I due Gentiluomini di Verona/Atto quarto

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Atto quarto

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William Shakespeare - I due Gentiluomini di Verona (1590-1596)
Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1859)
Atto quarto
Atto terzo Atto quinto
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ATTO QUARTO


SCENA I

Una foresta vicino a Mantova.

Entrano parecchi banditi.

Band. Amico, sta fermo; veggo un passeggiero.

Band. Quand’anche ve ne fossero dieci non tremate, mi gettatevi a terra. (entrano Valentino e Speed)

Band. Alto! signore, dateci il vostro denaro, o ve lo prenderemo.

Sp. Messere, siam serviti! Questi sono quegli scellerati tanto temuti dai viaggiatori.

Val. Miei amici...

Band. Non è così; siamo vostri nemici.

Band. Silenzio; vogliamo adirlo.

Band. Sì, per la mia barba, questo vogliamo, perchè è un uomo a dovere.

Val. Sappiate dunque ch’io ho ben poche ricchezze da perdere. Voi vedete un misero oppresso dalla sventura: le mie ricchezze restringonsi a queste vesti povere, e se me ne private non mi resterà nulla.

Band. Dove eravate rivolto!

Val. A Verona.

Band. Di dove venite?

Val. Da Milano.

Band. Soggiornaste molto colà?

Val. Forse sedici mesi, e vi sarei rimasto anche di più, se la fortuna crudele non me ne avesse cacciato.

Band. Foste di là espulso?

Val. Sì.

Band. Per quale offesa?

Val. Per ciò che non posso ridire senza dolore. Vi ho ucciso un uomo, la di cui morte ora mi contrista assai, sebbene ucciso l’abbia in duello equo, senza falsi vantaggi, o vili frodi.

Band. Non ve ne pentite, se lo avete ucciso così: ma foste bandito per così lieve colpa?

Val. Sì, e mi stimai lieto di tal condanna. [p. 181 modifica]

Band. Sapete varie lingue?

Val. È un vantaggio che ricavai dalla mia giovinezza e da’ miei viaggi, senza del quale mi sarei trovato spesso assai infelice.

Band. Per la calva testa del grosso frate Robin-Hood! quest’uomo potrebbe essere a meraviglia il re della nostra banda.

Band. Tale divenga: amici, udite una parola. (i Band. parlano sommessamente)

Sp. Signore, unitevi ad essi: han l’aspetto di valentuomini.

Val. Taci, sciagurato!

Band. Diteci: siete legato a nessuna cosa?

Val. A nessuna, fuorchè alla mia fortuna.

Band. Sappiate dunque che molti fra di noi sono gentiluomini, che la foga di una giovinezza inconsiderata ha cacciati dalla società degli uomini giusti secondo le leggi. Io ancora fui bandito da Verona per aver tentato di rapire una giovine ereda parente stretta del principe.

Band. Ed io lo fui da Mantova per aver nella mia collera immerso un pugnale nel cuore di un valentuomo.

Band. Io pure lo fui per delitti di egual genere. Ma torniamo al nostro proposito; perocchè se noi confessiamo le nostre colpe è unicamente per scusare dinanzi ai vostrì occhi il genere di vita che meniamo in queste foreste; e avvegnachè voi siete un bel cavaliere, e possedete molte lingue, la vostra compagnia può esserci assai utile.

Band. È infatti perchè siete bandito, che stringiamo questo vincolo con voi. Sareste contento di divenire nostro generale, fatta di necessità virtù, e di vivere con noi nei boschi?

Band. Che ne dite? Accettate? Dite di sì, e divenite nostro capo. Noi vi giureremo una inviolabile fede; voi ne comanderete, e tutti vi ameremo, come nostro capitano e re.

Band. Ma se spregiate le nostre offerte, morirete.

Band. Non sopravvivrete per gloriarvi di quello che offerto vi abbiamo.

Val. Accetto la vostra proposta, e vivrò con voi, purchè non oltraggiate le deboli donne e i poveri passeggieri.

Band. No; noi detestiamo tali misfatti. Venite con noi, e vi condurremo fra i nostri compagni, e vi mostreremo tutti i tesori che abbiamo guadagnati, di cui potrete disporre al pari di noi. [p. 182 modifica]

SCENA II.

