Il Baretti - Anno III, n. 3
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IL BARETTI MENSILE Le edizioni del Baretti Casella Postale 472 TORINO ABBONAMENTO per II 1926 L. 10 - Estero L. 15 - Sostenitore L. 100 - Un numero separato L. I • CONTO CORRENTE POSTALE Anno III - N. 3 - 16 Marzo 1926
A PIERO GOBETTI
COMMIATO
Questa pagina non fu scritta per essere pubblicata. Fu trovata in un taccuino, che Gobetti portò con sè a Parigi: è, si vede, una confessione, affidata a rapidi appunti delle impressioni provate lasciando l’Italia. È perciò una delle ultime cose scritte da lui: e rivela quell’intimità dell’animo suo, che gli amici conoscevano o indovinavano, ma che egli amava celare sotto il serrato gioco della dialettica o sotto la polemica implacabile.
L’ultima visione di Torino: attraverso la botte di vetro traballante che va nella neve: dominante l’enorme mantello del vetturino (che è l’ultima sua poesia). Saluto nordico al mio cuore di nordico.
Ma sono io nordico? e queste parole hanno un senso? Valgono per la polemica queste antitesi dottrinali, e anche di gusti, di costumi, di ideali. Mi sentirò più vicino a un francese intelligente che a un italiano zotico — ma quando mi proporrò delle esperienze intellettuali, quando li guarderò per la mia cultura. Ho sentito in Saffron Hill come io sia ancora attaccato alle cose umili, alla vita della razza. Io sento che i miei avi hanno avuto questo destino di sofferenza, di umiltà: sono stati incatenati a questa terra che maledicono e che pure fu la loro ultima tenerezza e debolezza. Non si può essere spaesati.
T. dice che è meglio un paese civile. Ossia pensa che potrà fare meglio i suoi articoli. Egli ha rinunciato a ogni altra risonanza. Io sento che la mia azione altrove non avrà il sapore che ebbe qui: che le sfumature non saranno intese: che non ritroverò gli stessi amici che mi capivano.
Il cinismo era una difesa contro il sentimentalismo che ripugna al mio ideale virile. Ma io sarei desolato se la mia vita si riducesse a una rigorosa esecuzione di un piano e se non avvertissi in me, difficile a dominare, nei momenti più difficili, il tumulto della vita e l’ansia degli affetti.
Il senso del fato — non come punto di partenza, ma come indifferenza alle vicende — quando si è sicuri di sè. Non mi importano i risultati perchè li accetto come misura della mia azione, di me (un’altra misurazione della volontà sarebbe complicata e impossibile). Bisogna essere se stessi dappertutto. Naturalmente non si deve essere isterici e si può essere tranquilli solo se non si cercano delle conferme. La concezione della vita come serie di esami è stupida: tutto si riduce invece all’aver credito, al non aver bisogno di esami perchè si è qualcosa (si intende sempre socialmente).
LA SUA GRANDEZZA
Altri ha scritto parole di rimpianto, quelle parole di rimpianto, che salgono spontanee alle labbra di tutti quando scompare, nel fervore delle speranze e delle opere, un giovane, e lascia dietro di sè, con l’ammirazione per quanto ha compiuto, il rammarico di quanto avrebbe potuto compiere e lo sdegno per le circostanze avverse che ci hanno privato di qualcosa,che nessuno mai potrà dare. Ma gli amici sentono che non si può piangere Piero Gobetti come si piange un giovane, caduto affranto sotto il peso di una troppo grande opera intrapresa:
così cadono molti, ma così egli non è caduto, c, per quanto sentiamo più degli altri lo strazio di questa giovinezza infranta, noi non possiamo parlare di «morte immaturaa o lodare questa o quella sua opera, questo a quell’aspetto del suo ingegno e del suo carattere e rammaricare quanto dalla morte gli fu precluso di fare. Non guardiamo a quell’avvenire che non sarà mai, ma a quello che egli è stato, a quello che ci lascia: dobbiamo (ed è compito arduo) custodire l’insegnamento che scaturisce dalla sua vita e dalla sua opera, legato infinitamente prezioso cd unico, che nessun giovane ha mai lasciato e che non lasccranno i grandi, che pur noi veneriamo.
Quello che egli sarebbe stalo a trenta, a quaranta anni, noi non riusciamo ad immaginarlo:
oggi, riandando al passato, scopriamo di non averci pensalo mai. Perchè, al suo avvenire, non ci pensava egli stesso: la sua ambizione era sempre tutta nell’opera che stava compiendo, nò soltanto in questi ultimi tempi, ma a diciassette anni, ai tempi di u Energie -Vorc», quando pure sarebbe stato naturale abbandonarsi ai sogni indefiniti doll’avvcuire, ed egli invece non parlava che del giornale, che stava componendo, dello studio che si accingeva a stendere, della traduzione che veniva correggendo, del sistema filosofico, di cui cercava di impossessarsi. Pensare ad un avvenire più remolo, doveva sembrargli un affidarsi a forze estranee, un attendere da altri quello che egli credeva dover chiedere soltanto a sò slesso, e perciò una debolezza, una colpa:
perciò non si concedeva le pause di sogno che gli altri giovani si concedono; e noi lo vedevamo, di anno in anno, sempre al lavoro, sempre con la medesima fiducia in sò stesso, sempre egualmente pronto a far fronte a tutte le difficoltà, sempre sorridente: e ci Pareva che
sempre, negli anni avvenire, lo avremmo trovato così al lavoro, accanto a noi, un poco più in allo di noi. Taluno di noi, quando apprese la notizia della sua morte, non seppe trovare altre parole che queste: Non è vero, non è possibile.
— E ancora oggi, che sia morto, sembra a noi tutti cosa impossibile.
Tanto la vita appariva strettamente congiunta con la sua persona: tanto ci eravamo abituati da tempo a considerare il dubbio, l’incertezza e il dolore come cosa nostra, non sua.
La sua figura ci appariva tutta luminosa, priva di ombre. Lo vedevamo sempre egualmente sereno dopo le avversità, lo avevamo trovato tanto ialino dopo i primi attacchi del male, che doveva condurlo a morte, che itoti potevamo pensare che quelle avversità avrebbero avuto ragione della sua fibra e che il male fisico fosse di tanta gravità. Oggi al pensiero di quanto deve aver per anni sofferto, tacendo la propria angoscia, proviamo un amaro rimorso di non aver indovinalo sotto la sua serenità il suo dolore e di non aver sofferto con lui e di non aver alleviato così il suo strazio:
c sentiamo nel suo perpetuo, indimenticabile sorriso, in quella serenità, che avevamo talvolta invidialo come una dote nativa, il segno di una straordinaria, di un’unica grandezza morale.
Prima avevamo ini ravvisto, ma oggi soltanto comprendiamo che egli Ita negato a si stesso coscientemente tutte quelle lusinghe, lutti quei prifilii, tulle quelle debolezze, che non giovani soltanto, ma uomini malti ri sogliono concedersi, li, come dei giovani si negò le illimitale ambizioni, così negò gli scoraggiamenti improvvisi, che per lui avevano pur troppo cause reali/ e tutti gli atteggiamenti romantica che paiono propri di tutti i giovani.
Ma come pochi uomini satino, egli apprese giovanissimo n non fidare in altri che in sò stesso, a lavorare senza speranza di premio, ad accogliere l’avversità come tiri fatto, contro cui non vale ribellarsi e che può imitare temporaneamente la direzione della nostra attività, non sminuirla o cangiarne la natura, a celare altrui la propria tristezza, a scegliere sempre, senza esitare, la via più difficile, come la sola nobile, anzi come la sola Iceita.
Non parliamo di quelle vie facili, che sono l’abbassamento di /tonte alle opinioni dominanti, i compromessi tra la propria coscienza e il proprio interesse, il porre, palesemente o larvatamente l’ingegno a servizio di chi può ricompensare, e nemmeno di una tranquilla, onesta e dignitosa carriera, in cui senza difficoltà avrebbe raccolto onori e soddisfazioni:
tanto sentiamo queste ipotesi più che ingiuriose, inconciliabili col sua carattere energico di lavoratore e di combattente. Ma anche nel cammino per cui si era messo, era possibile una scelta tra il più facile e il più difficile, tra il compromesso larvato e la totale, tragica dedizione di sò. Egli seppe rinunziare anche a quelle soddisfazioni, che non si chiedono ad altri ma a sè stessi, più care perchè più segrete.
Opporsi all’opinione dominante, scorgere la falsità e la menzogna dove i più vedono la grandezza, rivelarle a pochi iniziali e alla folla che non vuole credere e che ride o impreca, tutto questo non è privo di fascino segreto, e può esser fonte di una infima soddisfazione, che si scorge attraverso il gioco dialettico che capovolge l’opinione comune, o nel motto beffardo che la irride e gode della sua bestialità. Ma una tale opposizione resta cosa tutta intellettuale, ha in sè la propria soddisfazione, non aspira a mutare la situazione che i’ ha suscitata, non impegna l’individuo:
in ogni caso dipende da una situazione esteriore, che domani potrà mutare, e che perciò disarmerà affatto l’individuo delle sue arai:
per non dire, che quando l’intelligenza soltanto ò impegnata, il compromesso, si sa, è sempre possibile.
