I Marmi/Parte seconda/Ragionamento della stampa/La Zinzera, Verdelotto e plebei

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La Zinzera, Verdelotto e plebei

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La Zinzera, Verdelotto e plebei
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La Zinzera, Verdelotto e plebei.

Zinzera. Da sta sera in fuori, ogni sera ci suol esser qualche ragionamento bizzarro: io per me non ci veggo altri che plebei: s’io l’avesse creduto, non ci venivo altrimenti; e s’io non ci veniva, il pan muffava.

Verdelotto. Almanco ci fossero Bruett, Cornelio e Ciarles, ché noi diremmo una dozzina di franzesette e pasteggieremmo qua questo mucchio di plebei.

Plebei. Da che voi non potete sodisfare a noi con la musica, noi disturberen voi con certe nostre novellaccie che contiamo l’uno all’altro.

Zinzera. Anch’io ne dirò una, quahdo avrò udito dire a voi altri ciascun la sua.

Plebei. Noi saremo i primi, sián contenti. Nel mille non so quanti, a dí di luglio, quando venne una piova grossa grossa, dice che ’l Zucca pallaio aveva in casa certi forestieri, i quali eran venuti a Firenze per palloni, e per sorte si trovaron, quando piovve, in bottega sua; e, vedendo andare quei rigagnoli correnti giú per quelle fogne, gli dimandaron: — Dove va quell’acqua? — Il Torniaino, che vi si trovò a cicaleccio, rispose loro immediate: — In certi vivai di pesci che son lá sotto, e, come s’alza l’acqua, noi mandian giú un pezzo di rete e ne tiriamo su quanti ce ne piace. — Oh, — dissero quei forestieri, — la debbe essere una bella cosa! Quando se ne potrá egli pigliare? — Domani, perché oggi l’acqua si va alzando, — rispose il Zucca, che prese la boce del Torniaino. — Fate, di grazia, che noi vediamo questa bella cosa! — E loro glielo promisero. Il giorno sequente prepararono i buoni compagni quattro brave zucche piene di pesci d’Arno e un bravo cestellino di pesce marinato, e, fatto entrare nella fogna il Bargiacca coltellinaio con quelle zucche e con quei pesci cotti e marinati, aspettaron che venissero questi galanti [p. 203 modifica] uomini; e, ficcato dentro certi reticini a sacchi, ne cominciarono a cavare questi benedetti pesci che ’l Bargiacca vi metteva di mano in mano dentro; e quando i forestieri gli viddero si begli, sí vivi e in tanta abondanza di pesce la cittá, stavano -come spiritati. — Siate voi sodisfatti? voletene voi piú? — disse il Torniamo. Volle la sorte che un di loro disse: — Io gli vorrei cotti e non piú crudi; e’ mi par mille anni che noi gli mangiáno. — Ancor de’ cotti, — disse il Zucca, — se ne può avere. — E, mandato giú la rete, ne trassero una parte di quel del cestellino; onde le risa e l’allegrezza fu grande. La sera, a notte, certi che viddero pescare in questa maniera, ne vennero, come la fantasma, a metter le reti loro lá dentro, credendosi di pescare similmente come il Zucca e il Torniaino fatto aveano; ma vi consumarono il tempo e stracciaron le reti; onde ne fu levata una canzona per Firenze, che cominciava, se ben mi ricordo: «Reti, pesci e pescatori», e finiva: «Tu non pescasti al fondo, bel forestiero»; che i plebei, su quel verso del canto e de’ versi delle parole, hanno fatta poi quella della Lavandiera.

Verdelotto. Giá feci un canto per carnesciale, che diceva di cotesta novella: Il canto de’ pescatori senza frugatoio, si chiamava, cred’io.

Zinzera. Cosí fu: io cantai il quilio, e pescai ancor la notte assai bene.

Plebei. Noi ve lo crediamo: cosí si pescasse egli stasera, ma col frugatoio! Deh, di grazia, signora Zinzera, dite la vostra.

Zinzera. Troppo tosto mi volete legare: ditene due altre; se ben le son plebee, non monta nulla; a ogni modo ai Marmi bisogna che ci si dica delle belle e delle brutte, da far ridere e da stomacar le persone, altrimenti la cosa parrebbe fatta a posta e non a caso.

Verdelotto. Di grazia, di’ quella, Zinzara, quando il tuo compare disse che tu serrassi la bottega.