Milano, il cortile del palazzo.

Entra Proteo.

Prot. Ho già ingannato Valentino, forza è del pari che io tradisca Turio. Sotto sembianza di parlare in favor suo ho la libertà d’intrattener Silvia del mio amore; ma Silvia ha l’anima troppo bella, troppo sincera, troppo candida per lasciarsi sedurre dai miei detti. Allorchè io le prometto una fedeltà inviolabile, ella mi garrisce per aver tradito il mio amico. Quando le giuro un eterno amore, mi rammenta i giuramenti sacri che aveva fatti a Giulia, che amavo, e che ho violati; nondimeno, ad onta di tutti questi rimproveri, di cui ognuno dovrebbe bastare a pormi fuor di speranza, più ella disprezza il mio amore, e più esso cresce e diviene impetuoso. — Ma ecco Turio, bisogna che andiamo a cantare sotto le finestre della bella, e che al suono de’ più dolci istrumenti le diamo questa notte un concerto armonioso. (entra Turio coi musici)

Tur. Come, sir Proteo? Veniste prima di noi?

Prot. Sì, gentil Turio; perchè sapete che l’amore s’insinua nel cuor delle donne colle sembianze dell’amicizia.

Tur. A meraviglia: ma spero che voi qui non amiate.

Prot. Errate, senza amore non verrei qui.

Tur. E chi amate voi dunque? Silvia?

Prot. Sì, Silvia... ma per voi.

Tur. Ve ne ringrazio. — Ora, signori, accordate gl’istrumenti e suonate da valorosi. (entra l’Oste in distanza, e Giulia in abiti da giovinetto)

Ost. Ebbene, mio garbato ospite, mi pare che voi siate alinconico: che avete, vi prego?

Giul. In verità, albergatore, è perchè non posso essere allegro.

Ost. Or ora lo diverrete: fra poco udirete buona musica e vedrete il gentiluomo di cui cercate.

Giul. Ma l’udrò io parlare?

Ost. Sì, l’udirete.

Giul. Solo il suono della sua voce mi sembrerà melodioso.

(comincia il concerto)

Ost. Udite! Uditel Oitd. È egli fra questi?

Ost. Si: ma silenzio, ascoltiamo. [p. 183 modifica]

Canzone.


Chi è Silvia? Chi è quella che cantano tutti i nostri pastori? «Ella è vergine, bella e savia, e i cieli l’han fornita di tante grazie, perchè fosse ammirata.

«È ella tanto gentile quanto bella? perocchè la bellezza non si scompagna dalla cortesia. L’amore trova ne’ suoi occhi un farmaco alla cecità, e per riconoscenza vi tien dimora.

«A Silvia dunque cantiamo le sue perfezioni; a Silvia diciamo ch’ella soverchia ogni altra cosa di questa terra; a Silvia rechiamo ghirlande d’amore».

Ost.. Ebbene? Voi divenite più tristo di prima? Che avete, giovane? Forse la musica non vi diletta?

Giul. V’ingannate; è il cantante che non mi piace.

Ost. Perchè?

Giul. Canta male.

Ost. Non son forse in armonia le sue corde?

Giul. Si; ma stuonano con quelle del mio cuore.

Ost. Avete l’orecchio ben sensibile.

Giul. Vorrei esser sordo per sentirmi il cuor più leggiero.

Ost. Veggo che la musica non vi appaga.

Giul. No, quand’è così aspra.

Ost. Udite che bella cadenza.

Giul. Essa mi spezia l’anima.

Ost. Vorreste che conservasse dunque sempre il medesimo tuono?

Giul. Vorrei che ognuno sapesse cantare solo un’aria. Ma, oste, il signor Proteo, di cui parliamo, viene egli spesso sotto queste finestre?

Ost. Vi dirò che Launzio suo domestico mi disse ch’ei la ama a dismisura.

Giul. Dov’è Launzio?

Ost. È ito a cercare il suo cane, che domani, per comando del suo signore, deve donare a questa donzella.

Giul. Tacete, ritiriamoci; la brigata si scioglie.

Prot. Messer Turio, non temete; parlerò per voi in modo che dovrete reputarmi maestro in astuzie d’amore.