Ma anche nella lotta aperta, senza quartiere, vi sono soddisfazioni, consolazioni segrete:
la speranza di un successo facile con ’mezzi sproporzionati al fine, che permette di non darsi tutto alla lotta impegnata, il compiacimento di sentirsi vittima, di nascondere il proprio pensiero e le proprie azioni nel segreto.
Ma Gobetti non voleva essere nò un politicante, nè un Jacopo Ortis. Non voleva combattere degli uomini per averne, in un qualsiasi modo, vittoria, ma opporre ad opere altre opere diverse, costruire da sò solo con le proprie forze, qualche cosa di diverso, da quello che gli altri, i più andavano facendo. E perciò non poteva sentirsi giustificata dagli atti degli avversari, e chiudersi nel silenzio come un nomo politico vinto o ammantarsi dell’abito di ribelle: e perciò, quando non potè più lavorare in Italia, Part1 per la Francia, non per l’amaro gusto dell’esilio o Per cospirare, ma semplicemente per continuare l’opera di editore, che in Italia gli era stata vietata.
Questa è vera grandezza: e tutto questo, egli lo compiva, senza far sentire ad altri la gravezza del còmpito intrapreso, e parlava di sè e dei suoi propositi come se credesse che ogni altro al suo posto avrebbe agito egualmente, come fosse cosa naturate, ragionevole agire in tal moda: c, anziché farsi bello della sua singolare forza di volontà e chiudersi in un arcigno silenzio e atteggiarsi a lottatore, si rivolgeva a tutti con un benevolo sorriso di fanciullo, che lasciava lutti stupiti e che oggi soltanto ci appare la più grande e pura manifestazione della sua forza.
l i sono alcune parole, dì un giovane morto ventenne, che oggi ci ritornano con insistenza alla mente. Chi lesse (intorno al ’21 0 al ’22) il diario di Otto liraun, il giovane tedesco morto in Francia nella primavera del 1918, senti già allora in quelle pagine non l’immagine di uno straniero, ma un’immagine familiare vicina, quella di Gobetti. Molli idee comuni, ma più l’ardente spirito etico, con cui l’uno e l’altro sentivano e giudicavano tutte le manifestazioni della cultura, il senso austero della vita politica diversa e pur congiunta alla ■vita morale, la fiducia iti sò stessi, scevra di ogni iattanza, la freschezza giovanile di ogni loro atto e di ogni loro espressione, ci facevano apparire singolarmente vicini i due giovani, stranieri l’uno all’altro, ma appartenenti alla medesima generazione. Ma, più felice e meno grande, il giovane tedesco, morto a ventanni in guerra, non conobbe che l’eroismo e la disciplina bellica e morì, fanciullo ancora, lasciando soltanto pagine, in cui sono affidati i suoi propositi: ma Gobetti, morto a venticinque anni, conobbe le lotte quotidiane e più difficili della pace, quando non ci si può abbandonare al destino e nessuno compagno ci può sorreggere e non vi è speranza di fregna o di riposo, e lascia non propositi vani per quanto nobili, ma qualcosa che deve durare. E il destino, a cui il liraun aspirava, Piero Gobetti, senza forse averne coscienza, nello spazio di pochi hanni lo ha raggiunto.
— Una cosa mi si ò fatta chiara, è scritto nel Diario del liraun; quel che di più alto un uomo può raggiungere nella vita non è la gloria, non è la fortuna, e nemmeno la grandezza, no, e neanche quello che finora m’era parsa l’altezza definitiva, l’opera;.ma è soltanto questa diventar tal modello che solo con la sua presenza determini il mondo e l’umanità....
In questa guerra io ho verificato e tornalo a verificare che cosa significa essere capo, che cosa ciò imporli e come il capo sia in grado di far tutto. In che modo? Forse con massime morali, con insegnamenti, con singole azioni?
No, ma con quello che comunemente si chiama il buon esempio, vale a dire col suo essere così, col suo essere presente.— E quale esempio ci lascia Piero Gobetti!
Quando era in vita, lui, che fu giudicato critico aspro e implacabile di uomini e di cose, era in realtà verso chi gli era vicino di una indulgenza singolare: negava a sè ogni debolezza, ma intendeva le debolezze altrui: e la fiducia che egli aveva in sè, finiva col comunicarla ad altri, sicché da un colloquio con lui, ritornavamo con la coscienza più salda nelle nostre forze, con più fermi propositi di lavoro.
Oggi sentiamo perciò più amaramente tutta la nostur piccolezza: ma, nello stesso tempo, il dovere di superarla, di renderci quanto è possibile simili a lui, non di continuare l’opera sua, che soltanto a lui era possibile, ma, in un campo più limitalo e modesto, conservare quella comunione di uomini e di lavoro che egli creò. Che la sua compagna, la quale ne ha condiviso le ansie e ne custodisce gli ideali, e il suo piccolo figlio, che crescerà degno di lui, e in giorni più propizi, non abbiano un giorno a rimproverarci, non dico di averlo tradito, ma di aver commesso qualche atto, o pronunciata qualche parola, di cui egli avrebbe dovuto dolersi!... Lavoro perchè credo all’immanenza della vita e della storia, perchè sento di realizzare così in me la legge universale; perchè credo clic, volendo migliorarci e farci seriamente generosi in questo nostro mondo dobbiamo rinunciare a tutto ciò che è troppo personalmente interessante, troppo empirico e limitato: dobbiamo sacrificarci non inutilmente e rumorosamente, ma silenziosi, ogni giorno, all’opera nostra che, per quel che vale, diventa appena esce da noi, appena si estrinseca, patrimonio di tutti.... Rinunciare per offrire tutto a chi di noi non si curerà e ci negherà persino nell’atto in cui imparerà da noi quel che potevamo insegnare.
E tuttavia non fermarsi nella rinuncia perchè il nostro spirito non è nulla, è vilmente miserando se per un momento si astiene da quell’attività che è un dovere, conservare il senso della responsabilità per tutto, questo è ]’eroismo tragico perchè silenzioso, perchè limite e sconosciuto, dell’uomo moderno...
(da una lettera, 1920).
EA SUA GRANDEZZA PIERO GOBETTI lite della critica riduce in polvere e lentamente dissolve.
nelle memorie e i dei suoi Di Pirro Gobetti voglio mettere oggi in carta alcuni ìicordi personali. I.o conobbi quando non era ancora arrivato all’università e già il suo cervello era una fucina di idee, le quali fermavano Tattenzione di chi l’ascoltava, anche per il modo rotto ed inspirato con cui egli le esponeva, accompagnando le parole col moto nervoso delle mani e del capo.
All’università, mi organizzò nell’anno in cui volle frequentare il mio corso di finanza, un piccolo pubblico di ascoltatori non obbligati; sicché io, che in quell’anno avevo Intrapreso un insegnamento esegetico su alcuni testi di legge tributaria italiana — e i periti possono ben comprenderne l’aridità noiosa, sebbene voluta — dovetti fare sforzi erculei per trasformare il commento ad articoli di legge in un esercizio di logica economica applicata; e dello sforzo compiuto fui sempre grato al Gobetti perché ne usci un tentativo di mettere ordine nel disordine apparente, di costrurrc un ordine logico deduttivo su materiali frammentari.
Ma le conversazioni migliori che ebbi con lui toccavano quasi sempre il problema del lavoro; e Tessersi egli fatto editore di un mio volume su «Le lotte del lavoro» fu la conseguenza di quelle conversazioni. Egli stesso ha scritto e stampato quel clic, intorno ai problemi del lavoro, pensò; e lo fece certamente meglio di quanto non possa ricostruire io, ricordando le sole cose clic mi rimasero più fitte nella memoria e ricordandole in quel modo approssimativo e vago che il tcmi>o trascorso consente. Tuttavia anche il ricordo altrui può giovare, se non altro, a fermare le sembianze sotto le (piali Tainico fu visto dall’amico e le idee che il sopravissuto potò illudersi di aver fatto conoscere a chi non ò più.
Vi fu un tempo, dunque, durante il quale Gobetti visse a contatto con operai torinesi, elementi scelti delle maestranze le quali popolano gli stabilimenti della «Fiat» e delle altre imprese nostre. Era un vero «Ordine nuovo n che sembrava allora sorgere; in cui al lavoro clic agisce e pensa era serbato il governo della società. A vantaggio ed istruzione di questa scelta di operai egli teneva qualcosa che non era tuia scuola od una università popolare o proletaria; ma conversazioni e lezioni tra amici e conoscenti, ricordi e ripetizioni di letture fatte, commenti ad articoli di giornali o su fatti del giorno.
Egli vedeva nel mondo operaio, allora agitato dalle convulsioni del dopo guerra, formarsi i germi di una società nuova, a cui i teorizzatori del tempo davano il nome di comunistica o socialistica, ma clic in realtà era tutt’altra cosa. Non si può dire che Gobetti si fosse fermato neppure sul sindacalismo come su una dottrina atta ad andare in fondo a ciò che accadeva. Al disopra ed al di là dei nomi, egli vedeva le forze nuove, vergini, capaci di creazioni sociali diverse dalle attuali.