Zinzera. Son contenta, per amor vostro. Passavano una sera mio marito (che Dio gli faccia pace all’anima) e mio compare da casa, una state, dove io mi stava su l’uscio al fresco; e ben sapete che io non teneva cosí serrate le ginocchia, ma [p. 204 modifica] mi stava lá a panciolle comodamente per pigliare il fresco. Disse il compare che mi vidde: — Comare, oggi è festa e non si tien la bottega aperta; però voi sarete condannata. — Io, che intesi, risposi: — Il vostro compare e mio marito ha cotesto carico di serrarla ed egli ne tien la chiave; sí che avertite lui, ché a me non bisogna. — Disse il marito: — Stia pur aperta; a ogni modo non ci ho dentro nulla di buono che mi possi esser tolto. — E io soggiunsi: — Mercé, che siate fallito, poi che tanto tempo fa non ci avete messo nulla di valore. — Quivi risero i compari insieme e se n’andarono allegramente; e s’io v’ho da dire il vero, la riprensione fu causa che non v’andò molto che la fu ripiena di mille buone cose.

Plebei. Affogaggine! almanco fossi io stato figlio, acciò che avessi aiutato portar qualche barlotto!

Verdelotto. Fratello, tu saresti restato fuori; sí che non ti pregar quel che non ti può venire in pro o utile. Or seguitate voi altri.

Zinzera. Chi sa quella del ladro del Culiseo di Roma?

Plebei. Io, che mi ci trovai in quel tempo, e dirolla per farvi piacere.

Verdelotto. Sí, di grazia, perché, secondo che il maestro de’ paggi mi disse giá, la fu bella. Lascia prima dirne una a me, non meno vera che bella. La tua, Zinzera, è stata sopra della tua bottega aperta di festa e la mia sará d’una bottega serrata in giorno di lavorio. Or state a udire. Questo inverno passato, una, ch’io non la vo’ ora bociare, giovane bellissima, ancor che un poco zoppa, e arguta arguta (e ti so dire che la non traligna dagli segnati da Dio), aveva oltra il marito, l’astuta femina, uno inamorato, suo vicino, secreto, grande e grosso, d’un ventidua anni in circa; e, come accade, s’era adirato seco per gelosia d’un altro che la vagheggiava, e per conto veruno non la voleva piú amare; e lei, non sapendo di chi fidarsi, si imaginò un bel modo da far pace seco, facendogli intendere con arguto modo non aver altro amante che lui. Ed essendo andato il marito a Pisa per certe sue faccende, dispiacendogli il dormir sola, deliberò provedere per suoi bisogni; e una [p. 205 modifica] mattina, a buonissima otta, si messe un campanello alla cintola, il quale gli spenzolava insino tra le coscie, e prese la paletta, fingendo d’andar pel fuoco. Picchiò all’uscio del drudo; gli fu aperto dalla madre, la qual, vedendo il campanello dondolare dinanzi a costei, gli disse: — E che fate voi di quel campanuzzo tra le coscie ciondoloni? — Alla qual, ridendo, súbito rispose: — Per esser andato il marito mio a Pisa giá due giorni, la mia bottega fa festa, e però vo sonando le campane. — Alla qual risposta si rise un pezzo; e il garzonotto, che, standosi nel letto, aveva sentito il tutto, e, avendo inteso benissimo l’astuto parlar della giovane, e’ conobbe come la sua bottega non aveva piú che dua chiave, ciò è una lui e l’altra il marito, e’ deliberossi con la sua che tal bottega non facessi festa con dispiacere della giovane. E la sera, al buio, con gli usati contrasegni se n’entrò in casa sua: e gli aperse piú volte la notte la bottega; e fin alla ritornata del marito non seppe mai quando fusse vigilia né festa di alcuna sorte. Or di’ la tua.

Plebei. Avevano molte lavandaie teso intorno al Culiseo di Roma i lor bucati e s’erono ritirate all’ombra e al fresco, avendo l’occhio sempre ai panni tesi. Un ladroncello, che si stava per quelle muraglie, quando vide abandonati i lanzuoli e le camicie al sole, si aviò a stendergli e cominciò a far fardello. Le femine corsero e accerchiarono il ladro, talmente che da nessun canto egli poteva fuggire. Il povero ladroncello, trovandosi a mal partito, si fece animo e messe mano a un coltellaccio largo quattro dita su la costola e lungo un terzo di braccio, che portava sempre (quel coltello, dicono costoro che la contano, che ebbe poi il Gonnella, o simile a quello, che voleva tagliar le nature cotte di quelle vacche, che disse: «Tal carne, tal coltello») e difilatosi adosso a una che gli faceva piú ressa che l’altre, te la voleva infilzare: ma ella, spaurita da questa furia di sí bestial coltello, gli fece largo fuggendo e gli voltò le spalle; onde egli, rotto il cerchio, se ne truccò via e ne portò le camice e le lenzuola.