Tur. Dove ci rivedremo?

Prot. Alla fontana di San Gregorio.

Tur. Addio. (esce coi musici)

(Silvia apparisce disopra alla sua finestra)

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Prot. Buona sera a Vossignorìa.

Sil. Vi ringrazio della bella musica, signori: chi è che parla.

Prot. Un uomo di cui riconoscereste in breve la voce, se aveste in cale la sincerità del suo cuore.

Sil. Messer Proteo, se non erro?

Prot. Messer Proteo, gentil donzella, vostro servitore.

Sil. Che cosa volete?

Prot. Quello che voi desiderate.

Sil. I vostri voti potranno essere adempiti: il mio desiderio è che vi allontaniate tosto da questi luoghi, e che rientriate in vostra casa. Come! spergiuro, vile raggiratore, uomo falso e sleale, credete voi ch’io sia tanto semplice, stupida così da lasciarmi sedurre dalle vostre adulazioni? dalle adulazioni di un uomo che ha traditi tanti infelici coi suoi giulramenti? Tornate, tornate verso il primo oggetto dei vostri amorì, e meritatene il perdono, perocchè per me, lo giuro per questa pallida sovrana della notte, son così avversa a cedere ai vostri voti, quanto vi disprezzo per l’indegnità delle vostre proposizioni. Dolgomi ancora del tempo che sperdo qui rispondendovi.

Prot. Consento, dolce Silvia, che ho amato, ma la mia amante è morta.

Giul. Potrei, se volessi, convincerti di menzogna, (a parte) perocchè son sicura, ch’ella non è sepellita.

Sil. Tu dici ch’è morta, ma Valentino, l’amico tuo, non vive egli ancora, e non fosti tu testimonio ch’io a lui vincolai la mia fede? Or non arrossisci tu di tradirlo colle tue improntitudini?

Prot. Udii dire del pari che Valentino fosse estinto.

Prot. Allora supponi ch’io pure lo sia; avvegnachè nella sua tomba andrà sepolto ogni mio amore.

Prot. Mia bella Silvia, lascia ch’io il disotterri.

Sil. Va, va al sepolcro della tua amata, e risvegliala co’ tuoi gemiti: se nol potrai, fa che la sua tomba divenga la tua.

Giul. (a parte) Ei non seguirà tal consiglio.

Prot. Signora, se il vostro cuore è così indurito, degnatevi almeno concedere il vostro ritratto all’amor mio: quel ritratto ch’è appeso nella vostra stanza. Ad esso favellerò, ad esso indirizzerò i miei sospiri, e lo bagnerò colle mie lagrime. Perocchè, la vostra persona così perfetta essendo sacra ad un altro, io non divengo che un’ombra, ma un’ombra che tributar vuole il suo fido amore alla vostra.

Giul. (a parte) Se tu possedessi l’originale l’inganneresti, e ne faresti che un’infelice come son io. [p. 185 modifica]

Sil. Sono stanca, signore, delle vostre preghiere; ma poichè è dicevole che il vostro perfido cuore non adori che forme vane, mandate, dimani a prendere il mio ritratto, ed io ve ne darò. Buona notte.

Prot. Così buona, quanto la provano gli sventurati che il giorno appresso debbono andare al supplizio. {{Ids|(esce; e Silvia si ritira)}

Giul. Oste, volete andare?

Ost. Per la Beata Vergine! mi ero addormentato.

Giul. Di grazia, dove alloggia messer Proteo?

Ost. In casa mia; ma se non erro è quasi giorno.

Giul. Non per anche: questa notte però è la più lunga e più crudele ch’io abbia avuta in vita mia. (escono)

SCENA III.

La stessa.

Entra Eglamour.

Egl. Quest’è l’ora in cui Silvia mi impose di venire qui per conoscere le sue intenzioni. Ella vuol senza dubbio commettermi qualche grand’opera. — Signora, signora! (chiamando; Silvia torna alla finestra)

Sil. Chi chiama?

Egl. Il vostro servo ed amico, che aspetta i comandi che gli darete.

Sil. Messer Eglamour, mille volte buon dì.

Egl. Altrettante a voi, degna signora. — Come imponeste, venni per tempissimo, onde conoscere quali servigi volete da me.

