I malcontenti/Atto I

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Atto I

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Personaggi Atto II

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ATTO PRIMO.

SCENA PRIMA.

Camera in casa della signora Felicita.

La signora Felicita e Grilletta.

Felicita. Lasciatemi stare, Grilletta; sono arrabbiata quanto mai posso essere.

Grilletta. Questo è fuori del solito; ella suol essere pazientissima per costume, ed ora per così poco vuol dar nelle smanie?

Felicita. Ma se mi ci tirano per i capelli. Mi tocca fare una vita la più sciagurata di questo mondo. Ecco qui, ora siamo all’autunno. Tutti vanno in campagna, ed a me tocca star qui.

Grilletta. Le piace tanto l’aria di villa? So pure che una volta diceva il di lei zio voler trasportare l’abitazione quotidiana della famiglia in villa, ed ella si pose a piangere per paura che lo facesse. [p. 234 modifica]

Felicita. Certo, che per sempre in villa non ci starei; ma a suoi tempi, quando la stagion lo richiede, quando ci vanno gli altri, piacerebbe anche a me di potervi andare. Star in villa quando non c’è nessuno, è cosa da pazzi: ma in tempo dell’autunno, in tempo che vi è tanto mondo, tanta conversazione, è una cosa dehziosissima. Ci andava una volta, quando viveva la povera signora madre. Sono tre anni che non si va più; e quando siamo da questi giorni, quando sento persone che vanno in villa, mi salgono i fumi al capo, mi si destano le convulsioni.

Grilletta. Credo appunto, che oggi o domani vadano a villeggiare anche questi signori che abitano sopra di noi.

Felicita. Sì, è vero. La signora Leonide mi disse ieri, che a momenti sarà di partenza. Anzi non ci pensava ancora quest’anno, ma ella me ne ha fatta venir volontà.

Grilletta. Lo so io il perchè le ha destato il solletico.

Felicita. Oh, voi penserete che sia per il signor Ridolfo di lei fratello. Ma non è vero.

Grilletta. Se il mio pensiero non fosse vero, non l’avrebbe indovinato sì presto.

Felicita. Vi dirò, il signor Ridolfo non mi dispiace, ma è un certo carattere stravagante, che ancora non conosco bene.

Grilletta. In campagna lo conoscerebbe un po’ meglio.

Felicita. Certamente là si pratica con un poco più di confidenza. I nostri beni sono poco distanti dai beni loro: colla signora Leonide siamo amiche; ci praticheremmo spesso1, e per conseguenza vorrei conoscere l’animo e l’intenzione del signor Ridolfo.

Grilletta. Lo dica al suo signor padre; egli che l’ama teneramente, farà di tutto per contentarla.

Felicita. Se stesse a lui, son certa che sarei consolata. Ma egli non conta niente in questa casa. Quell’avaraccio dello zio ha il maneggio, ha i quattrini, e vuol le cose a suo modo.

Grilletta. E suo fratello? [p. 235 modifica]

Felicita. E mio fratello è un babbeo, che non ha coraggio di dir due parole. Questo vecchio ci tien tutti sotto. Per un poco di denari, che ha accumulati col nostro, fa tremar tutti. E non tratta di maritarmi, e non si pensa a divertirmi, e guai a chi parla; ma so io quello che farò.

Grilletta. Che cosa penserebbe ella di fare?

Felicita. Anderò a cacciarmi in un ritiro per sempre, e il signor zio sarà contento.

Grilletta. Sarebbe buona davvero a rovinar se stessa, per far a lui un dispetto.

Felicita. Tant’è, se questa volta non mi dà questa picciola soddisfazione; se non mi manda un poco in campagna, faccio qualche risoluzione.

Grilletta. Può essere, se glielo dice, che la conduca con lui.

Felicita. Oh, non ce lo voglio lui. Non basta che ci sieno mio padre e mio fratello? Non mi ci posso vedere con quel vecchio tisico.

Grilletta. Mi pare che abbiano picchiato.

Felicita. Andate a vedere. Picchiano qui dalla scala.

Grilletta. Sarà la serva della signora Leonide.

Felicita. Può essere che sia ella stessa.

Grilletta. Eh, sarà la serva, che tutto il giorno viene in prestito di qualche cosa. Ora sale, ora olio, ora zucchero: oh che casa disordinata! non hanno mai il bisogno in casa. Almeno qui da noi, per dir il vero, non manca niente. (parte)

SCENA II.

La signora Felicita.

Non manca niente, non manca niente: a me manca tutto. Che importa a me che ci sia sale, olio e zucchero, se manca il miglior condimento, ch’è quello della libertà? Non sono più una bambina da tener per la cintola. Ogn’anno passa un anno, e vedo tante che fanno più di me, e sono meno di me; e voglio fare ancor io quello che fanno le altre. [p. 236 modifica]

SCENA III.

Grilletta e detta, poi la signora Leonide.

Grilletta. È qui la signora Leonide.

Felicita. Va in campagna?

Grilletta. Se ci va? È vestita da viaggio.

Felicita. Ah! tutte sì, ed io no. Quando ci penso, mi vengono cento mali.

Leonide. Serva sua, signora Felicita.

Felicita. Serva, signora Leonide. Come sta?

Leonide. A servirla. Ed ella?

Felicita. A servirla.

Grilletta. (Questo complimento non manca mai). (da sè)

Felicita. Datele da sedere, (a Grilletta, quale porta due sedie e parte)

Leonide. Non s’incomodi, son qui per poco. Son venuta a riverirla, a ricevere i suoi comandi.

Felicita. Vedo ch’ella è di viaggio. Per dove, se è lecito di saperio?

Leonide. In campagna. Nei nostri beni. A goder l’autunno, a star allegramente, con una buonissima compagnia.

Felicita. Ci starà un pezzo?

Leonide. Tutto l’autunno; fino che ci staranno gli altri.

Felicita. Ah! (sospira da sè)

Leonide. Che ha, che mi par melanconica?

Felicita. Niente, mi duole un poco la testa. S’accomodi.

Leonide. No, perchè bisogna ch’io vada via.

Felicita. Quando si parte?

Leonide. Oggi, a qualche ora.

Felicita. Viene il signor Ridolfo?