Zinzera. Oh che sorte di femine mal pratiche! S’io v’era, gli faceva ben dar giú la bizzarria: io me gli sarei voltata e [p. 206 modifica] l’avrei agavignato e tenuto tanto stretto che io l’arei vinta. So che non mi sarebbe (ladroncel da forche!) sguizzato fuori delle mani, se prima non gli avesse fatto lasciare le cervella in terra, sí fatte strette gli avrei dato al capo e sbattutolo sottosopra.

Plebei. Ma la signoria vostra, che sa che cosa son armi e s’è trovata in tante mistie, avrebbe bene e largamente riparato a questo caso; ma le povere lavandaie, non essendo avezze a veder sí fatti ferri puliti, non ebbero altro rimedio che voltar le spalle e nettare il paese; e il ladro si ritrasse intanto a salvamento.

Verdelotto. Bellissima! Ditene un’altra.

Zinzera. Vo’ dirla io, che mi trovai l’altra sera all’Orto de’ Rucellai a cantare, dove si faceva fra quei dotti una gran disputa sopra il Petrarca; e v’era chi voleva che questa Laura fosse stata la filosofia e non donna altrimenti, per quella canzone che comincia

Una donna piú bella assai che ’l sole
e di bellezza e d’altretanta etade

(qual donna volete voi che fosse costei, altra che la virtú della filosofia?)

acerbo ancor mi trasse alla sua schiera.

Laura aveva forse una mandria di gente che la seguissero? Basta che volevano alcuni che non amasse donna terrena, ma celeste; altri, ridendosene, se ne facevan beffe, con affermare mille allegazioni, ch’io non le so dire, e tenevano che gli avesse amato donna, donna, donna da dovero e che egli avesse anco córso il paese per suo, ma, come uomo che era religioso, dottore, vecchio e calonaco di Padova, non voleva che restasse accesa sí fatta lucerna della fama e appiattò la cosa sotto mille queste e mille quelle, la pose in bilico, acciò che la non si potesse mai affermare, perché la fu cosí giusta giusta, ma che [p. 207 modifica] sempre si trovasse qualche oncino d’attaccarsi in pro e contra. Alla fine egli vi fu uno che disse:

Tennemi Amore anni vent’uno ardendo.

E un altro rispose: — Queste son cose impossibili, star tanto tempo ad abacarsi il cervello e non attigner nulla delle dolcitudini amorose. — Al quale mi voltai io con un mal piglio e gli dissi: — Io conosco una donna che stette venticinque, che sempre volle bene a uno, e lui a lei, e mai mai si copularono in leggittimo adulterio. — Qui si levaron le risa e mi pregaron che io bociasse costei sí continente che ciascuno di loro la voleva mettere sopra le Lucrezie e le Diane: io, che l’aveva come in confessione la cosa, non manifestai mai nulla; loro non lo volevan credere e io l’affermava. Il Guidetti disse: — A Dio, Zinzera, tu dovesti esser tu, n’è vero, questa continente? — Io giurava e spergiurava di no; ma non ci fu ordine che dicessin mai altrimenti che: — Tu dovesti esser, Zinzera. — Non lo crediate — quando fu’ stracca a dir no, diss’io — che fossi stato sí sciocca a perder tanto tempo senza sugo e senza cavarne una gocciola di piacere. — Allor tutti a una boce mi dettero vinta la partita, con dire: — La non fu lei! la non fu lei! — e si rise un altro poco, poi ci demmo alla musica.

Verdelotto. Zinzera, tu mi riesci ogni dí piú: oh tu sei sí capace per tutti i versi! tu sai di Petrarca, sai dir novelle; tu debbi essere stata sotto molti maestri, sí m’affinisci per le mani. Questa volta tu m’hai acchiappato; non credetti che tu pescassi cosí profondamente.

