapponesi non muoiono di fame.
— La prima, però, di quando in quando, soffre delle carestie disastrose, — disse Fedoro.
— Questo è vero, e anche l’India perde ogni anno parecchie centinaia di migliaia d’abitanti, avendo già una popolazione troppo esuberante per la sua estensione. I morti di fame non si contano ormai più in quel paese.
— Gli scienziati troveranno il mezzo per raddoppiare le produzioni del suolo.
— Certo, ma non faranno altro che ritardare l’epoca fatale e niente di più.
— Sicchè, — disse Rokoff — se il sole non arrostirà l’umanità, questa sarà condannata a morire di fame.
— O tornare all’antropofagia.
— Preferisco vivere ora e mangiare costolette di bue piuttosto di avere per colazione una bistecca d’uomo. Meno male che noi non ci saremo più in quel tempo.
Il passo dei Crevaux era stato superato felicemente e lo Sparviero ridiscendeva verso l’altipiano, diretto al lago di Mont-calm, che è uno dei più alti, trovandosi a ben cinquemila metri sul livello del mare.
Il paese non accennava a variare. Era sempre il deserto di ghiaccio e di neve, con spaccature, abissi e scaglioni immensi che si succedevano con monotonia desolante.
Alle otto di sera lo Sparviero calava sulle rive settentrionali del Mont-calm, il quale era coperto da uno strato di ghiaccio.
Il freddo era considerevolmente aumentato e un vento secco e insistente soffiava dal nord, facendo soffrire assai gli aeronauti, i quali si sentivano screpolare la pelle del viso e gelare le dita.
Si rinchiusero nel fuso, dove qualche ora prima era stata accesa la stufa e dopo la cena si cacciarono nei loro letti.
L’indomani lo Sparviero riprendeva la sua corsa, aumentando considerevolmente la velocità. Anche il capitano cominciava ad averne fin sopra i capelli di quel deserto di ghiaccio e sospirava il momento di scendere nella regione dei laghi, per ritrovare una temperatura più mite e rinnovare anche le sue provviste. Almeno là era certo di trovare abbondante selvaggina, essendo le vallate del Tibet meridionale ricche d’asini selvaggi, di jacks, di argali e di stambecchi.
Ci vollero nondimeno altri due giorni prima di giungere al margine meridionale di quell’eterno altipiano e di calare nelle ricche vallate dell’Or, cosparse di laghi e laghetti e anche di villaggi popolosi.
Veramente l’altipiano continuava ancora, estendendosi fino sulle rive del Tengri-Nor. È solamente nelle vicinanze di quel lago sacro che cessa, nondimeno non aveva più la elevazione di prima, nè appariva brullo e nevoso.
Anzi, cominciavano a vedersi foreste di pini e di abeti, di querce gigantesche e di aceri, e anche campi coltivati a orzo e poi si vedevano pascolare cammelli, jacks domestici e bande di montoni guardate da numerosi pastori, i quali accoglievano coraggiosamente lo Sparviero a colpi di fucile, scambiandolo per qualche aquila mostruosa.
Non avendo che delle pessime armi a miccia, le palle non giungevano mai fino agli aeronauti, i quali, per precauzione, si mantenevano a un’altezza di tre o quattrocento metri.
Quando lo Sparviero passava invece sopra qualche borgata, un profondo terrore si spargeva fra gli abitanti.
Tutti fuggivano urlando, i cammelli si gettavano al suolo nascondendo la testa fra le gambe anteriori, gli jacks muggivano, i montoni si disperdevano fra i dirupi e i cani latravano con furore.
Quella confusione non durava che qualche minuto; l’aereotreno s’allontanava rapidissimo, senza aver divorato alcuno.
La sera del terzo giorno, dopo aver attraversato la regione dei piccoli laghi del Bilui-Dyka e i monti Nobokon-Ubaski, la macchina volante calava sulle rive del Buka-Nor, un vasto bacino disabitato che si trova al nord del Tengri.