Sil. Oh! Eglamour, voi siete un nobile cavaliere. Non crediate che vi aduli, giuro che dico la verità. Sì, voi siete prode, saggio, compassionevole, in breve, fornito delle più elette doti. Voi non ignorate il mio amore per l’esule Valentino, e quanto io son cruciata da mio padre che mi vorrebbe sposa di Turio, idiota orgoglioso, che io detesto. Voi avete amato, caro Eglamour, e vi ho udito dire che non mai dolore fu più straziante pel vostro cuor sensibile della morte di una donna adorata, alla quale avete giurato, sul suo sepolcro, un’eterna fede. Caro Eglamour, vorrei andar da Valentino a Mantova, dove mi fu detto che aveva riparato. Tale strada essendo pericolosa, desidererei vedermi accompagnata da un cavaliere prode come voi, di cui conosco la illibatezza e l’onore. Non mi opponete lo sdegno di mio padre, Eglamour; non pensate che al mio dolore, al dolore di un’amante, [p. 186 modifica]e alla giustizia della mia fuga, per sottrarmi a nozze ree, che il cielo e il mio destino punirebbero acerbamente. Con cuore così pieno di sventure, come il mare lo è di arene, vi supplico di accompagnarmi. Se rifiutate, nascondete almeno quello ch’io vi confidai, e mi arrischierò a partir sola.

Egl. Signora, compassiono i vostri dolori, e sapendo quanto il vostro amore è puro e intemerato, acconsento a partire con voi, e penso così poco alle conseguenze, come desidero ardentemente che voi siate felice. Quando volete che andiamo?

Sil. Stassera.

Egl. Dove vi troverò?

Sil. Alla cella di frate Patrizio, dove penso di confessarmi.

Egl. Non mancherò di venire: buon giorno, gentil donzella.

Sil. Buon giorno, gentile Eglamour. (escono)

SCENA IV.

La stessa.

Entra Launzio col suo cane.

Laun. Quando il domestico di un uomo ha in custodia un cane, le cose van male! Un cane che ho educato fino dalla sua più tenera infanzia; un cane che ho salvato dall’annegamento, allorchè tre o quattro de’ suoi ciechi fratelli e sorelle andavano ad affrontarlo; un cane che ho istruito in modo da far dire a tutti: ecco come vorrei avere un cane! Ebbene, tentai fame dono alla signora Silvia per incumbenza del mio padrone, e non appena entrato nella sala da pranzo, ei le saltò sul piatto e le rubò una zampa di cappone. Oh delitto orrendo! che un cane non sappia conformarsi a tutte le brigate! Ne vorrei avere uno che sapesse essere veramente cane, cane in tutto. Se non avessi avuto più spirito di lui, assumendomi la sua colpa, credo ch’ei sarebbe stato appeso; quant’è vero che vivo, sarebbe stato punito; e voglio che ne giudichiate. Ei si getta in compagnia di tre o quattro altri cani-signori sotto la mensa del duca, e restatovi appena un istante, vi fa opra tale, che tutti cominciano a gridare: fuori il cane! Sferzatelo, grida uno; appiccatelo, dice un altro. Mi ero già avveduto ch’ei doveva aver commesso qualche gran malefizio, onde andai dal valletto a cui era commesso di discacciarlo, e gli dissi: «amico, voi volete battere il mio cane?» Sì certo, voglio, ei mi rispose; «gli fate torto, ripresi io: io solo sono responsabile d’ogni suo fallo». Appagato della ragione, ei mi cacciò a [p. 187 modifica]cestate fuori della stanza. Quanti signori vi sono che volessero fare altrettanto pei loro domestici? Non basta; giuro che fui messo in prigione pei furti suoi, e che senza ciò ei sarebbe stato ucciso; venni posto alla berlina per certe oche che aveva uccise, e con questo ho potuto riscattarlo. Ma a tutto ciò egli più non pensa, e ne ho avuto una prova nel modo con cui si è comportato allorchè ho preso congedo dalla signora Silvia. Non t’ho io sempre detto di guardarmi, e di far quello ch’io faccio? E quando mai mi hai tu veduto saltare contro il guardanfante d’una donzella? Commisi io mai tale asinità? (entrano Proteo e Giulia)

Prot. Il tuo nome è Sebastiano? Mi piaci, e voglio impiegarti tosto in qualche servigio.