Zinzera. Voi altri franciosi non volete di questi diletti, ma cantare e banchettare ordinariamente. Certi stravaganti di lingua nostra toscana non sono ancor cattivi, per saper cantar solamente: la cosa non butta; bisogna saper d’ogni cosa un poco. Vedete, ora che voi siate avezzo con esso noi, come voi vi siate adestrato a tutte l’usanze nostre? insin del vestire? Voi portavi giá quei farsetti con le maniche a brodoni larghe e quei pettini dinanzi; ora voi vestite attillato e non [p. 208 modifica] ve ne sapreste andare a quell’ordinariaccio. Vedete che bel calzare è quello alla spagnola!

Verdelotto. Ogni estremo è vizioso: troppo stretto; quelle calze intere, sí stringate, si stiantano talvolta; non, no, all’italiana è meglio.

Zinzera. Un buon taliano fa meglio ogni cosa certamente, perché la via del mezzo è sempre mai stata tenuta migliore: le cosaccie grandi, le larghe, le lunghe, le strette, le sfondate, le piccole, tutti sono stremi.

Plebei. Ah, ah! oh lasciate dire ancóra a noi. So che Verdelotto non volle farvi buona quella lode data agli spagnuoli: come si scuopron tosto gli appassionati!

Verdelotto. Or su, via, io son contento, io ve la fo buona, pur che diciate qualche altra favola.

Zinzera. Sí, perché bisogna ritrarsi a mano a mano.