Leonide. Sì signora, viene egli, viene il signor Roccolino, altri tre o quattro amici di mio fratello. Non manca gente; staremo allegri.

Felicita. Ma! è fortunata la signora Leonide!

Leonide. Oh, io in verità non posso lamentarmi di niente. In casa mi fanno tutto quello che voglio. Vede quest’abito? Me l’hanno fatto ora a posta per andar in campagna. [p. 237 modifica]

Felicita. Anch’io me ne faccio uno. S’accomodi un poco.

Leonide. No, perchè vado via. Di che cosa lo fa quest’abito?

Felicita. Non so s’io me lo faccia di carè, o di stoffetta.

Leonide. Per portare in città, vuol essere un bel drappo di seta alla moda.

Felicita. Basta, ci penserò. Mi dispiace vederla in piedi.

Leonide. Bisogna ch’io me ne vada: m’aspettano. Dica, ella non ci va in campagna?

Felicita. Non so; può essere.

Leonide. Poverina! in verità me ne dispiace. Sempre qui sagrificata. Hanno poca carità questi suoi parenti, e per dirla anche, poca convenienza.

Felicita. Oh, io non me ne sono curata d’andar in campagna; per altro...

Leonide. Oh, s’ella ci stesse un anno, come stiamo noi, l’assicuro che non la lascierebbe più.

Felicita. Stanno allegri dunque?

Leonide. Allegrissimi. Senta: voglio dirle la vita che abbiamo fatto l’anno passato.

Felicita. Non vorrei che per me l’aspettassero.

Leonide. Che importa a me? che aspettino. Siamo andati in dodici in compagnia; e tutti uomini, donne, padroni, servitori, carrozze, cavalli, tutti alla nostra villa. Arrivati colà, trovammo preparata una sontuosa cena; dopo cena si giocò al faraone, e siccome il sonno andava prendendo ora l’uno, ora l’altro, e mio fratello ed io eravamo impegnati nel giuoco, ciascheduno che aveva volontà di dormire, andò nel primo letto che ritrovò, ed io fui obbligata dormir colla cameriera, e mio fratello sul canapè.

Felicita. Questo è piacere! Questa libertà mi piace. E la mattina, come andò poi?

Leonide. La mattina? Bellissima...

Felicita. Ma non istia così in piedi.

Leonide. La mattina dopo, (sedendo) chi si levò tardi, e chi si levò di buon’ora. Chi al passeggio, chi a leggere, e chi alla [p. 238 modifica] tavoletta. Verso mezzodì, ci ragunammo a bevere la cioccolata; e poi al giuoco, e si giocò fino che la zuppa era in tavola. Dopo pranzo chi andò a dormire, chi a passeggiare, e chi... Ehi, amica, un po’ di genietto ci ha da essere, ci s’intende.

Felicita. Ed io sempre qui.

Leonide. Non farei la vita che ella fa, se credessi di diventar regina.

Felicita. Eh! questa volta mi sentiranno. Basta, basta. E così? Dica, dica, come andò poi?

Leonide. Andò benissimo, e tutti i giorni bene, e sempre bene. Tardi a letto, buona tavola, gioco eterno, amoretti fra mezzo un po’ di ballo, un po’ di passeggio, un poco di dir male del prossimo, abbiamo fatto una villeggiatura la più piacevole di questo mondo.

Felicita. Queste sono cose per altro, che si possono fare anche in città.

Leonide. Oh, vi è altra libertà in campagna. Quante cose si fanno colà liberamente, che qui non convengono. Per esempio...

Felicita. Cara signora Leonide, non vorrei che per causa mia la si trattenesse...

Leonide. Niente, niente; non ho da far niente.

Felicita. Perchè pareva che ella avesse premura...

Leonide. Per esempio, se qui una giovane civile si vedesse passeggiare con un giovanotto2, che direbbero mai le genti?

Felicita. Oh qui? guardi il cielo! E in campagna si fa...

SCENA IV.

Grilletta e dette.

Grilletta. Signora, è domandata di sopra. (a Leonide)

Leonide. Vengo. In campagna ogni giorno si vedono visi nuovi che vanno e vengono, e si trattano con libertà; qui? pensate. [p. 239 modifica]

Felicita. Qui? se viene uno in casa, immediatamente si critica.

Leonide. E poi...

Grilletta. Signora, la pregano di far presto.

Leonide. Vado subito. (s’alza) E poi quel!’aria aperta, quel verde, quei fiori, quell’acque fanno proprio allargar il cuore.

Felicita. Ed io qui.

Leonide. Poverina! e ella qui.

Felicita. Ma non ci starò.

Grilletta. Sente, signora? picchiano. (a Leonide)

Leonide. Signora Felicita, io me ne vado.

Felicita. Faccia buon viaggio.

Leonide. Vuol venire con noi?

Felicita. Se potessi!

Leonide. Poverina! non vogliono eh?

Felicita. Ah! chi sa?

Leonide. Me ne dispiace tanto. È una miseria la sua.

Felicita. Se poi mi metterò al punto, ci anderò.

Leonide. Io intanto ci vado.

Felicita. Buon pro le faccia.

Leonide. E mi divertirò assaissimo.

Felicita. Felice lei!

Leonide. E vado presto. E in buona compagnia; e con denari da giocare, e con degli abiti da comparire, e con l’amante al fianco, che nessuno sa niente. (piano a Felicita) Signora Felicita, la riverisco. (Ha una rabbia, ha un’invidia che si divora). (da sè, e parte)

SCENA V.

La signora Felicita e Grilletta.

Felicita. (Ci mancava costei a farmi disperare un po’ più). (da sè)

Grilletta. Via, signora padrona, non istia ad affliggersi per così poco. Se non anderà quest’anno in campagna, ci anderà un altro.

Felicita. Ci voglio andare quest’anno. Non sono una miserabile: abbiamo anche noi case e poderi quanto la signora Leonide, e due volte più. [p. 240 modifica]

Grilletta. Non vi è altra differenza, se non che ha dei parenti che la contentano, e ella è tenuta bassa.