Ci sono negli operai manuali, nei tecnici degli stabilimenti industriali, nei rustici appena tolti alla vanga e gittati nel tormento dei forni e nel rombo assordante del macchinario di fabbrica, energie, forze, volontà le quali ancora non sono state sfruttate; ci sono uomini d’eccezione, capaci di cose notevoli, intelligenze che l’ignoranza soltanto rende incapaci di dare frutti insperati. Il sindacalismo, la conquista delle fabbrica, la vittoria del proletariato sono soltanto gli strumenti, le formule per mezzo di cui riescono ad imporsi gli uomini di valore esistenti nella massa proletaria, e Toro esce purificato dalla bruta ganga appena estratta dalla miniera.
Perciò, egli che pure in sostanza repugnava alla statolatria, ed alla irrcggimentazionc comunistica, fu amico di comunisti, ne apprezzò gli sforzi. Aveva comune con essi il senso della rivoluzione, la quale, anche quando assunse per lui l’aggettivo liberale gli parve necessaria nei momenti delle grandi crisi, per scuotere Torcline costituito e per lasciare venire a galla, al luogo delle vanità fatte persone, uomini energici tratti dalle classi sociali non ancora fruste dall’esercizio del potere politico ed economico.
Sempre si dolse, allora e poi, che purtroppo venissero a galla non gli eroi, che tutti vagheggiavamo, ma puri imitatori, mascherati col rimbombo di assai parole grosse, dei politicanti corruttori venuti su dopo la caduta della destra storica. Il liberalismo concreto delle classi dirigenti italiane gli sembrò perciò ognora assai meschina cosa. Non negava quel che esso ebbe poi di eroico in taluni uomini, i quali videro nella difesa della legalità costituzionale la difesa dei diritti di tutti; ma gli pareva che il liberalismo fosse decaduto al livello di una formula priva di contenuto, usata per tener su gente vecchia, in decadenza, non capace di lottare per il raggiungimento di nuovi ideali. Perciò egli voleva che nella lotta intervenissero le classi operaie; che di dosso ad esse fossero tolti quei pesi morti di ignoranza, di povertà che le tengono in basso ed impediscono alla società intiera di valersi utilielle impressioni maestri mente delle loro forze fresche. Perciò egli era rivoluzionario; che senza un qualche scrollo creativo di una nuova formula gli pareva imjiossibile clic le classi operaie riuscissero a rompere la crosta di posizioni acquisite, di pregiudizi, di convenzionalismi, clic davano il potere sociale ad una classe fossilizzata. Non mi parve mai un ammiratore dei ceti borghesi, che in Italia, dopo la caduta della destra, cimisi ristretti ad occupazioni materiali e, datisi ad arricchire, non sentivano i grandi pioblcmi |Militici e sociali.
In tutto ciò v’era un tondo generoso di passione umana, di quello spirito di «discesa nel popolo» clic ò caratteristico dei momenti in cui si preparano i grandi rivolgimenti sociali.
Pei sonai mente, a me pareva, discorrendo con lui ilei periodo in cui egli aspirava a portare tra gli operai il senso virile del liberalismo concepito come sforzo per educare e migliorare sò stessi, per capire il mondo circostante, por rispettare negli altri la propria personalità, di ritornare un quarto di secolo addietro, quando, poco prima del u;oo, anch’io, frequentando operai ed agitatori avevo creduto ncll’clcvazionc faticosa, meritata, conquistata degli uomini rozzi, cite lavorane colle loro mani, in cui è spesso lauta luce (li fresca, verde, genuina intelligenza. Non ho mai rimpianto quelle vecchie conversazioni ed ancor oggi ho taluno di quei primi agitatori come tra gli uomini migliori, per bontà d’animo e altezza di ideali, che io mi conosca. Ma dubito che la via della elevazione debba essere assai più aspra di quel’a che ingenuamente avevamo intravista.
Non già soltanto perché il movimento operaio, cosi bello negli anni della lotta e della persecuzione innanzi al 1900, sia caduto |>oi troppo spesso preda di profittatori, di politicanti e di chiacchieroni abili. Questi sono soltanto i sintomi di un male più profondo, di cui qualche volta discorrevo con Gobetti, e clic a me pareva consistesse probabilmente nella malvagità innata dell’uomo. Capitai una volta a fargli vedere certe mie non poche schede di appunti l»rcsi leggendo le opere di Le Play, clic gli economisti e gli statistici conoscono per i suoi bilanci di famiglie operaie: — oliera monumentale per fermo, la quale raccomanderà per un gran pezzo agli studiosi il nome dcll’nutorc, come quello del creatore di un metodo originale e preciso di studiare le condizioni sociali dei iiopoli; — ma che dovrebbe anche essere meglio ricordato come apostolo di un verbo sociale.
Chi il Le Play si mutò da ingegnere di miniere in compilatore di bilanci operai in seguito od una crisi di coscienza sofferta al termine di una lunga malattia; quando per una visione quasi religiosa egli si senti spinto a proclamare la necessità della «riforma sociale»; la quale in sostanza si riduceva poi a combattere la teoria di Rousseau della bontà originaria delTuomo selvaggio, che le istituzioni umane avrebbero corrotto e reso malvagio. Altri, notissimi, pensatori oppugnarono la teoria di Rousseau; ma dubito assai vi sia chi possa eguagliare il Le Play per la ricchezza dei riferimenti tratti dai grandi libri religiosi dclTumniiità e delle osservazioni compiute durante cinquant’anni, setto i più diversi climi storici, in luoghi tra loro lontanissimi, dagli Urali alla Siria, dalla Scandinavia alla Spagna ed al Marocco. Ignoro se vi sia uno scrittore il quale più di lui dia il senso storico di età trascorse: della tribù nomade della Bibbia, del servo della gleba, del compagno della corporazione medievale d’arte e mestieri, del mezzadro italiano, dell’operaio di fabbrica contemporaneo. Questo singolare ingegnere, il quale sarà un giorno studiato come una fónte dì prim’ordine dello storico della Russia j. ma dell’ukase di emancipazione e dallo studioso di forme economiche scomparse, non si stancò mai di ripetere che Rousseau aveva detto il falso e che l’uomo era nato malvagio, crudele, mentitore, ladro e che solo la forza delle istituzioni umane e della religione, solo i legamene della tradizione, delle consuetudini e la virtù dei pastori di popoli, dei notabili — altri poi li chiamò élites e per averli forniti del senso delle combinazioni ossia dell’imbroglio si procacciò gran fama — a poco a poco lo addomesticano, lo frenano, lo riducono a membro vantaggioso della società. Di qui l’utilità delle tradizioni religiosamente osservate, delle istituzioni antiche le quali si impongono ai popoli quasi avessero una virtù soprannaturale; di qui il pericolo sociale gravissimo di scuotere con fatti rivoluzionari quel senso di tabù che mantiene salda la compagine sociale. Se qualcuno, audace o incosciente, rompe l’incanto, si vede che il mondo sociale é tutto un tendone da palcoscenico; e dietro non c’è nulla. Il castello di carta stava in piedi perchè nessuno osava — tanta era la forza dell’incantesimo creata dai secoli — soffiarvi dentro; ma intanto, al riparo dell’incantesimo, vissero per secoli società che il Le Play chiama «prospere» in contrapposto alle società «instabili», che lo spilo non dico che Gobetti sin stato persuaso dagli appunti lc-playani che talvolta gli sfogliavo per pungere e frenare il suo animo forse troppo propenso a vedere il bene dei germi di rivoluzione gittati nel crogiolo sociale. Troppo poteva in lui lo spirito critico, l’insaziato desiderio di rapa e, il convincimento della forza creativa delTintclligonza per acquetarsi alla visione di un mondo governato dalla tradizione, dui notabili, dnlTininiaginc dei castighi annunciati ai disonesti dai versetti della Bibbia e del Corano. L’ingegno umano che uelTindustria moderna è stato capace di creazioni tanto utili alla prosperità materiale, perchè non dovrebbe, affinato dagli stessi mirabili ordigni da lui creati, perfezionare altresì il meccanismo della vita politica e sociale?
Piero Gobetti aveva fede nella potenza rivollv/.ionatrice, nella virtù intima di innalzamento, nella capacità creativa di coloro che vivono quotidianamente accanto alla macchina, fattore- per eccellenza rivoluzionario, il clic vuol dire creativo di forme nuove, del mondo economico.
Tuttavia egli, clic era sempre ansioso di far rivivere tra le generazioni nuove il ricordo di qualsiasi corrente oiiginalc del pensiero umano, non cessò mai di invitarmi a divulgare in una qualche lettura ed a raccogliere in un volumetto il succo degli insegnamenti dell’ingegnere autodidatta francese. Amantissimo della 1 iccola famiglia che egli si era creato, idolatrato dai genitori, egli vedeva nettamente clic il culto delle tradizioni, la continuità del focolare domestico, il rispetto al risparmio che costruisce la casa, l’impresa. la terra sono idee forze, le quali hanno aiich’cssc, insieme col pensiero critico e creativo, con la macchina rivoluzionatricc dell’economia e coll’aspirazione profonda delle masse lavoratrici a salire, rompendo l’equilibrio sociale esistente, diritto di cittadinanza, in quella città ideale che egli veniva costruendo nella sua mente, e che è bella perchè non è rigidamente immota; ma continuamente si trasforma sotto la pressione contrastante delle tante forze che- agiscono su di essa. Se i tempi e le forze fisiche, ahimè!, troppo impari al còmpito assunto, glie lo avessero consentito, anch’egli avrebbe creato, nella sua casa editrice, una di quelle forze sociali, uno di quei ligamchli tra uomo e uomo, tra spirito e spirito, i (inali impediscono che la nostra povera umanità si dissolva in un caos indistinto di atomi sperduti nel buio.