Plebei. Io, che son grosso come l’acqua de’ maccheroni, ne dirò una da maccherone; e non l’ho cavata però della Maccheronea:, ma l’accoccai a una mia zia cugina, nipote d’un mio genero, che fu figliola d’un fratel di mio cognato; e fu vera vera, né piú né manco sí come io ve la dirò. Quando io fu’ soldato, ché io era de’ trenta mila della milizia, mi diliberai (sapete che sempre ho avuto il cervel balzano) di fare un viaggio; e perché io stava con questa mia zia, non m’ardiva a dimandargli licenza, conciosia che io era rede, e se contro a sua voglia mi fosse partito, la m’arebbe sredato, e lasciato il suo (benché era poco: un forno, con uno scopertino a torno a torno, lá apresso al Bucine e Montevarchi, dove ha da fare il Fava di Pier Baccelli che è ora ufficiale all’Onestá) e datolo al comune di Montecatini, dove ella s’è giudicata. Ben sapete che la mi diceva pazzo, quando volevo andare con la lancia su la coscia a cavallo e farmi soldato famoso per tutti i paesi. Io, quando ebbi ben ben la cosa rimestata di qua e di lá e voltatola per ogni verso, presi partito d’andar via a ogni modo, con licenza e senza licenza, pigliassila per che verso la la volesse; e vi feci su capo grosso da buon senno. Ora la mi voleva un poco di bene e io, per chiarirmene a fatto e far ciò che io voleva, mi [p. 209 modifica] finsi amalato e, avendo ordinato un medico finto e che era un mio amico, che mi portasse nascostamente da mangiare, stetti a dieta forte quattro giorni e mi abandonò per ispacciato, per ciò che io non voleva pigliar nulla. La mia zia, veduto questo, era sul morire di dolore e mi pregava che io volessi mangiare; ma, facendo io la gatta morta, dava spesso spesso de’ signozzi che pareva il rantolo: pur tanto pianse e tanto mi pregò che io dicesse che cosa farebbe per me a farmi mangiare, che io, mezzo balbuziente, gli risposi piano piano: — Maccheroni vorrei, monna zia. — Ella tosto corse e in un batter d’occhio me ne fece un piattellino. Eccoti che la me gli presenta, come dire: «dategli ogni cosa a costui, ché egli è spacciato»: e te gli aveva unti bene e incaciati. Io quando gli viddi, finse allegrarmi e ne tolsi due bocconi, quasi che m’avessero dato la vita, e cominciai a pregarla: — Cara zia, zia mia buona, di grazia, fatemene uno staio. Oimè, ch’io son guarito, se voi mi fate uno staio di maccheroni. — La cominciò a dire che gli eran troppi, che bastava d’una mina, d’un quarto e d’un catino: e io allora a stralunare gli occhi e voler morir d’asima. Ella, per non mi perdere, dicendo fra sé: — Che domin sará mai, io gne ne farò tanti che io lo contenterò e poi gli darò via, — se n’andò e ne fece a cafisso. O povera zia! Pensate che l’empié di piattegli, scudelle, catini e pentole tutta la mia camera, piena di maccheroni; poi mi si fece al letto, e cominciò a dirmi: — Caro nipote, tôi due bocconi; ecco che io t’ho contentato; mangia de’ maccheroni. — Pensate quando la mi rizzò a seder sul letto, che io viddi tanti maccheroni, che io fui per trarre uno scoppio di risa; ma mi ritenni per finire il mio disegno. Io mi feci dare un gran catino inanzi e qui ne mangiai due altri bocconi; poi cominciai a dire: — Questi mi ritornan vivo, questi son la mia vita! O zia cara, benedetta siate voi! Ma io non son per mangiarne piú, se voi non mi bravate e dite villania. — Ella allora cominciò a dirmi: — Furfante, poltrone, mariuolo, castronaccio, figliuol d’una vacca, mangia questi maccheroni; se non, che io t’amazzo. — E io ne tolsi due altri bocconcini. — Deh, zia dolce, armatevi con le mie arme; deh sí! e poi mi bravate [p. 210 modifica] ancóra: io avrò paura e mangerò. — Volete voi altro? che la si lasciò imbecherare e armossi; e io, meglio che io potetti, gli allacciai l’arme indosso con i braccialetti e l’elmetto in testa con la visera alzata e un stocco ne’ fianchi, e la feci pigliare in mano una labarda e cominciare a gridarmi: — Tristo ribaldo, tu gli mangerai, se tu crepassi; io voglio che tu gli mangi! — (in fine l’amore, sia di che sorte voglia, fa far mille pazzie) — questa labarta ti ficcherò io in corpo, se tu non gli mangi. — Súbito che la fu entrata in questo laberinto, saltai fuori del letto e gridai alla vicinanza quanto mai n’aveva nella canna della gola: — Correte, correte, correte! — Pensate che gli va poca levatura a fare correre il vicinato: in un baleno fu ripiena la camera e la casa; e io nel letto a piagnere: — O poveretto a me, che sto in fine di morte e questa mia zia è impazzata e ha fatto tutti questi maccheroni e poi s’è armata come voi vedete, e s’io non gli mangio, la mi vuole amazzare: oimè poveretto, oimè! — Súbito le brigate gli messero le mani adosso, ché per la stizza la faceva tante pazzie e diceva a me e loro tante villanie che voi saresti stupiti. Alla fine, quanto piú diceva piú l’avevano per matta spacciata; e la legarono; poi ne seguí mille bei dialoghi fra lei e me. Io la spacciai per pazza e messi mano su la roba e cominciai a trionfare e andai al soldo, e feci e dissi, e dissi e feci quel che io volli. Onde allora si messe in uso un certo modo di dire: quando uno vorrebbe qualche cosa che non è dovere, come volli io dalla mia zia, e’ se gli dice súbito: «Ehi, maccherone, torrestila tu?». Ci son poi certi dotti in lingua toscana che non direbbon mai «Ehi, maccherone», per non dir come i fiorentini plebei, ma dicono in quello scambio: «Ehi, bietolone, minestrone, pappalefave, ghignaceci, pincione», e simil pappolate, proprio proprio da maccherone.

Verdelotto. Tu m’ha’ fatto venir voglia di quei maccheroni che sono in Francia: oh e’ sono buoni!

Zinzera. Mangiatevegli; chi vi tiene? L’ore son tarde; andiancene.

Verdelotto. Piacemi, perché ho sete. [p. 211 modifica]

Plebei. E noi, chi al Frascato e chi alle Bertuccie; e tu vattene con i tuoi maccheroni: un’altra sera tu ci dirai il restante.

Verdelotto. Saldi: io ne voglio dir una breve breve ancor io, che fu una favola da gentiluomo.

Plebei. Dateci creder almanco qualche novella delle vostre di Francia.

Zinzera. Sí, acciò che si vegga se noi altri siamo soli a piantar carote o no.