Felicita. Lo dirò a mio padre. Io non voglio più far questa vita. Mio padre e mio fratello sono uomini come gli altri. Se vogliono, mi possono dare questa piccola soddisfazione, e se non vogliono, so io quel che farò.

Grilletta. Vuol ella forse...

Felicita. So io quel che risolverò.

Grilletta. Ecco qui il signor padre: gli dica l’animo suo.

Felicita. Capperi, se glielo dirò!

Grilletta. Io me ne vado, non voglio altri guai; ne ho tanti de’ miei, che mi bastano.

Felicita. Che avete voi, che vi dà fastidio?

Grilletta. Un affanno grande grandissimo, che mi fa vegliare di notte e smaniare di giorno.

Felicita. E in che consiste?

Grilletta. Nella volontà di marito. (parte)

SCENA VI.

La signora Felicita, poi il signor Policastro.

Felicita. Questo desiderio l’ho anch’io, perchè mi tengono qui incatenata... Se avessi un poco di libertà, come hanno le altre, forse forse non ci penserei. Mai una volta a spasso; mai un anno in campagna...

Policastro. (In veste da camera, con un cartoccio di datteri in seno) Ogni giorno s’hanno a sentir a dire le medesime cose. Sono stufo io di sentirle. (verso la scena)

Felicita. Con chi l’ha, signor padre?

Policastro. L’ho, l’ho... Che cosa sono io? un ragazzo? Ho de’ figliuoli grandi e grossi, e non ho bisogno che nessuno mi venga a far il dottore. (verso la scena, come sopra; poi si mangia un dattero)

Felicita. Di grazia, posso sapere io con chi parla ora?

Policastro. Parlo con quel satrapo di mio fratello. [p. 241 modifica]

Felicita. Ma egli non sente ora. Là non c’è, non lo vedo.

Policastro. E se ci fosse, non parlerei; perchè se io dico una parola, egli ne vuol dir dieci, e sempre vuol avere ragione.

Felicita. Davvero, davvero, questo signor zio vuol far troppo. Per che causa si sono attaccati presentemente?

Policastro. Ogni giorno non si sente altro da lui che rimproveri, che consigli, che dicerie e sbeffature. Chi sente lui, io sono un poltrone che non fa niente. Mi rimprovera, perchè levo un po’ tardi, perchè vado poco fuori di casa, perchè non m’imbarazzo nelle cose della famiglia. Oh bella! siamo in due, un po’ per uno. Egli bada agi’interessi, al negozio, alle riscossioni, alle lettere e che so io; ma io in vent’anni continui ho avuto una moglie al fianco, che mi ha fatto diventar canuto prima del tempo. Ora è tempo che mi riposi. Gridi quanto vuole, dica quel che sa dire: io non voglio far niente. L’avete capita? io non voglio far niente. (si mangia un dattero)

Felicita. Certo; se il signor zio si leva presto, fa, gira e fatica, ha anche il piacere di esser egli il padrone di tutto; e vossignoria che è il maggiore, e ha la famiglia, non è padrone di niente.

Policastro. Di questo ci penso poco. Una lira al giorno mi basta, per i miei minuti piaceri. Ma non voglio far niente.

Felicita. Almeno, caro signor padre, pensi un poco ai suoi figli, non lasci che lo zio li tiranneggi così.

Policastro. Sicuro, che i miei figliuoli voglio che abbiano il lor bisogno.

Felicita. Ecco, ora tutte le persone civili che hanno il modo di poterlo fare, vanno in campagna, e noi dobbiamo star qui a nostro marcio dispetto.

Policastro. L’è che ci anderei anch’io un poco in villa: sono tant’anni che non ci si va.

Felicita. Ma perchè non ci andiamo?

Policastro. Perchè il signor Geronimo non vuole.

Felicita. E V. S. non è padrone quanto lui?

Policastro. Lo sono certo padrone: ancor io lo sono. [p. 242 modifica]

Felicita. Non comanda ella pure?

Policastro. Comando ancor io, comando.

Felicita. Dunque dica che vuol andare.

Policastro. Lo dirò io.

Felicita. E andiamoci tutti.

Policastro. Ci anderemo noi. (mangiasi un dattero)

Felicita. Che mangia, signor padre?

Policastro. Mangio de’ datteri; mi piacciono tanto. Ne volete voi? (le mostra il cartoccio)

Felicita. Obbligatissima. (Il ricusa)

Policastro. Sono buoni veh!

Felicita. Sono troppo dolci.

Policastro. Mi piace tanto a me il dolce, mi piace.

Felicita. Pensi un poco, signore, a persuadere il signor zio Geronimo che ci conduca in campagna, o che ci lasci andare da noi.

Policastro. E se non ci vorrà condurre, ci anderemo da noi.

Felicita. Meglio; ci averei più gusto io.

Policastro. Ci anderemo da noi. (si mangia un dattero)

Felicita. Il denaro non lo potrà negare.

Policastro. Non lo potrà negare.

Felicita. Vada dunque subito a dirglielo, prima ch’egli esca di casa.

Policastro. Non ci parlo troppo volentieri io con lui.

Felicita. Dunque, come s’ha da fare?

Policastro. Fate così. Felicita; diteglielo voi, diteglielo.

Felicita. Oh, a me non mi baderà. Se ci fosse anche lei...

Policastro. Ci sarò io.

Felicita. Eccolo che va via. (osservando fra le scene)

Policastro. Buon viaggio.

Felicita. Se non gli parliamo ora...

Policastro. Come volete ch’io faccia?

Felicita. Chiamiamolo.

Policastro. Io non lo chiamo.

Felicita. Lo chiamerò io. Signor zio, dica, signor zio. (verso la scena)

Policastro. (Me n’anderei tanto volentieri). (da sè)

Felicita. Ora gli si dice tutto, e si parla schietto. (a Policastro) [p. 243 modifica]

SCENA VII.

Il signor Geronimo e detti.

Geronimo. Che cosa volete, signora nipote?

Felicita. È qui il signor padre, che le vorrebbe parlare.

Policastro. Io non voglio niente, io. (si mangia un dattero)

Geronimo. Il signor Policastro si diverte coi datteri.

Policastro. Vi do fastidio? Anderò via. (in atto di partire)

Felicita. No, signor padre, non vada via. Dica quello che gli voleva dire.