Il capitano avendo veduto fuggire numerose bande di animali che supponeva fossero asini, era calato in quel luogo, colla speranza di abbatterne qualcuno.
Rokoff però, udendo parlare d’asini, non aveva potuto trattenere una smorfia.
— Vi pare una selvaggina apprezzabile, degna d’un colpo di fucile? — aveva chiesto al capitano.
— E come! — aveva risposto questi, quasi scandalizzato. — Sdegnate un boccone da re?
— Mangiano gli asini i re di questo paese?
— L’onagro, si chiama anche così, è una selvaggina scelta, ricercatissima, che supera lo jack e il montone. Voi non sapete dunque l’istoria della bella figliola di Semengam, uno dei più celebri re della Persia.
— Niente affatto, capitano. Andava matta per gli asini, quella signora?
— Narrano le antiche cronache persiane, che quella fanciulla si fosse innamorata alla follìa di Rustan, uno dei più prodi cavalieri dell’Iran, perchè questi, fra le tante sue meravigliose gesta compiute, aveva fatto anche quella di divorarsi nientemeno che un asino intero.
— Che stomaco doveva avere quel guerriero persiano. Io non l’avrei di certo invidiato.
— Perchè non avete mai assaggiato la carne dell’onagro. Me ne direte qualche cosa domani, se riusciremo a catturarne qualcuno.
— Come li caccieremo?
— Standocene sullo Sparviero; diversamente perderemmo inutilmente il nostro tempo, essendo velocissimi.
— Sapendovi un buongustaio raffinato, proverò anche la carne degli asini, — disse Rokoff. — Suppongo che non sarà peggiore di quella dei cavalli, e nella guerra russo-turca e anche nella spedizione di Samarcanda, dei corsieri ne abbiamo divorato più d’uno. —
Il capitano non si era ingannato a scendere in quel luogo. Lo Sparviero si era, l’indomani, appena alzato costeggiando le rive del lago, quando a circa un mezzo miglio fu veduta una immensa truppa di quegli animali galoppare sull’altipiano.
Erano tre o quattrocento che s’avanzavano su parecchie linee, preceduti dai capi, coi maschi dinanzi e le femmine in coda.
Correvano all’impazzata, facendo rimbombare il suolo e ragliando rumorosamente, poi s’arrestavano un momento, quasi tutti d’un colpo, per fare poco dopo un rapido dietro fronte e ripartire come un uragano.
Brucavano un po’ le magre erbe e i licheni, quindi, presi da un nuovo capriccio, riprendevano le loro corse disordinate.
Erano animali grossi quasi quanto gli asini europei, cogli orecchi però meno lunghi, il pelame bigio oscuro, attraversato sul dorso da una lunga striscia nera che s’incrociava sulle spalle con altre due bigie.
Questi animali sono anche oggidì numerosissimi e s’incontrano di frequente sugli altipiani dell’Asia centrale, nelle pianure persiane e anche nell’India settentrionale.
Viaggiano in bande immense, emigrando ora fra i deserti e ora fra le steppe, non temendo nemmeno le tigri, che affrontano con un coraggio straordinario, colpendole cogli zoccoli, e se non basta, mordendole ferocemente.
La truppa scorta dagli aeronauti pareva che colle sue continue mosse disordinate e colle sue fughe precipitose, cercasse appunto di sfuggire a qualche pericolo che la minacciava.
Il capitano, che la osservava con un canocchiale, indovinò ben presto da quali nemici era assediata.
— Si difendono dai lupi, — disse a Rokoff che lo interrogava.
— Sono numerosi?
— Un centinaio.
— Che riescano a fare un macello degli onagri?