Giul. In ciò che volete; farò quello che posso.

Prot. Ne son convinto. — Ebbene, villano? (a Laun.) Dove siete stato questi due giorni?

Laun. Portai a Silvia il cane, come imponeste.

Prot. E che disse di quel piccolo gioiello?

Laun. In verità, disse che il vostro cane era un cane, e che ringraziamenti da cane valevano per un tal dono.

Prot. Ma lo ricevè?

Laun. Nol volle, e ve l’ho riportato.

Prot. Le offristi forse questo tuo cane per me?

Laun. Sì signore, l’altro mi fu rubato dall’aiutante del carnefice in piazza del mercato: e perciò le esibii il mio, che è grosso dieci volte come vostro, e fa divenire il dono dieci volte maggiore.

Prot. Va, sgombra di qui e trova il mio cane, o non comparire mai più dinanzi a me. Va, dico: resti forse perchè io mi sdegni? Un malandrino è costui che mi fa arrossir sempre. (Laun. esce) Sebastiano, io ti ho preso al mio servizio, in parte perchè ho bisogno di un giovine che sappia con discrezione accudire ai miei negozi; avvegnachè di colui non mi posso fidare; ma specialmente poi pel tuo volto e per la tua condotta, che, se non erro nelle mie congetture, rivelano una buona educazione, un carattere sincero ed aperto. Per questo ti tengo meco. — Va, ora, e reca quest’anello a Silvia. Ben molto mi amava quella che me lo diede.

Giul. Pare che voi non l’amaste, poichè rigettate così i suoi doni. Si direbbe che ella fosse morta.

Prot. No no, credo che viva.

Giul. Oimè!

Prot. Perchè dici oimè?

Giul. Non posso ristarmi dai compiangerla. [p. 188 modifica]

Prot. Perchè la compiangi?

Giul. Perchè mi pare che ella vi amasse assai, che vi amasse quanto voi amate Silvia. Ella pensa giorno e notte all’uomo che l’ha dimenticata, e voi non pensate che a quella che non si cura del vostro amore. É doloroso il vedere che l’amore si frantenda tanto, e un tal pensiero mi forza a sospirare.

Prot. Bene, dàlle quest’anello e questa lettera. - Quella è la sua stanza. — Dille che chieggo il suo celeste ritratto, che ella mi ha impromesso. — Terminato il messaggio, riedi nella mia camera, dove mi troverai solitario e mesto. (esce)

Giul. Quante donne vi sono che volessero assumersi un tale messaggio? Oimè, povero Proteo! tu hai confidato alla volpe la cura dell’armento. Ma stolta ch’io sono, perchè compiango quegli il di cui cuore mi sprezza? È perchè ei ne ama un’altra e sprezza me; ed io, perchè l’amo, debbo compiangerlo. Ecco quell’anello medesimo ch’io gli diedi, allorchè ei mi lasciò per serbare del mio amore una tenera ricordanza; ed ora, sciagaruta, son mandata a chiedere ciò che non vorrei ottenere, per farne un dono che bramerei venisse rifiutato; per esaltare il suo amore che desidererei vedere negletto. Sono amante fida e sincera del mio signore, ma non posso servirlo fedelmente senza tradirmi. Vuo’ nondimeno andar a parlare a Silvia in suo favore, ma con tanta freddezza, quanta è la brama (il Cielo lo sa) che ho di non riescire. (entra Silvia con seguito) Salute, signora! Vi prego di darmi un’occasione onde poter parlare colla vaga Silvia.

Sil. E che vorreste voi dirle, se foss’io quella?

Giul. Se foste voi Silvia, vi supplicherei di ascoltare quello che ebbi incumbenza di dirvi.

Sil. Da chi?

Giul. Dal mio signore, messer Proteo.

Sil. Oh! ei vi manda per un ritratto?

Giul. Sì, signora.

Sil. Orsola, recami quel ritratto. — Va ora, e di’ al tuo signore per me, che una certa Giulia, che il suo cuore incostante ha dimenticata, ornerebbe assai meglio la sua camera di questa vana ombra.