Policastro. Glielo potete dire anche voi.

Felicita. Glielo dirò, se così comanda.

Geronimo. È una gran cosa questa, che vi vuol tanto a dirla?

Felicita. Avremmo3 volontà, signore, d’andar un poco in campagna.

Geronimo. Perchè non me l’avete detto due mesi prima, che vi averei compiaciuto volentieri?

Felicita. D’agosto non si va in campagna.

Geronimo. Anzi, quand’è caldo, allora si gode l’aria aperta. Che vorreste far in villa nel mese d’ottobre, in cui per solito principia il freddo, principiano le pioggie, e conviene stare ritirati in casa? Che dite, signor Policastro, non si sta meglio in città?

Policastro. Sì; quando principia il freddo, si sta bene in casa.

Felicita. Ma che vuol dire, che ora tutti fanno le loro villeggiature? (a Geronimo)

Geronimo. Volete voi dire di quelli che vanno a far il loro vino? Noi abbiamo de’ buoni castaidi, de’ buoni fattori, non vi è bisogno che c’incomodiamo per questo. Il bucato lo faccio far nell’estate. In verità, credetemi, ora ci servirebbe d’incomodo. Non è egli vero, signor Policastro?

Policastro. Per me... non dico nulla io... Felicita vorrebbe ella.... (mangiando il dattero)

Felicita. Io e Grisologo mio fratello vorremmo4 dal signor zio [p. 244 modifica]questo piacere in quest’anno, che ci facesse godere un poco di villeggiatura d’autunno; e se non può venir lui, verrà il signor padre. Non è egli vero, signor padre, non ci verrà ella volentieri con noi?

Policastro. Ci verrò io.

Geronimo. Ci andereste voi? (a Policastro)

Policastro. Eh, perchè no?

Geronimo. A far che ci andereste? (alterato)

Policastro. A far che, a far che? Ci anderei. A far che, a far che?

Geronimo. Già rispondete sempre a proposito.

Policastro. A proposito certo; rispondo5 a proposito io.

Felicita. Ci vanno tanti; perchè non ci possiamo andare anche noi?

Policastro. Ci vanno tanti, eh?

Felicita. Sì signore. Ci vanno ora anche questi che stanno sopra di noi. E alla signora Leonide hanno fatto un abito nuovo da viaggio, a posta per andar in campagna.

Geronimo. Ne vorreste uno anche voi?

Felicita. Lo vorrei certo.

Geronimo. Che dice il signor Policastro?

Policastro. Lo vorrebbe lei.

Felicita. Che dice il signor zio?

Geronimo. Ho che fare ora; ne parleremo poi.

Felicita. Ma questo poi, compatitemi, è troppo. Non mi voler contentare in niente. Signor padre, dica qualche cosa anche lei.

Policastro. Eh... contentatela.

Geronimo. Fatelo voi, se avete il modo di farlo.

Felicita. Lo farebbe lui, se il signor zio non facesse tutto da sè.

Policastro. Lo farei io, se ne avessi.

Felicita. Finalmente il signor padre è padre.

Geronimo. Certamente, è padre; ha messi al mondo due figli.

Policastro. Vi par poco, eh?

Geronimo. Ma non è buono da mantenerli.

Felicita. Che non ci sono le entrate?

Policastro. Che non ci sono le entrate? [p. 245 modifica]

Geronimo. A che basterebbero6 le entrate, se io coll’industria mia non aumentassi gli utili della casa? Poveri sciocchi! Vorreste andare in villa, eh? Vorreste andare a goder l’autunno! Lo so perchè ci anderebbe volentieri la signora nipote ed il pazzo di suo fratello... Perchè l’autunno in villa non si va a goder la campagna, ma si va a far la conversazione. E il padre amoroso li seconderebbe questi cari figliuoli, e anderebbe a mangiar in un mese in villa quello che basta quattro mesi in città. Non vi anderebbe per economia, no, come farebbe qualche altro buon padre di famiglia: vi anderebbe per ispendere, per divertirsi, per far da grande più che non è. Un abito nuovo per andar in campagna! Quando si va in campagna, si va per risparmiarli i vestiti, non per farne de’ nuovi. Si va per godervi la libertà, non per essere in maggior soggezione. Cospetto di bacco! se vi piace la villa, vi soddisferò7, signori miei, sì, vi soddisferò. Vi ci farò stare tredici mesi dell’anno. Ma sapete dove? Dove non vi sieno case di villeggianti, dove non si radunano le genti per giocare, per ballare, per tripudiare. In un bosco, in un bosco. O qui, o in un bosco. Signora nipote, la riverisco. Signor fratello, badi a mangiare i suoi datteri, che farà meglio. (parte)

Policastro. (Cava un dattero e lo mangia.)

SCENA VIII.

La signora Felicita ed il signor Policastro,
poi il signor Grisologo.

Felicita. (Cava il fazzoletto e piange.)

Policastro. (Mangia i datteri e non dice niente.)

Grisologo. Sorella, ho sentito ogni cosa. Signor padre, ho sentito ogni cosa. Ero dietro di quella porta, ho sentito ogni cosa.

Felicita. Lo zio è un cane; e il signor padre non parla. [p. 246 modifica]

Policastro. Che ho da dire io? non sentite? Parla, parla, parla; chi gli può rispondere?

Grisologo. Non vuol che si vada in campagna?

Felicita. Non vuole.

Grisologo. Non vuole eh, signor padre?

Policastro. Non vuole.

Grisologo. E che sì, che ci andiamo?

Felicita. Come?

Grisologo. E che sì, signor padre?

Policastro. Come?

Grisologo. Quanto ci vuole a far una quindicina di giorni di villeggiatura?

Felicita. Il luogo 8 l’abbiamo. I mobili fuori ci sono, e tutto il bisogno di biancheria, di cucina, di letti.

Grisologo. È egli vero, signore? C’è poi tutto?

Policastro. Oh, non so niente io.

Felicita. La signora madre, poverina, me l’ha detto cento volte. Ci è tutto; lo so di certo.

Grisologo. Dunque quanto denaro ci vorrebbe? (a Felicita)

Felicita. Non saprei. Domandatelo al signor padre.