Luigi Einaudi.
Nulla è più doloroso per un vecchio maestro che dover commemorare un giovine scolaro, e uno scolaro come quello che ora il destino ci ha tolto. E’ contro natura. E torna alla mente la querela accorata del filosofo greco, che tutta l’atrocità della guerra compendiava nel détto famoso: «E’ questo il tempo che non i figli seppelliscono i padri, tua i padri i figli».
Non mai discepolo ha percorso innanzi ai miei occhi, ornai da lunga esperienza fatti acuti nel penetrare l’anima dei giovani, uno pnrahola di formazione autonoma e di virile maturazione più sorprendentemente rapida e più promettente di quella del povero Gobetti.
A dire la verità — e innanzi a un uomo quale egli fu la verità va eletta sempre per intero — la linea dei nostri rapporti, da docente a discente, era partita, se così posso esprimermi, dallo zero. Non lo avevo compreso, quando dapprima — or fa poco più di un lustro — vidi comparire alla mia scuola quel giovinette, il cui nome era già frammischiato a parecchie delle iniziative più eterodosse, più indisciplinate e scapigliate, e a cui un scintillìo d’occhi davvero stellare e un sorriso arguto di continuo errante dagli occhi alla bocca fresca ma dolorosa davano — almeno visti alla distanza da una cattedra a un banco di scuola — l’aria di una presa in giro sistematica e un poco iconoclastica. Del resto, egli non mi dissimulò mai che in realtà alle mie lezioni non ci si divertiva affatto, e che nè materia nè maestro gli andavano gran che a genio.
E’ bisognato che i nostri così male impostati e impacciati rapporti accademici doppiassero il capo delle tempeste dclTcsame finale — e fu davvero una piccola burrasca — perchè vedessimo aprirsi innanzi a noi un inare, uno sconfinato mare xli serena simpatia, di piena confidenza e di reciproca comprensione.
E fu allora ch’io compresi il vero Gobetti ed imparai a scorgere, in quel sorriso che pareva enigmatico e in quel scintillio d’occhi che pareva canzonatorio, tesori di sincerità e di lealtà, di gentilezza e di finezza, e sopratutto della più pura idealità. E mi racconsolo, ora; pensando che anch’egli mostrò di aver capito ch’io non ero poi quel parruccone pedante, che forse egli si era immaginato.
D’altra parte, quella dello scolaro non era evidentemente la vocazione e la posizione che convenisse a una natura come la sua. Egli assurse difatti, e si può dire quasi di un balzo, a quella di maestro. E quel maestro, nel senso più umano e direi umanistico, e cioè più bello ed alto della parola, egli ci sorpassò immediatamente tutti. Intorno a lui si raetxilsero subito, da una cerchia che si veniva facendo sempre più ampia, molte più forze giovanili, che a noi non sin riuscito in molti anni. Tant’è vero che vale più un solo limpido esempio che mille sapientissimi insegnamenti! Erano parecchie di quelle anime, pur della sua già più esperte della vita; erano ingegni, pur del suo più nutriti di stud: e anzi cultori ornai celebrati delle arti più varie, clic tuttavia avevano trovato in quel sincero e coraggioso ragazzo, poco più che ventenne, il loro punto di comune riferimento e di orientazione, la personificazione più schietta e completa di quell’: (leale di vita dello spirito e insieme di vita civile, a cui essi anelavano ma clic non erano riusciti da parte loro ad attuare che per frammenti.’ Ma anche i vecchi maestri ebbero ben presto la sensazione che e’era qualcosa da imparare da quello scolaro: la fedeltà irremovibile ni proprii principii, e la incondizionata dedizione ai proprii ideali. Per questo la sua fu una vita brevissima, si, ma bellissima. Fu, non un principio di vita «troncata, ma una vita, pur nel suo fulmineo ciclo, perfetta e conclusa. Fu una vita esemplare per tutti. L’ardore incomparabile di quella esistenza consumò rapidamente il fragile involucro; ma fu quella una fiammata magnifica, il cui fulgore vincerà il teinjio. E torna pur sempre, irresistibile, alle labbra la sublime sentenza: «Muor giovine colui clic agli Dei è caro».
Piero Gobetti è morto in terra di Francia.
E pensando a quel povero morto, che mi fu e mi diventava ognora più caro, mi risovvieuc un episodio del temilo della guerra,, che mi fu narrato appunto in terra di Francia. Un vecchio contadino era stato chiamato da uno dei villaggi vicini al fronte presso In salma di un figlio clic vi era caduto; e «piando fu in cospetto del morto, lungi dall’abbandonarsi a manifestazioni di dolore e di amore, si profondeva in segni del più profondo rispetto; e, infine, richiesto del perchè, rispose: «Perchè mi sembra clic il padre ora sia lui».
E anche a me, pensando a quel mio discepolo, morto in condizioni così pietose, mentre cercava in paese straniero nuovo spazio alla vita del suo spirito, sembra che oramai il maestro sia lui.
Francesco U ufe ini.
Napoli, 24 febbraio 1926.
Mi reputo ad onore potere aggiungere il mio ai nomi degli amici ed estimatori di Piero Gobetti, venticinquenne, clic a me, vecchio di settantotto anni, è toccato piangere amaramentc per la sua crudele e improvvisa morte! Appena cessata la guerra, io volli tener dietro alle non poche pubblicazioni periodiche giovanili, clic seguiron immediatamente alTarmistizio; e più delle altre ini colpirmi quelle, per Tnppunto del Gobetti, a me ignoto sino allora, ma con cui ebbi subito occasione di scambiare, per lèttera, il saluto. Nel suo viaggio di nozze, io qui lo conobbi in jnin casa, unitamente con In gentile sposa: e qui 10 rividi l’anno dopo, al suo ritorno dalla.Sicilia, egli non nascondendo a me, nè io a lui, 11 pensiero e- Tanimo, se non in tutto conformi, piename nte di accordo in tutto quello che è virtù e devozione alla patria. Or anche volendo, io non jxitrei uè saprei dire abbastanza come e quanto, un anno più dell’altro, egli mi apparve singolarissimo, sia per dirittura inorale sia per energia di carattere. E assai addolorandomi della nemica sorte, che vie più gl’incrudcliva contro, oh, ben io ero lungi le mille miglia dal sospettare, che, da un istantc all’altro, mi sarebbe avvenuto di leggere deila pietosa sua fine, tanto lontano da’ suoi cari e dalla sua Torino, in una camera di una lontana*clinica straniera! Ho qui dinnanzi la ultima sua lettera, senza data — uè io ricordo se del 31 gennaio o del i° coi rente — clic mi dice: «Parto per Parigi, dove farò l’editore «francese, ossia il mio mestiere che in Italia «mi è interdetto. A Parigi non intendo fare «del libcllismo, o della polemica spicciola come «i granduebi spodestati di Russia: vorrei fare «un’opera di cultura nel senso del liberalismo «europeo e della democrazia moderna». Povero amico! Che la pura e cara tua memoria mi accompagni in quel tanto di solitario cammino, che ancora mi avanza Giustino Fortunato.
Essere ad ogni momento noi, realizzare tutta la nostra possibilità di azione per noi e per gli altri in ogni istante, sentire il palpito esultante ed inebbrianle della vita, sempre, e non come mezzo a questa o quella Pallida idealità cvanascenle, ma in sè e per sò come mezzo e fine alla idealità stessa che sprigiona dal suo intimo. Attingere in tale fede la capacità e la forza di rinnovarsi ad ogni istante, vedere la vita come umanità che si svolge e si supera, debolezza che si vince senza arrestarsi mai, concretezza in cui ogni umile atto acquista la sua santità, la sua consacrazione perchè è atto nostro: ecco la gioia ed il significato dell’essere, la divinità del tempo che è progresso in cui muore l’ostacolo!
(da «Energie Nuove», 1919). BRANI Dostoievschi classico Dostoicvschi artista non ha avuto fortuna in Italia. Pochissimi conoscono i suoi capolavori:
L’eterno marito — L’adolescente — Crii indemoniati. Degli Indemoniati non esiste una traduzione come non c’è una decorosa traduzione dei Fratelli Caramasov.
E’ invece diffuso una specie di mito Dostoicvschi volgarizzato dai francesi attraverso una frettolosa conoscenza di Mcrescoschi. Di ■questo mito rappresenta una eco anche l’ultimo libro dedicato a Dostoievschi da Otto Cuzzcr. Un Dostoievschi romantico c profetico, assetato di verità, oppresso dai problemi.