Verdelotto. Son contento di dirla che la sia delle nostre. Noi abbiamo in Francia un fiume grossissimo, sí come avete il Po voi in Italia, il quale ha le rive profonde; onde, come tu metti i piedi sopra quella rena, a due passi inanzi tu te ne vai in precipizio, e il torrente è furioso talmente che s’affoga senza una remissione al mondo. Fu adunque un nostro ricco signorotto, il quale aveva bellissima donna; alla qual donna piacque d’inamorarsi, per sua buona ventura, e fece eletta d’un bravo giovane che avesse autoritá non solo di contentar le sue voglie, ma da far resistenza ancóra, quando il marito la volesse offendere: e questo che io dico si trova nelle istorie antiche di Carpentrasso. Passò molti giorni che ’l marito non s’accorse del torto che gli faceva la sua donna; e quando se n’avidde, conobbe tutto il male che ne poteva seguire; e per ciò che era uomo fatto e di buona intelligenza, si diliberò trovargli qualche modo ragionevole a levarsela dinanzi. Ma, esaminatone molti, ritrovava sempre, nel fine, il pericolo che l’amante s’accorgesse dipoi del fallo che egli s’avesse, con destro modo, levata la moglier dinanzi, onde l’amante ne facesse vendetta contro di lui. Ma chi sa insegnare dell’altre cose, lo seppe ancóra amaestrare in questa; e fece cosí: prese il marito, con destro modo, amicizia e familiaritá grande con costui, e fu sí fatta che sempre tutti a tre erano insieme, alle caccie, ai conviti, alle nozze, e altri piaceri; onde ne seguiva una pace fra gli amanti e un contento mirabile. Un giorno, lá, di luglio, a quei caldi estremi, ordinò il marito che una brava mula, che cavalcava la sua moglie, non gli fosse dato da bere il giorno avanti, e [p. 212 modifica] a una chinea dell’amante il simile, e con danari corroppe il famiglio a far questo. Il giorno sequente, con una compagnia mirabile, egli e la donna montarono a cavallo, passato il mezzo giorno, lá sul tardi; e, andati a trovar l’amante, con questa salmeria, lo fecero montare in sella e gli fu data la chinea; e questa e quella mula eran giá due giorni che non bevevano. Cosí si diedero ad andare a spasso alla campagna: onde, quando furono arrivati in luogo dove il fiume si pareggiava con le ripe, la buona mula fu la prima a pigliar la traina, quando vedde l’acqua, e quanto poteva se n’andava alla volta delle onde; la chinea, che sempre accompagnava la mula, perché il patrone stava appiccato sempre alla femina malvagia, anco ella nettava il paese; e perché la donna non poteva tirar sí forte il morso che aveva preso la mula con i denti, la si lasciava portare per forza; egli che si sarebbe rattenuto, non voleva, per non abandonar lei. La brigata, che vedeva questa gara di traina, inverso l’acqua, rideva tutta, con dire: — E’ fanno a correre il palio con le mule e con le chinee. — Volete voi altro? che la viziosa, ostinata e assetata mula entrò nell’acqua per bere, e, non si tosto vi fu dentro che la profondò. La donna, spaurita, non potendo per la furia né saltare né smontare né gettarsi a scavezzacollo, come colei che mai avrebbe creduto che la mula fosse si scorsa, se n’andò nell’acqua a gambe levate; e l’amante, che non sapeva quanto fosse la sète della sua chinea, la spinse per dargli di piglio o aiutarla il piú che poteva; ma la bestia, in cambio d’alzar la testa quando sí senti un poco di redine (perché non si poteva aiutar la donna e maneggiare il cavallo), abassò il ceffo e si diede a bere. In questo la ripa era fallace, onde la se n’andò giú: il giovane, che sapeva notare, si pose a far le sue forze, ma indarno; perché, passato piú inanzi che non doveva, tratto dall’amore, dalla pazzia, dalla forza della gioventú e altre bestialitá di cervello, tardi accorgendosi, s’inzupparono d’acqua i vestimenti e s’empierono gli stivali, onde fu dalle onde rapacissime annegato. Questa compagnia, stupiti e maravigliati rimaser tutti della nuova disgrazia; e il marito di lei si messe a far quei lamenti, quelle pazzie e quei pianti, come [p. 213 modifica] se la cosa fosse stata all’improvista; e con la sapienza sua si vendicò dell’ingiuria e levossi dinanzi tanto vitupèro.

Zinzera. Vu, vu! che maladetto sia egli, crudelaccio!

Plebei. Oh l’è stata bella! Cotestui fu un galante uomo: se tutti coloro che ricevano sí fatte ingiurie, ne trovassero una per uno che fosse cosí a salvum me fac, la cosa si ridurrebbe in buon termine. Ora che si fa piú qua? A Dio.

Agnolo. A Dio, Verdelotto.

Verdelotto. Son vostro, Favilla; e buona notte a tutti quanti.