Grisologo. Quanto ci vorrebbe? (a Policastro)

Policastro. Non so niente io, non ho pratica.

Grisologo. Basteranno dodici zecchini? (a Felicita)

Felicita. Crederei di sì.

Grisologo. Basteranno? (a Policastro)

Policastro. Crederei di sì.

Grisologo. Domani anderemo in campagna.

Felicita. Ma come?

Policastro. Come, come?

Grisologo. Domani anderemo in campagna.

Felicita. Avete voi dodici zecchini?

Policastro. Li avete voi dodici zecchini?

Grisologo. Li averò questa sera; e domani anderemo in campagna. [p. 247 modifica]

Felicita. A dispetto di vostro zio.

Policastro. A dispetto di mio fratello.

Felicita. Ma in che maniera li averete voi questi denari?

Grisologo. Sentite. Ve lo confido, non voglio che nessuno lo sappia.

Felicita. Non dubitate.

Policastro. Eh, non parlo io.

Grisologo. Vi è nota già quella tragicommedia, che ho fatto per il teatro...

Felicita. Quella che dite essere sul gusto inglese?

Grisologo. Sì, quella. La prima e l’unica che finora ho fatto.

Policastro. Gran buona testa che ha il mio Grisologo! Non so come faccia a saper tanto.

Felicita. E così? Seguitate.

Grisologo. E così, l’ho data ai comici, come sapete; e questa sera la devono rappresentare, e se piace al pubblico, mi hanno da contare domani dodici zecchini d’oro.

Felicita. E se poi non piacesse?

Grisologo. Piacerà sicuramente.

Policastro. Piacerà sicurissimamente.

Grisologo. È vero che non ne ho più fatto, ma questa son certo che piacerà, perchè le novità sempre piacciono, ed io pretendo d’aver trovato una novissima novità. Sui nostri teatri non si è più sentito lo stile di Sachespir9, celebre autor inglese.

Policastro. Intendete anche l’inglese voi?

Grisologo. Qualche poco l’intendo.

Policastro. Ma come diamine fa a saper tanto?

Felicita. Dunque, se piace, dodici zecchini.

Grisologo. E piacerà senz’altro.

Policastro. Piacerà senz’altro.

Grisologo. Rimarranno storditi, quando sentiranno questo novello stile.

Policastro. Lo stile di... come si chiama? [p. 248 modifica]

Grisologo. Di Sachespir.

Policastro. Di Sachespir.

Felicita. E noi anderemo in campagna.

Grisologo. Anderemo in campagna.

Policastro. Anderemo in campagna.

Felicita. Vado a dirlo alla signora Leonide. (parte)

Grisologo. Sentirà, signor padre, che bella cosa.

Policastro. Tieni due datteri, che te li dono di cuore. (dà due datteri a Grisologo, e mangiandone uno parte)

Grisologo. Altro che datteri! Se prende fuoco il novello stile, do scaccomatto a quanti poeti ci sono. (parte)

SCENA IX.

Camera in casa del signor Ridolfo.

Il signor Ridolfo, Cricca ed un Sarto.

Ridolfo. Gran vizio maladetto di voi altri sarti, che volete sempre farvi aspettare.

Sarto. Abbiamo lavorato tutta notte per servirla.

Ridolfo. Sono quindici giorni che ho ordinato quest’abito per andar in campagna, e vi siete ridotti a portarlo ora che ho i cavalli da posta in casa; ora che10 sto per partire.

Sarto. Bisogna ch’ella sappia...

Ridolfo. Non avete pontualità, non avete parola, non avete rispetto per le persone di qualità, di carattere.

Sarto. Se mi permette, vorrei giustificarmi, signore, della mia tardanza.

Ridolfo. Via, che direte in vostra giustificazione? Sono quindici giorni.

Sarto. È vero, sono quindici giorni; ma il mercante da oro, che ci doveva dare i galloni per di lei conto, non ha voluto darli senza il denaro, ed il mio padrone è stato costretto a prenderli da un altro, e metter fuori il denaro di sua scarsella. [p. 249 modifica]

Ridolfo. Cricca, tirate giù. Vediamo se questo vestito va bene. (si fa vestire da Cricca)

Cricca. (Ehi, l’istoria dei galloni lo ha ammutolito). (piano al sarto)

Sarto. (Cattivo segno).. (piano a Cricca)

Ridolfo. Via, proviamolo. (al sarto, il quale gli mette il vestito)

Sarto. Dovrebbe andar bene. Il padrone non è solito di fallare.

Ridolfo. Ecco, è troppo largo.

Cricca. Lo ha lasciato a posta un poco larghetto: l’autunno vengono delle giornate fredde; se vuol mettersi sotto qualche cosa di più...

Ridolfo. Cricca, chiamate mia sorella, ditele che venga a vedere se quest’abito mi sta bene.

Cricca. Poco fa non c’era la signora Leonide. Non so se sia ritornata.

Ridolfo. Andate a vedere.

Cricca. La servo subito. (parte, poi torna)

Sarto. L’assicuro che gli sta dipinto.

Ridolfo. Queste maniche non mi paiono alla moda.

Sarto. Oh, che dice mai! Vedrà che tutti i forestieri le portano così.

Ridolfo. Ho veduto ieri un inglese, che le aveva due dita più lunghe.

Sarto. Sarebbe poi una caricatura.

Cricca. Signore, è qui il procuratore di casa, che avrebbe necessità di parlargli.

Ridolfo. Ditegli che or ora vado in campagna, che non ho tempo di sentire a parlar di liti.

Cricca. Veramente gliel’ho detto io, ma mi ha risposto che la premura è grande, e prima ch’ella parta, gli deve tenere un piccolo discorsetto.

Ridolfo. Gran seccatori! Che aspetti. Quando mi sarò spicciato del sarto, potrà venire. La signora Leonide l’avete veduta?

Cricca. Non signore, per causa del procuratore. Vado ora a ricercare di lei.

Ridolfo. Ditele che l’aspetto.

Cricca. (Ogni anno da questi giorni si mette in confusione la casa. E gli interessi suoi vanno in precipizio). (da sè, e parte) [p. 250 modifica]

SCENA X.

Ridolfo ed il Sarto.