Un uomo che sarebbe vissuto per tutta la vita nella disperazione, nella miseria, costretto a scrivere in condizioni ingrate, senza serenità. Infine il vero russo, l’anima del j>opolo russo al quale egli verrebbe ad annunciare il destino. Prctcn■dono clic il suo mondo non sia classico perchè non è di uomini normali. La sua arte non sarebbe analitica, irta sintetica. La malattia sarebbe una delie cause determinanti lo stato di grazia di Dostoievschi. Il dranuna di tutta la sua vita deriverebbe dal fatto che mentre egli ha sentimento morale lo assilla il dubbio sulla validità oggettiva del mondo morale:
rimarrebbe dunque sempre nella posizione di un ateo alla ricerca di Dio.
Noi non esitiamo a confessare che a questa esasperata descrizione (presa in parte dal noto libro del Gide, ma senza conservare del Gide la sottile malizia) preferiamo la vecchia incomprensione cicli’aristocratico De Vogùé. De Vogiié aveva almeno il gusto di offrirci un ritratto sconcertante: egli era stato sorpreso c sbalordito della sensibilità di questo creatore di mondi eccezionali.
«Piccolo, gracile, tutto nervi, consumato da sessantanni difficili, tuttavia piuttosto appassito che invecchiato, con la sua barba lunga c i capelli ancora biondi; e ancora dotato di una ti vivacità di gatto u come egli diceva. Il viso di un contadino russo, di un vero mugich illuminato da un fuoco ora dolce ora pauroso; la fronte larga segnata da pieghe c da protuberanze, le tempie come temprate al martello, c tutti questi tratti tirati, esasperati, ricadenti su una bocca dolorosa. Io non ho inai visto su un viso umano una simile espressione di sofferenza moltiplicata; tutte le angoscio dell’anima e della carne vi avevano lasciato il loro segno; vi si leggevano, meglio clic nel libro, i ricordi della casa dei morti le lunghe abitudini di spavento, di sfiducia, di martirio. Le palpebre, le labbra, tutte le fibre di questa faccia tremavano di tic nervosi. Quando si animava di collera per un’idea si poteva giurare di aver già visto questa testa sui banchi di una corte criminale o tra i vagabondi che vanno mendicando alle porte delle prigioni.
In altri momenti aveva la mansuetudine triste dei vecchi santi delle immagini slave. Tutto era popolano in quest’uomo, con l’inesprimibile mescolanza di banalità, di finezza c di dolcezza clic hanno talvolta i contadini russi, e con qualche cosa di inquietante, forse la concentrazione del pensiero su questa maschera di proletario. In principio si rimaneva lontani da lui, prima che il suo magnetismo strano avesse agito. Abitualmente taciturno, se prendeva la parola, cominciava con tono basso, lento c volontario, riscaldandosi a poco a poco difendendo le sue opinioni senza riguardo per alcuno ii.
De Vogiié non aveva guardato abbastanza attentamente i piccoli occhi grigi molto incavati di Dostoievschi. Ma se non ci lasciamo commovcrc in modo troppo naturale dai brividi del suo discorso possiamo ammettere che •egli abbia almeno capito la compattezza delle sensazioni e l’originalità del suo mondo. Egli lo capì} e se ne spaventò come di un’enorme macchina di osservazione, rivelatrice di abissi.
La grandezza di Dostoievschi artista parte di qui, dalla sua tragica solitudine, e dalla sua fantasia dominatrice di una materia piuttosto in formazione che condotta a svolgimento completo. Discepolo di galeotti, come si compiacque di chiamarsi, era padrone di un’esperienza eccezionale di confessioni di anime.
Tutti i suoi personaggi sono lo specchio della sua generosa solitudine. Eppure nessun’arte si può pensare più obbiettiva, meno autobiografica della sua. Se fosse stato mono disinteressato, meno preso da un’esclusiva necessità fantastica non avrebbe potuto cogliere, con tanta discrezione c con tanto sacrificio di tutte le debolezze c di tutte le piccole curiosità, i destini più chiusi c più eccezionali.
Alla sua tenerezza di creatore nessun’anima si nega: egli è pronto a vedere tutte le albe spirituali, i moti più delicati delle anime in formazione. Il suo gusto di psicologo è qui:
egli non crede ai caratteri, alle qualità, ni tipi: le sue psicologie sono specchi di contraddizione, complessità inesauribili; egli non potrà mai fotografarle perchè le vede anime sempre nascenti, sempre vergini, sempre tese verso la chiarezza: la sua arte deve essere inesauribile, insonne, per non perderne il mistero.
INEDITI E’ un’arte portata ad un’altezza tragica che talvolta rivela la tensione.
Nessuna filosofia in Dostoievschi: egli è incapace di interessarsi obbiettivamente a una teoria, incapace di individuare con spirito dialettico i termini di un problema. I suoi personaggi non si sforzano mai di arrivare ad una verità; ma piuttosto di chiarire c capire se stessi. E Dostoievschi stesso era tormentato soltanto dai dubbi del creatore; elaborava pazientemente, cercava di vedere chiare le sue creature perchè non sapeva scrivere se non aveva strappato il segreto dei fantasmi che lo agitavano. La sua fantasia eia un vortice, ma egli sapeva dominarla e ordinarla. Tuttavia non osò mai scrivere senza rivelare un tremore iniziale, l’indecisione sacra del creatore, la paura che l’espressione dovesse riuscire inadeguata, tanto urgeva dentro la materia fantastica.
Era perfettamente padrone di tutti i procedimenti e artifici letterari, ma ne era completamente insoddisfatto. Per molto tempo non seppe abbandonare la forma della confessione, come se questa gli permettesse una cura più trepida verso le anime dei personaggi. Il monologo traduce tutta la mobilità delle sue cmozioni: quest’uomo che scolpiva, come i classic1, personaggi completi della loro solitudine, sajieva anche l’arte delle timidezze più sottili, delle precocità più oscure. Nei primi romanzi si credette romanziere di ripiego: «Senza la base dei fatti non si riesce a descrivere sentimenti». Ma i fatti da soli, non precipitati negli abissi delle coscienze, non gli offrivano un interesse sufficiente.
Però si può notare nel corso degli anni un progresso, che io non so chiamare altrimenti che epico, nella maturazione di questo stile dostoicschiano della confessione. Dal tono timido c selvatico della storia di Nieiocka Nesvanova, un cajiolavoro molto più delicato di Povera Gente, dove la freschezza e il languore del ricordo è dato dalla fine poesia dell’infantile narrazione, si giunge alla potenza drammatica dclP/ìfcrno marito in cui il grottesco e l’ironia sono imperturbabili, e l’umore bisbetico conferisce al racconto una solennità tremenda.
Il romanzo contiene due scene di tragedia notturna che, apparentemente ispirate dal Poe, si levano poi ad una fantasia rigorosamente shakespeariana. La confessione è stata portata ad una tecnica puramente drammatica od obbiettiva.
Qui si può intendere la nostra opinione sul classicismo di Dostoieschi: opinione che farà scandalo tra i suoi isterici interpreti. Ma chi più impassibile di lui di fronte al tremendo?
Chi più sereno ed analitico e pronto osservatore di fronte al morboso? La lucida arte di Dostoievschi sdegna i lettori facili ai brividi, alle allucinazioni, alle sofferenze artificiali e letterarie; essa chiede prima di tutto il coraggio del disinteresse e l’attitudine a guardare serenamente un inferno sterminato. La sua follia è più forte.della verità. Il suo eroismo luetico ha superato tutte le prove.
Nella confidenza con cui Dostoievschi ha penetrato i suoi inafferrabili fantasmi bisogna riconoscere un dominio e una sicurezza esemplari: e fu la sua solitaria devozione all’arte a dargli quest’incrcdibile lucidità.
(da Paradosso dello spirilo russo).
Lineamenti di una storia dell’ottocento Mentre le nazioni europee si sono liberate con la guerra di religione da tutte le ideologie dogmatiche gli italiani non possono pensare ad una riforma religiosa, impegnati come sono dalle contingenze a distruggere il dominio territoriale dei pontefici; volendo essere laici sopratutto nella sostanza essi si adattarono a professare un rispetto teorico alla chiesa, e la attaccarono con armi politiche invece che sul terreno dogmatico. Così il Risorgimento resta cattolico, complici gli stessi eretici.
La preparazione ideale alla lotta politica si esaurisce nel romanticismo, che oppone un cristianesimo spiritualistico al catolicismo reazionario della Santa Alleanza.
Tuttavia questo opportunismo è machiavellico.
La Chiesa ha fatto causa comune cogli assolutismi. Le monarchie e specialmente la sabauda, sorprese e compromesse dai primi movimenti del secolo hanno ceduto il loro posto di avanguardia e seguono l’equilibrio generale, retrive non più progressiste. Ix: plebi continuano a vivere intorno ai conventi c agli istituti di beneficenza, tutti cattolici; c restano cattoliche per istinto, per educazione, per interesse.
L’iniziativa spetta alla nuova classe borghese, che attua con Cavour la politica antifcudalc del liberalismo economico per potersi dedicare ai traffici, alle industrie, ai risparmi e formare la prima ricchezza c il primo capitale circolante in Italia. Come potrebbe questa classe proclamare una politica anticlericale fuor che nella questione dello Stato Pontificio?