— Saranno i lupi che avranno la peggio. Cercano di forzare le linee degli asini per gettarsi sui piccoli, ma non riusciranno a nulla. Assisteremo a una bella battaglia. Ehi, macchinista, rallenta e teniamoci ben alti onde non spaventare i combattenti. —
Gli asini, dopo aver fatto parecchie corse, si erano fermati in mezzo a una vasta pianura, dove avevano potuto spiegare i loro battaglioni. Con un insieme ammirabile avevano formato un immenso cerchio: i maschi alla periferia, le femmine e i piccini al centro.
I lupi, che erano più di cento e molto affamati a giudicarli dalla loro spaventosa magrezza, correvano intorno ululando ferocemente, cercando il punto più debole per rompere le linee.
Ogni volta però che s’avvicinavano al circolo, i maschi voltavano il dorso e colle zampe posteriori tiravano calci in tutte le direzioni, con un rapidità sorprendente.
Più d’un lupo, colpito, volteggiava in aria semifracassato e quando cadeva tre o quattro asini gli si precipitavano addosso mordendolo ferocemente, finchè esalava l’ultimo respiro.
Non ancora soddisfatti, lo calpestavano furiosamente riducendolo in un informe ammasso di ossa e di carne triturata.
Le asine e i loro piccini, spaventati dalle urla dei carnivori, si serravano le une addosso agli altri, ragliando disperatamente come per incoraggiare i maschi a difendere la loro prole.
Non ne avevano veramente bisogno, perchè quei bravi animali mantenevano le linee sempre strette, tempestando senza posa gli assalitori.
— Come si difendono bene! — esclamò Rokoff. — Non credevo che potessero tener testa a un simile attacco.
— Aspettate, — disse il capitano. — A loro volta daranno la carica e io non vorrei trovarmi al posto dei lupi. —
Infatti gli asini, vedendo che i loro avversari continuavano le loro corse, perduta la pazienza, si preparavano ad assalire a loro volta. Non fu che la prima linea che si mosse. La seconda, con una prudenza incredibile, rimase ferma per impedire ai lupi di irrompere attraverso il cerchio.
Quei cinquanta o sessanta animali, i più robusti e i più coraggiosi, partirono al galoppo, spezzando in più parti le linee dei voraci avversari.
S’impennavano lasciandosi cadere di peso, distribuivano calci con rapidità vertiginosa, afferravano i nemici colle poderose mascelle e li scuotevano furiosamente, strappando a un tempo lembi di pelle e di carne. Qualcuno, assalito da tre o quattro lupi, che lo azzannavano alla gola o agli orecchi, cadeva, ma tosto i compagni accorrevano in suo soccorso, liberandolo prontamente.
La battaglia durò un quarto d’ora e, come il capitano aveva predetto, finì colla completa sconfitta dei carnivori che, perduta ogni speranza di fare un pasto abbondante, almeno per quel giorno, dovettero in breve salvarsi con una pronta fuga, lasciando sul terreno un bel numero di morti e di moribondi.
Era in quel momento che lo Sparviero scendeva.
Gli asini, vedendo proiettarsi sul suolo quell’ombra gigantesca, s’arrestarono stupiti; poi, scorgendo quel mostro scendere, presi da una pazza paura, partirono ventre a terra in direzione del lago, salutati da tre colpi di fucile.
Una femmina, colpita mortalmente, cadde dopo breve tratto, ma gli altri continuarono la loro corsa indiavolata, scomparendo in mezzo alle rupi.
— Signor Rokoff, — disse il capitano, balzando a terra. — Avrò l’onore di offrirvi delle bistecche così squisite da far perdonare il vostro disprezzo per questa delicata selvaggina.
— Non ho ancora dato il mio giudizio, — rispose il cosacco, ridendo.
— Non dubito che sarà favorevole. —
Due ore dopo il bravo cosacco confessava candidamente che la carne degli asini selvaggi valeva ben quella degli jacks e dei bovini europei e che gli sciah persiani avevano pienamente ragione di stimarla come un boccone degno dei re.