Ridolfo. Parmi che il vestito non vada male.

Sarto. Va benissimo, l’assicuro.

Ridolfo. Sentiremo che dirà mia sorella.

Sarto. Intanto favorisca veder il conto.

Ridolfo. E, non importa. Tenetelo, lo vederò un’altra volta.

Sarto. Il padrone la prega...

Ridolfo. Ditegli che al mio ritorno lo pagherò immediatamente.

Sarto. Ma egli ne ha bisogno, signore. Ha sborsato i denari per il panno, per i galloni...

Ridolfo. Bene, lo pagherò al ritorno.

Sarto. Ma in verità, ne ha bisogno grandissimo.

Ridolfo. Orsù, andate. Io non ho tempo da perdere. Ho da sentir il procuratore, che mi preme assai più del sarto.

Sarto. E al mio padrone preme aver il denaro.

Ridolfo. Signor dottore, favorisca. (alla porta)

Sarto. Aspetterò...

Ridolfo. Andate, vi dico.

Sarto. Non vuol sentire l’opinione della signora Leonide, se il vestito va bene?

Ridolfo. Va bene, va benissimo. Non occorr’altro. Dove diamine si è cacciato il procuratore? Signor dottore. (chiama) Eccolo; aveva il capo fuori della finestra.

SCENA XI.

Il Procuratore e detti.

Procuratore. Servitor umilissimo, signor Ridolfo.

Ridolfo. La riverisco divotamente. (Andate a fare i fatti vostri). (al sarto)

Sarto. Ma, signore, almeno...

Ridolfo. Sì, aspettate. Ecco un paolo per voi. Andate. [p. 251 modifica]

Sarto. Anderò. Non lo vuole il conto?

Ridolfo. Lasciatelo, se lo volete lasciare.

Sarto. Eccolo.

Ridolfo. Mettetelo lì su quel tavolino.

Sarto. Come comanda. (Ci gioco io, che questo conto gli serve per fare una spazzatura! Questa è poi la ragione, perchè da chi paga si fanno pagare il doppio). (da sè; mette il conto sul tavolino, e parte)

SCENA XII.

Il signor Ridolfo ed il Procuratore.

Ridolfo. Che mi comanda il signor dottore?

Procuratore. Signore, abbiamo delle novità che mi danno un po’ da pensare.

Ridolfo. Se si tratta di liti, ora non si fa niente. Tutti vanno in campagna.

Procuratore. Eh, signore, si tratta di peggio assai che di liti! Evvi una congiura di creditori, i quali avendo saputo che V. S. va in campagna, vogliono esser pagati, altrimenti minacciano...

Ridolfo. Che minacciano? che cosa minacciano?

Procuratore. Niente altro che di assicurare per via di giustizia il pagamento de’ loro crediti.

Ridolfo. E che cosa possono fare costoro?

Procuratore. Possono sequestrare, inventariare, e anche far qualche istanza contro della persona.

Ridolfo. Caro signor dottore, fatemi il piacere voi di acchetarli. Dite loro che al mio ritorno pagherò tutti.

Procuratore. Sarà inutile ch’io dica questo. Sanno che ella va in campagna per ispendere, e non per avanzare. Sono parecchi anni che si tengono a bada con parole. Ho detto assai; ho detto tutto quello che poteva dire. Non vi è rimedio, sono risolutissimi.

Ridolfo. Costoro mi faranno fare delle bestialità.

Procuratore. Non gioveranno niente per acchetarli. [p. 252 modifica]

Ridolfo. Ma qual rimedio ci trovereste voi?

Procuratore. Il rimedio più facile sarebbe dar loro un poco di denaro alla mano, e per il resto vedere di accomodarsi alla meglio.

Ridolfo. Dite bene voi, signor dottore carissimo, ma io di denaro sto male assai.

Procuratore. Perdoni, se mi avanzo troppo. Ella fa delle spese superflue. Ecco, per andar in campagna si è fatto un vestito nuovo, magnifico, che non occorreva. Averà speso de’ zecchini parecchi, e con questi poteva contentare due o tre creditori.

Ridolfo. A dirvi la verità... per quest’abito sinora non ho sborsati denari.

Procuratore. E quando lo pagherà?

Ridolfo. Al ritorno.

Procuratore. Tutti al ritorno. Ma non si ricorda ella, che il vino di quest’anno lo ha quasi tutto obbligato a quel signore che gli ha guadagnati i dugento zecchini al faraone?

Ridolfo. La mia pontualità voleva che io facessi così. I debiti di gioco devono essere i primi pagati da chi ha riputazione in capo.

Procuratore. E i poveri bottegai che hanno dato il loro sangue...

Ridolfo. Orsù, non ho bisogno che voi mi facciate nè il correttore, nè il moralista. Pensate al ripiego, se c’è presentemente. Voglio andar in villa. Sono impegnato con una partita d’amici, e non posso sottrarmi.

Procuratore. Vuol ella dar niente alla mano a quelli che fanno il fuoco più grande?

Ridolfo. Dei denari che ho destinati per la villeggiatura, non ne posso toccar uno. Ho preso le mie misure: cencinquanta zecchini in un mese, è il meno ch’io possa spendere. Non me ne priverei di uno, se andasse a fuoco la casa.

Procuratore. Dunque quid agendum?

Ridolfo. Tocca a voi, che siete del mestiere.

Procuratore. Non basta ora uno che sappia fare il legale, ci vorrebbe uno che sapesse far l’oro. [p. 253 modifica]

Ridolfo. Voi altri, quando vi preme, lo cavate di sotterra.

Procuratore. Quando c’è, si cava: ma quando non c’è, non si cava.

Ridolfo. Chi ha ceppi, può far delle scheggie. Non ho io de’ beni per trovar a interesse quello che mi bisogna?

Procuratore. Quando così le comoda, si potrà fare.

Ridolfo. Quanto credete voi che ci vorrà per far tacere costoro?

Procuratore. Per quello che ho potuto raccogliere, un migliaio di scudi.

Ridolfo. Bene, trovatemi voi mille scudi a censo.

Procuratore. Si troveranno. Ma se ella ora si contentasse di distribuire quel denaro che ha, potrebbe darsi che tirassero innanzi.