Essa si troverebbe assolutamente isolata mentre la vittoria è subordinata alla possibilità di trascinare con le astuzie diplomatiche le altre classi volenti o no, sulla sua via. Tutte le idee prevalenti nella penisola sono cattoliche o cristiane (Gioberti, Manzoni, Mazzini).
Solo le minoranze politiche sicure del loro compito storico sentono più forte di tutti il dovere della fedeltà allo Stato c credono alle nuove esigenze economiche.
Il ncoguclfismo è lo strattagemma per cui le masse avverse al progresso nazionale borghese sono indotte a seguire le minoranze. Il liberalismo laico moderato per evitare l’isolamento e per non trovarsi nemiche nello stesso tempo le plebi c la reazioatc, mette avanti idee banali c programmi di compromesso.
Cosi questa minoranza borghese riesce a conquistare la monarchia incerta, e a servirsi del suo prestigio. Vittorio Emanuele II crede di allargare i confini del Piemonte e serve al programma di Cavour, che gli trasforma le basi dello Stato facendo di un regno costituzionale un governo parlamentare.
E gli storici si domandano ancora come Cavour potesse farsi aiutare dalla borghesia francese!
E’ ovvio che questa classe politica non può bandire troppo apertamente le idee di libertà c di democrazia odiate dalle stesse plebi borbonicamente retrive. Essa conserva il suffragio ristretto, addomestica garibaldini e borbonici con gli impieghi di stato, esercita una generica propaganda patriottica, facendo giocare l’equivoco del cattolicismo liberale. Mancavano forze e partiti ordinati: si supplì con volontari e avventurieri. Il nebuloso messianismo di Mazzini, l’cutusiasnio di Garibaldi, l’enfasi dei tribuni furono le forze che favorirono un equilibrio provvisorio. Tutta questa è materia incomposta e vi affiorano i più profondi vizi della razza: una direzione si deve a Cavour. Egli è lo spirito provvidenziale, l’originalità del Risorgimento.
La Rivoluzione Francese ha le projiorziorti di un grande dramma ora nazionale, ora europeo.
E’ la rivendicazione di masse popolari nuove, rivolta di popolo condotto da scelte guide borghesi contro le classi in decadenza.
Il Risorgimento italiano è invece la lotta di un nonio e di pochi isolati contro la cattiva letteratura di un popolo dominato dalla miseria: la storia civile della penisola pare talvolta il soliloquio di Cavour clic da una materia ancora informe in dieci anni di diplomazia cerca di trasformare e trarre gli elementi della vita economica moderna e i quadri dello stato laico.
In realtà, specialmente quando è solo, Cavour ubbidisce a una segreta voce della storia c a un oscuro destino della razza, che sembra annunciarsi durante tutto il settecento in misteriosi profeti disarmati, che, sorpresi dalle tenebre, appena indovinano la luce.
(da Risorgimento sema croi).
Misticismo e marxismo Benché Dostoievschi abbia cercato di elaborare una dottrina che conciliasse slavofili e occidentali, le sue idee si devono riportare allo sviluppo interno del suo mito slavofilo e una analisi del suo pensiero può presentarci, nella e pressione logica più completa, le idee direttive del movimento.
Direttamente dalla mistica esaltazióne di Chirieievschi e di Comiaccv nasce questa dichiarazione: «La classe intellettuale russa è la più elevata c la più seducente di tutte le élites che esistano. In tutto il mondo non si trova nulla che le sia simile. E’ una magnificenza di splendida bellezza che ancora non si stima abbastanza. Pròvati a predicare in Francia, in Inghilterra, e dove vorrai che la proprietà è illegittima, che l’egoismo è criminale.
Tutti si allontaneranno da te. Come potrebbe essere illegittima la proprietà individuale?
E che vi sarebbe allora di legittimo?
Ma l’intellettuale russo ci saprà comprendere.
Egli ha cominciato a filosofare appena la sua coscienza si è svegliata. Così se egli tocca un pezzo di pane bianco, subito si presenta agli occhi suoi un quadro tetro: «Iv’il pane fabbricato da’ schiavi». E questo pane bianco gli sembra molto amaro.
Egli ama, ma vede il fratello suo inferiore che vive nella bassezza, che vende per qualche soldo la sua dignità di uomo c allora l’amore perde tutto il suo fascino per l’intellettuale.
11 popolo è diventato la sua idea fissa:
egli cerca il modo di avvicinarsi a questa folla taciturna, di confondersi con essa. Senza il popolo, che da migliaia di anni porta in sè tutta la storia russa, senza l’amore per il popolo, un amore ingenuo, mistico, l’intellettuale russo non si potrebbe concepire. Per questo egli si metto con ansietà e scrupolo alla ricerca continua del vero, del vero popolare, contadinesco! Rinuncia a tutto ciò clic costituisce la fierezza, la felicità ordinaria del mortale:
dai villaggi, dai campi, dalla terra nera, ricevono gli intellettuali le loro idee morali.
Essi si vergognerebbero di vivere dimenticando il piccolo contadino e hanno preso a prestito da lui la celebre formula: la vita secondo verità non secondo diritto c scienza.
E’ vero che in occidente domina la scienza, la coscienza della necessità, giuridica e storica.
Ma in Russia domina l’amore. Noi crediamo in esso come in una forza misteriosa clic annienta d’uti tratto tutti gli ostacoli e instaura subito una nuova vita. Questa immagine di una vita nuova, di una vita interiore, si trova sempre nel cuore e nella testa di ogni intellettuale russo e noi ci siamo sempre entusiasmati per questa vita vera basata sull’amore del prossimo c elio non si piega a nessuna formula tranne che alla formula dettata dal cuore».
Questo verbalismo populistico spiega meglio di ogni critica nostra, come ogni forza di sistemazione del pensiero filosofico dovesse necessariamente esaurirsi in una povertà filosofica ingenua, in un sentimentalismo gonfio di una visione sconfortata del dolore universale.
Gli sforzi esegetici dei letterati russi per ritrovare una filosofia di Dostoievschi ànno fissato in conclusione formule che contraddicono ad ogni serietà filosofica: rivelazione dell’eterno fanciullesco, messianismo, ccc.
11 russismo autoctono per esempio che gli attribuisce una interprete slavofila è soltanto un segno della sua audacia fantastica. Infatti la spontaneità del pensiero clic non ha dietro di sè un Medioevo nonché costituire uh carattere di originalità determina essenzialmente il carattere antistorico del suo pensiero: e il suo sentimento di paura di fronte alla morte lo conduce ad affermare l’eternità della vita, ma in una forma poetica.
In queste premesse anche se i Russi si ostinano a scorgervi l’ardore di un’anima profetica, noi vediamo soltanto i limiti di un tormentato individualismo. Quando Dostoievschi vuote uscire da questo punto morto per penetrare la storia, riesce soltanto a porre un astratto dualismo tra divinità e umanità in cui l’umanità è ateismo, natura cicca, immoralità clic non riesce a superarsi e che è santificata dalla pietà, dall’asi>cttazionc messianica di una rivelazione storicamente assegnata alla Santa Russia — realizzatrice di infinità e di eternità. Ma anche l’infinito e l’eterno non sono teorizzati filosoficamente, ma sono pensati da Dostoievschi come qualche cosa di assolutamente immenso, di fronte a cui si prova un’impressione di brivido. L’amore suo è per l’umanità in generale; di fronte a un individuo il suo sentimento è talvolta di dispetto c talvolta di esclusiva contemplazione estetica; c I’amorc universale stesso gli è dettato ancora da un sentimento individualistico: la paura della solitudine. I tentativi filosofici si dissòlvono tutti in psicologia empirica.
L’azione politica che scaturisce da questo atteggiamento è vaga c messianica. La mistica ispirazione all’infinito, all’eterno, diventa scuola diseducativa in cui è annegato ogni realismo in omaggio a nebbie spiritualistiche; c si incoraggiano le aspirazioni del popolo a un’anarchica organizzazione sociale in cui è smarrita ogni coscienza dei valori individuali ed ogni saldo spirito di coesistenza statale.
I>a predicazione nazionalistica cade su un terreno propizio alle deformazioni che alimenta l’esasperazione di pregiudizii e malattie che già aspramente pesano come una costrizione di immobilità sulla storia del pòpolo:
l’impreparazione più cofnpleta a sentire l’importanza e i limiti del problema economico non consente uno svolgimento adeguato agli spunti di pensiero che potrebbero riuscire sani c fecondi.
• • ♦ La posizione spirituale deH’intcllettualismo populista che rimane statica per quasi quarant’anni c dalla qualp nascono indirettamente nella vita sociale i due fallimenti rivoluzionari del 1905 e del 19x7 è il punto culminante della crisi mistica slava.
L’intelligenza, staccatasi sempre più dal popolo, a man mano che in questo penetravano i germi della modernità, si rivela impotente al suo compito. Le sue esperienze meramente intellettuali sono soffocate in un circolo vizioso.
Mentre questo processo di dissoluzione si compie troviamo i primi documenti di una critica sociale realistica nei marxisti.
Ma anche il marxismo in Russia segue un suo processo c deve sopportare dure crisi di sviluppo c di fraintendimenti.