Giul. Signora, vorreste leggere questa lettera?... Perdonatemi se per inavvertenza ve ne avevo data una che non viene a voi: eccovi la vostra.

Sil. Lasciami veder l’altra, te ne prego.

Giul. Nol posso, buona signora, perdonatemi.

Sil. Riprendi questa. Non vuo’ gettar gli occhi sui caratteri del [p. 189 modifica]tuo signore: so che saran pregni di proteste e di giuramenti di fresco inventati, che ei romperebbe così facilmente, come io, questa carta.

Giul. Ei manda ancora a Vossignoria quest’anello.

Sil. Una vergogna di più per lui che me lo manda; perchè gli ho udito dire mille volte che la sua Giulia glielo aveva dato alla sua partenza. Sebbene il suo falso dito abbia profanato quest’anello, il mio non farà alla sua donna tale oltraggio.

Giul. Ella ve ne ringrazia.

Sil. Che dici?

Giul. Che ella vi ringrazia, signora, della compassione che le dimostrate; povera signora! Il mio padrone l’offende assai.

Sil. La conosci tu?

Giul. Quasi al par di me stesso: pensando a’ suoi dolori, vi giuro che ho pianto mille volte.

Sil. Forse ella crede che Proteo l’abbia dimenticata?

Giul. Penso di sì, e questa la è causa de’ suoi dolori.

Sil. Non è ella molto bella?

Giul. Fu molto più bella che non è ora: e quando si credeva amata dal mio signore, era, parmi, bella quanto voi. Dacchè però ha negletto lo specchio, e ha lasciati i veli che la riparavano dai fuochi del sole, l’aria ha appassite le rose delle sue gote, i gigli del suo collo, e fatta è bruna come son io.

Sil. È grande?

Giul. Presso a poco della mia altezza; perocchè alla Pentecoste, allorchè si facevano finti balli, io dovetti recitare una parte da donna, e mi furono dati gli abiti di Giulia, che parevano, secondo il detto di tutti, fatti apposta per me. È da ciò che so che ella è della mia grandezza; e allora la feci ben piangere, avvegnachè compier dovevo una parte assai trista. Io rappresentavo Arianna abbandonata e gemente per lo spergiuro e l’indegna fuga del suo diletto Teseo, e versai lagrime così acerbe, che la mia povera signora, intenerita, gemè amaramente, e ch’io muoia tosto, se in fondo all’anima non risentii tutti i suoi dolori.

Sil. Ella deve averti molte obbligazioni, vago giovine! — Oimè! povera fanciulla desolata e in abbandono! — Piango io stessa pensando alle tue parole. — Eccoti, giovine, la mia borsa: te la do per amore della tua dolce signora, e perchè tu l’ami. Addio, (esce)

Giul. Ed ella ve ne ringrazierà, se mai giungerete a conoscerla, virtuosa donzella, bella al pari che cortese! Io spero che i fuochi del mio signore s’intiepidiranno, poichè ella prende tanto [p. 190 modifica]interesse alla sorte di Giulia. Oimè! come un cuore innamorato cerca d’ingannar se stesso! Ecco il suo ritratto: ch’io lo vegga; credo che la mia testa, se fosse adorna, sarebbe bella del pari. E nondimeno il pittore l’ha un poco adulata, se troppo io non mi adulo. La sua capellatura è castana, la mia bionda come l’oro; e se quest’è la cagione della incostanza di Proteo, vuo’ tingermi i capelli del colore de’ suoi. I suoi occhi sono grigi come il vetro, e i miei pure lo sono. Ella ha la fronte angustissima, e la mia è spaziosa. Che v’ha dunque che tanto piaccia in lei ch’io non trovi del pari amabile in me, se il pazzo amore non fosse mi Dio cieco? Ombra di te medesima, impadronisciti di quest’ombra nemica; è la tua rivale. Oh! tu, ritratto insensibile, tu sarai baciato, carezzato, adorato, e se potessi avere coscienza delle adorazioni di Proteo, vorrei mutarmi nella tua vana effigie. Ti tratterò bene a cagione della tua signora, che con bontà mi ha trattata; altrimenti, lo giuro a Giove, t’avrei divelti quegli insensibili occhi per impedire al mio signore di amarti.

(esce)