Ridolfo. No; questo denaro è per la villeggiatura; questo non si tocca. Trovate voi mille scudi, e accomodiamola.

Procuratore. Ci vorrà tempo per ritrovarli.

Ridolfo. Frattanto che io sono in villa, avrete tempo di farlo.

Procuratore. Oh, i creditori non la lasciano andare, senza esser pagati.

Ridolfo. Che! ardiranno di tenermi qui sequestrato?

Procuratore. Ardiranno anche più, per esser pagati.

Ridolfo. Fate voi la sicurtà per me.

Procuratore. Non si può, signore. I procuratori non possono farsi mallevadori de’ principali. (Ci mancherebbe anche questa!) (da sè)

Ridolfo. Dunque, che s’ha da fare?

Procuratore. Con un po’ di tempo si troveranno.

Ridolfo. Ma se oggi debbo andar in campagna.

Procuratore. Per oggi è impossibile.

Ridolfo. E quando?

Procuratore. Più presto che si potrà.

Ridolfo. Domani per assoluto.

Procuratore. Vedremo.

Ridolfo. Più in là di domani non aspetto certo.

Procuratore. Ma le vostre liti, signore, avrebbero bisogno di un poco di attenzione. Sarebbe necessario che si tenesse qualche sessione cogli avvocati, ora appunto che hanno meno che fare. [p. 254 modifica]

Ridolfo. Al mio ritorno ci baderò.

Procuratore. E intanto gli avversari non dormono.

Ridolfo. Badate voi a non dormire, e a trovarmi subito i mille scudi, o qualche espediente per sottrarmi da quei bricconi che mi circondano.

Procuratore. Non dite loro bricconi. Sono genti oneste, che vi hanno affidato il sangue loro.

Ridolfo. Or ora mi fareste venir la rabbia.

Procuratore. Anderò via, per non alterarvi.

Ridolfo. Avvertite, che domani voglio partire.

Procuratore. Ho capito. Servitor suo.

Ridolfo. Schiavo, signor dottore.

Procuratore. (Gran cosa a questo mondo! Per fare quello che non si può, si fa anche quello che non si deve). (parie

SCENA XIII.

Il signor Ridolfo, poi la signora Leonide.

Ridolfo. Sono alcuni anni che le cose mie vanno male. Quando torno di villa, vo’ principiare a mettermi in economia. Sarebbe tempo ch’io mi accasassi. Se trovassi una buona dote, potrei sanar le mie piaghe, e fare un poco più di figura. La signora Felicita sarebbe un buon partito, se suo zio volesse maritarla. Ma è un vecchio stitico, a me non la vorrà dare.

Leonide. Eccomi, signor fratello. Mi rallegro del bel vestito.

Ridolfo. Che vi pare? va bene?

Leonide. Va benissimo. Mi piace, è di buon gusto; è benissimo fatto. Ma che vi pare del mio?

Ridolfo. Anche il vostro non istà male.

Leonide. Appunto questo è il conto del sarto; bisogna pagarlo.

Ridolfo. Lo pagherò al ritorno.

Leonide. Sono in parola di pagarlo subito; gli ho detto che fosse ritornato, e sarà qui a momenti.

Ridolfo. Ma io ora non sono in comodo di pagarlo.

Leonide. Come! non avete denari? [p. 255 modifica]

Ridolfo. Ho il bisogno per la villeggiatura. Non voglio privarmi di quello mi può bisognare in campagna.

Leonide. In questo non so darvi torto. Mi dispiace che il sarto verrà, ho promesso, e non so come disimpegnarmi.

Ridolfo. Ma voi non siete senza denari. Vi ho pur dato dieci zecchini l’altr’ieri; ne avevate degli altri.

Leonide. Questi non si toccano. Li tengo per giocare. Vorreste ch’io mi trovassi in un impegno senza denari?

Ridolfo. Avete ragione. Ma se viene il sarto...

Leonide. Se viene, se n’anderà come sarà venuto. Già m’immagino che or ora si partirà.

Ridolfo. Dubito che non si partirà così presto.

Leonide. I cavalli da posta sono venuti, sono giù nella stalla.

Ridolfo. Bene, che aspettino; e che diano da mangiare ai postiglioni, ed il fieno ai cavalli.

Leonide. Dunque si desina qui?

Ridolfo. Si desina qui certo.

Leonide. Il cuoco non sa niente.

Ridolfo. Avvisatelo che si desina qui.

Leonide. E la compagnia che deve venire con noi, sa che non si parte per ora?

Ridolfo. Ora manderò ad avvisare.

Leonide. Potrebbe restare a pranzo con noi, ma il cuoco non sarà a tempo.

Ridolfo. E poi, se non si partisse nè meno in tutt’oggi...

Leonide. Come! che! lo ponete in dubbio che si parta oggi? Sarebbe bella! S’ha da partire per assoluto. Ho fatto far le ambasciate, ho fatto le visite, mi sono licenziata dalla conversazione; e che oggi non si partisse? Non vi mancherebbe altro davvero. S’ha da partire, vi dico.

Ridolfo. Si partirà.

Leonide. Ma perchè lo poneste in dubbio?

Ridolfo. Non si potrebbero dar de’ casi?...

Leonide. Quai casi andate voi immaginando? Quando s’ha stabilito, si fa. S’ha detto di partire, si partirà. [p. 256 modifica]

Ridolfo. Si partirà.

Leonide. Pare che lo diciate per farmi grazia. Si partirà, o non si partirà?

Ridolfo. Si partirà.

Leonide. Badate bene, che se non si parte...

Ridolfo. Si partirà, si partirà, si partirà. (parte)

SCENA XIV.

La signora Leonide, poi il signor Roccolino col suo Servitore.

Leonide. Se fosse mio marito, gli avrei risposto: se non partirete voi, partirò io; ma sono ancora fanciulla, e col fratello non posso dire così. Non vedo l’ora di maritarmi.

Roccolino. (Vestito da viaggio, cogli stivali grossi in piedi e colla scuriata in mano, seguito dal servitore che porta un valigiotto) Riverisco, riverisco, eccomi; riverisco.

Leonide. Oh signor Roccolino, siete sollecito.