Sulle orme di Herzen gli slavofili, per primi, si affrettano ad aderire al marxismo importato dalla Germania, c ne falsano completamente lo spirito come avevano falsato Phegelismo.
I Nichilisti sono il frutto di questa aberrazione: uomini di entusiasmo che partecipano all’azione con mentalità estetizzante per un astratto eroismo, per una astratta purezza.
L’adesione dclPintelligeiiza al marxismo risale agli anni 1880-1890 cd è la conseguenza più immediata del fallimento delle aspirazioni della Narcdia V’olia: stremati di forzc.àl progressivo ascendere del movimento prolèkrio, deciso ormai a scegliere vie autonome, si salvano con un equivoco c in realtà corrompono e indeboliscono quel sistema a cui portano la loro nebulosità. Il socialismo russo dopo il ’90 è ancora messianico e fonda il concetto di socializzazione sul mir preistorico.
I germi vitali del marxismo ortodosso restano nascosti, quasi soffocati, nia vigili c pronti ad agire in questa disorganizzazione. Accettando rigidamente il rfiaterialismo storico i bolsccvichi distruggono gli ideali nebulosi che tengono il popolo fuori del mondo e del reale.
Identificano realtà e forza, vita e individualità, pensiero ed attività economica, pongono l’esigenza di far scaturire dal basso un’affermazione autonoma che allo zarismo si opponga e non si limiti alle dichiarazioni di principio dell’Intelligenza- Essi sanno che le idee non possono nascere da cervelli isolati, che la filosofia sorge dalla storia, che le grandi lotte politiche presuppongono coscienza di intercsLa morte di Era giunto il giorno 3. Venne da noi verso le sei del pomeriggio. Un poco stanco del viaggio, un poco stordito dal ritmo.di Parigi ma, come sempre, con una grande chiarità negli occhi ed un fresco sorriso. Non ci parve ammalato:
un poco più esile forse c più fragile, ma non ammalato. E poi, quando egli parlava, una forza così serena e così salda era nelle sue parole, un’acutezza così precisa e così fiera reggeva le sue frasi che ogni impressione di debolezza c di caducità era bandita in chi l’ascoltava. E parlò molto. Animandosi, dando vita ai suoi sogni ed ai suoi programmi di avvenire, precisamente e senza eccitazione, come guidato in sicurezza dalla sua fiamma interiore. Voleva fondare in Francia una casa di edizioni: sopratutto libri politici che portassero alla luce i problemi spirituali del nostro tempo. Aveva una lista di nomi, un piano già tracciato di attività.
In seguito qualche volume letterario, qualche traduzione di libri italiani ignoti oltr’alpe:
ne rammentammo qualcuno- egli aveva per tutti un motto arguto che ne riassumeva la essenza ed il valore.
E poi (e qui gli occhi gli risero) voleva far risorgere «Rivoluzione Liberale».
E’ un segreto — mi disse — non ne parli ancora, ma conto su di lei. E bisogna non perdere tempo.
E mi spiegò a lungo il suo concetto. Era necessario portare nella lotta politica un elemento intellettuale c culturale che al disopra della polemica quotidiana e violenta, elevasse le ragioni ideali del nostro dissenso.
Quest’affermazione compiuta in purità d’intenzioni cd in nome di principii alti e sereni avrebbe giovato al trionfa delle nostre idee molto di più c sopratutto molto meglio di ogni attività astiosa e partigiana.
Le difficoltà dell’impresa non lo spaventavano: Rivoluzione Liberale doveva vedere la luce in francese, allargarsi c migliorarsi, rappresentare Tarma di difesa delle concezioni puramente liberali in Europa, additarne c combatterne tutti i traviamenti c tutte le storture..Sarà scritta in cattivo francese da principio mi aggiunse — ma questa sarà una grazia.
Poi impareremo.
Trascorse con noi tutta la serata e si discusse di tante cose. Di sè parlava poco sempre e quella sera non parlò affatto. Non ci disse della sua malattia recente, non accennò neppure all’infermità del suo cuore.
Andò via poco dopo le undici promettendoci di tornar presto. Per due giorni non lo vedemmo. Al ferzo mi giunse un breve biglietto.
Mi diceva di essere infermo e chiedeva a mio fratello studente in medicina di andarlo a vedere.
Mio fratello andò subito: io poco dopo. Abitava in un modesto albergherò di tue des Ecoles. I/> trovai a letto che scherzava con mio fratello e si lasciava pregare prima di prendere le medicine e le pozioni che ingombravano il tavolo. Una bronchite doppia, aveva sentenziato il medico, complicata da un po’ di depressione cardiaca.
Era stanco ed un poco stordito: sentiva come una sonnolenza greve.
La conversazione lo affaticava: parlammo poco c soltanto della sua malattia. Era poco convinto dei rimedi c delle medicine: si lamentava sorridendo dcH’applicazionc delle coppelle che mio fratello già gli aveva fatta e dei brodini vegetali che gli aveva propinati.
La mattina seguente fu visitato dal dottor Basch, il quale fu piuttosto preoccupato dello stato del cuore e consigliò il trasporto in una clinica.
Ma questo gli ripugnava: l’idea della clinica e sopratutto il doversi considerare gravemente infermo lo infastidiva c, senza turbarlo, lo addolorava.
si, senso di responsabilità, individualismo economico.
Essi non pensano di educare il popolo rivelandogli In verità’: lavorano perchè il |>opolo intenda le condizioni della libertà, perchè si senta prplctariato e responsabile dei suoi destini. Nella lotta contro lo czarismo e contro il capitalismo essi hanno data una necessità e una linea alla rivoluzione.
(da Paradosso dello Spirito russo).
Piero Gobetti Piero Gobetti Non osammo insistere, egli pareva più sollevato, diceva sempre di essere molto stanco, ma di non sentirsi male. Tossiva c la tosse lo spossava. C’era molta stanchezza sul sua volto, molta stanchezza e molto abbandono.
Sofferenza non ne appariva e nemmeno ansia.
Solo una spossatezza grande.
Abitava una cameretta senz’aria, senza luce ed anche poco pulita: mostrò il desiderio di cambiare albergo. Il medico glie lo consentì cd allora, dopo averlo ben coperto cd imbaccucato, mio fratello lo condusse in una bella stanza di un piccolo hotel della vicina rue de Vaugirard.
Si sentì meglio. Cominciò a sfogliare i libri che gli avevo portati. In quei giorni a me non apparve mai la gravità del suo male: mio fratello era meno tranquillo, cd i due medici consigliavano sempre prudenza grande e si mostravano assai preoccupati della sua insufficienza cardiaca.
Ma egli sembrava in molto migliori condizioni: parlammo di libri.
Gli avevo dato a leggere la «Vita di San Francesco», di Chesterton. Gli era piaciuta.
Con voce piana me ne dettagliava i meriti:
E’ un libro moderno diceva e forse c’è più comprensione in questo sforzo d’intendere Modernamente una figura lontana da noi nel tempo, che nel trasportare faticosamente la nostra mentalità verso un passalo mal notoMolte cose mi disse c di molte questioni letterarie discorremmo insieme. Ma, come avviene sempre quando una dimestichezza lunga e molta comunione spirituale uniscono c legano due intelletti, quelle nostre conversazioni crano appena accentrate, come basate sulla intuizione reciproca ed io non potrei nè saprei riferirle.
Aveva, a tratti, in quei giorni, momenti d’abbattimento e poi momenti d’eccitazione. E nei suoi discorsi quella sua alterna ineguaglianza appariva. Questo mi dette da pensare. Pareva che egli facesse forza a sè stesso; che dominasse a stento la stanchezza grande che 10 vinceva, per parlare, per dire. E diceva quasi febbrilmente come chi abbia fretta. Ed un poco inquetamente, anche. Principiava la frase come se fosse turbato dal desiderio di pronunziarla presto c poi taceva c socchiudeva gli occhi. Ripeto: se io dovessi dire com’egli mi sia apparso in quei giorni dirci soltanto:
stanco, molto stanco. Altro di quei giorni non so dire. Mio fratello lo assisteva fraternamente e tentava di dare conforto ai suoi inali fisici.
Il giorno 13 egli ebbe una leggera crisi c peggiorò: il cuore non gli reggeva. I medici insistettero per il trasporto in una clinica. Vincemmo facilmente la sua resistenza: non avc.va quasi più volontà c si affidava a noi con un sorriso rassegnato.
Mio fratello lo accompagnò in autolettiga alla Clinique de Paris al Bosco di Boulogne, rue Piccini. E nel tragitto egli ebbe qualche istante di letizia: una chiara giornata allietava Parigi cd egli pronunziò parole quasi gioconde.
Il suo dolce sorriso riapparve sulle sue labbra per poco ed anche motteggiò, su questa sua gita così eccezionale lungo l’Avcnue des Chain psElysécs, mondana c rumorosa.
L’atmosfera pacata della clinica, il candore dell’ambiente cd il silenzio lo quotarono, prostrandolo.
Trascorse molto pianamente la giornata del 14. La mattina del 15 una lieve miglioria lo blandì: la sua volontà di vita era tale (sapemmo dopo) che due volte nella mattinata si alzò dal letto, si vestì alla meglio, si illude di poter guarire subito, di essere guarito.