Roccolino. M’hanno detto alle diciassette. Ecco la mostra della verità. Diciassette, meno quattro minuti. (mostra l’orologio e poi lo ripone)

Leonide. Mio fratello, per ragione de’ suoi affari, non può partire questa mane. Abbiamo però differito per dopo pranzo.

Roccolino. Benissimo. Partasi quando si parte. Io sono all’ordine per partire.

Leonide. E quello il vostro bagaglio?

Roccolino. Per obbedirvi.

Leonide. È molto in diminutivo.

Roccolino. Ma dentro vi sono delle cose superlative.

Leonide. In che consistono? Poco vi può essere, per quel ch’io vedo.

Roccolino. Polve di Cipro finissima, manteca odorosissima, melissa, samparelie, lavanda, ed una libreria intiera di canzonette novissime.

Leonide. Bravissimo! mi piace l’idea, ci divertiremo. Ma non fate più stare colla valigia in collo quel poveruomo. All’ora del partire c’è tempo. [p. 257 modifica]

Roccolino. Ora sono le diciassette in punto. (guardando l’orologio) Con permission di madama. Scaricate la valigia costì. (al servitore)

Leonide. Se volete lasciar qui la valigia, siete padrone di farlo.

Roccolino. La mia valigia non si allontana da me.

Leonide. Dunque fatela portar con voi.

Roccolino. Non signora, io resterò con essa.

Leonide. S’intende che vogliate restar qui dunque?

Roccolino. Son di madama dall’alba di questo giorno, sino alla sera che si ritornerà di campagna.

Leonide. Ma oggi si starà male da noi; il cuoco non ha preparato niente.

Roccolino. Non potrò mai star male, se io starò alla condizione di madama.

Leonide. In verità, dovreste andare dalla signora Costanza e dalla signora Vittoria, ad avvisarle che sino al dopo desinare non si parte.

Roccolino. Come volete ch’io faccia, signora, a muover i passi con queste macchine ai piedi.

Leonide. Perchè caricarvi co’ stivalacci di peso?

Roccolino. Per non mi rovinare le gambe, perchè, ogni volta ch’io vo a cavallo, son soggetto a cadere tre o quattro volte almeno.

Leonide. E dov’è il vostro cavallo?

Roccolino. Il signor Ridolfo mi ha promesso di provvederlo.

Leonide. Vi abbiamo anche da pagar il cavallo dunque?

Roccolino. Solite grazie, solite finezze di tutti quelli che mi conducono a villeggiare.

Leonide. In fatti non è poca fortuna per noi quest’anno avere in nostra compagnia il signor Roccolino. Tutti lo vogliono, tutti lo bramano.

Roccolino. Io certo, non fo per dire, ma sono il condimento delle più belle villeggiature. Se si tratta di ballare, io ballo minuetti, furlane, con suoni, senza suoni, con chi ne sa, con chi non ne sa; e quando ballo io, tutti ridono, che si [p. 258 modifica]smascellano dalle risa. Io, bene o male, se occorre, prendo un violino in mano, e suono a rotta di collo. Per cantare poi ho un dono di natura, che tutti credono che io abbia studiata la musica, e non so nemmeno che cosa voglia dire la solfa. Canto alla disperata da tenor, da soprano, alto, basso, in compagnia, e solo, e non vi è nessuno che abbia l’abilità che ho io per cantar le canzonette di piazza. A tavola tutti ridono per causa mia; faccio rime stupende, e ho la facilità di far comparire per rima anche quello che non è rima. Quando ho bevuto un poco, sono deliziosissimo; non guardo in faccia a nessuno; insolenze a tutti, e prendomi poi senza avermene a male guanciate, scopellotti11, sudicierie nel muso, e fino qualche volta mi hanno lordato da capo a piedi, che era una cosa da morir di ridere. Tutte le burle si fanno a me; io sono quello che tiene tutti in divertimento. Una volta mi hanno fatto prendere l’anguilla nel secchio; mi hanno fatto mangiare i maccheroni colle mani legate; mi hanno dato le polpette di crusca, e che so io, cento barzelette, tutte a me, signora. E quest’anno sono con voi. Farò vedere chi sono. Ho imparato a posta il gioco de bussolotti, a fare sparir la moneta, a tagliar il nastro che resti intero, a far da un mazzo di carte saltar fuori un uccello. E vedere12 quei contadini, con tanta di bocca, a dire oh che diavolo! oh che stregone! Vederete che balli, vedrete che salti. Con questi stivalacci non posso fare. Voglio cavarmeli, e voglio farvi vedere. Basta, voglio farvi vedere. Sebbene siamo in città, s’ha da principiare l’autunno or ora, come se fossimo in villa. Madama, votre servitor, madama; allegraman toujour, allegraman, allegraman toujour. (parte)

Leonide. Oh bravo, oh bravo! Questo è particolare davvero. Tutti procurano aver in villeggiatura con loro alcuno che faccia naturalmente, o sappia fare il buffone. Ma il signor Roccolino passa tutti. Sarà egli il nostro divertimento. Sono bene spesi i denari per coloro che ci fanno ridere. Mi ricordo di mio [p. 259 modifica]padre, che conduceva in campagna con lui dei dottori, dei letterati, dei virtuosi. Oibò, oibò, non si usa più. Gente allegra vuol essere, gente allegra. Ballo, canto, gioco, burle, spendere allegramente, spendere allegramente. (parte)

Fine dell’Atto Primo.



Note

  1. Pitteri: praticheressimo.
  2. Pitteri: giovanetto.
  3. Pitteri: avressimo.
  4. Pitteri: vorressimo.
  5. Nelle edd. Guibert-Orgeas, Zatta ecc. leggesi invece sempre.
  6. Pitteri: basterebbono.
  7. Pitteri: sotisferò.
  8. Pitteri: loco.
  9. Così stampa Goldoni non per ignoranza sua. crediamo, bensì, come suole, per far apparire di più quella di Grisologo (vedasi n. I a pag. 226).
  10. Guibert e Orgeas, Zatta ecc.: in casa? Ora che ecc.
  11. Così il testo.
  12. Guibert e Orgeas, Zatta ecc.: un uccello, e vedrete ecc.