Alle 9 di sera il cuore principiò a mancargli.
A poco valsero le iniezioni di caffeina.
11 medico di guardia lo assistè amorevolmente.
Alle undici gli fu dato l’ossigeno. Ebbe un’agonia dolce, inconscia: si spense. Non pronunziò che parole vaghe, non soffrì, non spasimò.
Alla mezzanotte e qualche minuto era morto.
Io lo rividi il giorno seguente: non era mutato. Solo sul suo viso era diffusa una pena clic non posso non chiamare infantile: senza i suoi occhiali di sapiente sembrava un bambino addolorato, un fanciullo triste e scontento.
Tale rimase nel gelo della morte finché dopo una lunga veglia lo componemmo nella bara e tale è rimasto nel ricordo di noi che l’abbiamo amato. Vincenzo Nitti.
Parigi - Marzo 1926.
TESTIMONIANZE Amici di Piero Gobetti, dai quali egli fu lontano nei giorni ultimi, avete desiderato che gli amici di Parigi non serbassero gelosamente per sè quei ricordi clic soli hanno di lui, essi cui spettò il triste privilegio degli ultimi colloqui e della muta scorta attraverso le vie a lui note e care della capitale straniera, sino all’alberata isola di Pace del Pére Lachaise.
La venuta a Parigi fu ancora uno di quei suoi arrivi da piccione viaggiatore. Improvvisa, il 4 febbraio, trovai una cartolina con due righe a matita, lasciatami a casa mentre ero assente: «Caro Emery, quando possiamo vederci? Io sono qui per fare roditore, se potrò.
Piero Gobetti». Aggiungeva il suo indirizzo:
d’un piccolo albergo del Quartier Latino, non lontano dal Collège de France..Gli diedi un appuntamento per il giorno dopo. Fu l’ultima volta che lo vidi in piedi. Ero- passato, senza vederlo alla prima, dinanzi alla terrazza di quel caffè del Faubourg St. Germain (uno dei jiochi — osservò — dove il caffè fosse buono), ed egli, a capo scoperto, mi rincorreva ridendo. Con la consueta rapida semplicità, mi mise al corrente delle sue intenzioni pratiche: stabilirsi editore a Parigi, pubblicando anzitutto libri d’interesse politico curoiieo, per ora soltanto in francese. Voleva assicurarsi qualche collaborazione di prim’ordine per una buona affermazione iniziale. Mi chiese indicazioni pratiche sul modo di trovare rapidamente un locale. Mi disse — ciò che io ignorava — che il cardiopalnto gli vietava di muoversi troppo, di fare le scale; ma non se ne mostrava preoccupato e contava sbrigare molte faccende per corrispondenza e per telefono. Cercava anche casa per sè e per la sua piccola famiglia.
Per due giorni non ebbi più sue notizie.
L’8, un suo biglietto mi annunciava una visita probabile per la sera stessa. Aggiungeva, per indicarmi come aveva passati i giorni precedenti: u In questi giorni non sono che un uomo alla ricerca di una casa». Ma niente visita la sera, e il giorno dopo la spiegazione in un altro breve biglietto: «... non sono venuto perchè sono a letto con la febbre. Se tu venissi domani pomeriggio, martedì, dopo le le 16, ti vorrei chiedere alcune cose». Lo trovai, il 9, mentre un medico, condotto a lui da Federico Nitti, lo stava esaminando. Più che la febbre e una bronchite diffusa, ciò che impensieriva era la crisi affannosa del suo cuore malato. Il medico consigliava dapprima il trasporto immediato in una clinica, ma, dinanzi alla riluttanza del malato, finì per dire scherzosamente:
«Le do ventiquattr’orc di tempo».
I,a pazienza serena con la quale Gobetti sopportò le penose giornate che seguirono ci permise di parlare sempre con lui scherzosamente del suo male, anche quando le nostre apprensioni erano più vive. Ed egli ricambiava lo scherzo affettuoso: «Adesso, che ti ho sotto mano — disse minacciando la mia ben nota pigrizia — ti farò lavorare per il Garetti!».
Lo vegliammo tutta la notte, una triste notte di pioggia, l’uno dopo l’altro: egli respirava affannosamente, tossiva, si lamentava in un sopore intermittente. All’alba era assai più tranquillo, c i due medici che lo curavano permisero che rimanesse all’albergo, concordi anche nel ritenere che, superato in una decina di giorni il periodo acuto, una cura a lunga scadenza, forse in un clima migliore, avrebbe incuto rimettere Tinfcrmo in condizioni sodisfacenti.
Egli pensava sempre ad una ripresa prossima della sua attività. Si occupava ancora del l’alloggio che cercava j>er sè c per i suoi.
Ma tre giorni dopo il suo stato peggiorò nuovamente.
Perchè avesse una stanza più comoda c ampia, era stato trasportato in un ttanquillo albergo di fronte al Senato: la campanella dell’orologio del Lussemburgo scandiva le ore e i quarti. La compagnia degli attiici, di giorno e di notte, era per lo più silenziosa.
Parlare affaticava il malato, spesso assopito, clic deplorava di essere troppo stanco per poter leggere a lungo.
Tuttavia il giorno dopo,, domenica, egli era, più sollevato, per quanto molto depresso dalla febbre, dall’affanuo e dalla dieta. I medici curanti avevano ritenuto ad ogni modo miglior partito, prolungandosi la malattia, farlo entrare in una clinica, c così era stato fatto la vigilia. Fu per noi tutti una maggiore tranquillità vedergli assicurata l’assistenza di medici c d’infermieri in qualsiasi momento del giorno e della notte. Nel |>omeriggio di domenica 14 gli |>ortai il primo numero del Barelli no npiù diretto da lui. Egli non lo nveva ancora veduto, lo sfogliò con piacere, osservandone Timpaginazionc. Fu l’ultimo atteggiamento di lui vivo, che doveva rimanermi negli occhi.
Lunedì sera, Prezzolini mi avvertiva che lo stato generale del nostro malato gli era apparso, nella giornata, allarmante. Appena libero del mio lavoro — poco prima delle 23 — corsi alla clinica. Non era più ora permessa ai visitatori, ma mi fu detto che lo stato dell’infermo «della camera numero 30» non appariva allarmante. Mi ritirai, assicurato, per tornare il giorno dopo. Ceravamo dati convegno, nel pomeriggio, varii amici, presso di lui.
Un’ora dopo ch’ero stato per l’ultima volta alla clinica, una crisi precipitosa spezzava il cuore di Piero Gobetti.
Si è detto clic egli era morto nell’abbandono, senza che nessuno se ne accorgesse.
No. Mi duole insistere su penosi particolari, ma è necessario ristabilire le cose nella loro verità. La fine di Piero Gobetti non ha bisogno di alcuna frangia romanzesca che ne accresca la cruedltà. Mancò — è vero — più che a lui, il quale, spossato, probabilmente non avrebbe nemmeno avvertita la presenza di alcuno, mancò a noi il triste conforto di essergli accanto nell’ora suprema. Non mancò l’assistenza medica, nè ogni tentativo per superare il momento culminante della crisi cardiaca.
Accorrere in tempo, data la rapidità estrema della catastrofe, non ci sarebbe stato ad ogni modo possibile. Purtroppo accadde che non fossimo informati subito della fine, e per parecchie ore, dopo tante fraterne cure,, l’amico nostro fu solo sul suo letto di morte.
Questa fu una pena angosciosa aggiunta al nostro dolore. Ma Piero Gobetti non visse abbandonato i suoi ultimi giorni. Lo circondòla compagnia affettuosa di tutti gli amici di qui. Noi abbiamo veduti i suoi occhi vivi e chiari, che parlavano anche nei lunghi silenzi imposti dalla sua crescente stanchezza, e attestiamo che essi, non mai smarriti, incontrarono ogni giorno sguardi amici, pronti a rispondere col muto incoraggiamento d’una presenza fedele.
Parigi - marzo 1926.
Luigi Emf.hy.
Bisogna lottare con noi ad ogni istante per non perdere neppure un’occasione di agire, per martellare su tutto e su tutti, Per costruire la nostra vita. Mi accorgo che la mia concezione della vita è in contrasto con troppi, quasi con tutti. E questo mi incoraggia anche più a non essere indulgente verso me stesso...
(da una lettera, 1919).
Bisogna che noi creiamo ogni giorno una conquista nuova c, poiché conquistare non è che allargare i propri limiti, bisogna che noi arriviamo a comprendere sempre più l’immanenza dello spirito, a vedere in ogni fatto, in ogni conseguenza una parte della nostra anima stessa.
Con questa passione profonda — che non diventa abitudine, e neppure azione inconsulta, ma resta normalità intensa, conquista progressiva e non intermittente 0 fra pimentarla — non si concilia la freddezza e la indifferenza che pervade e irrigidisce la vita d’oggi.
Tutta la vita moderna i estenuata da questa spaventosa anemia. Ma noi ci ribelliamo. Riportiamo a questo punto la distinzione tra moralità c immoralità. Non può essere morale chi è indifferente. L’onestà consiste nell’avere idee c credervi e farne centro e scopo di sò stesso.
(da «Energie Nuove», 1919) PIERO ZANETTI - Direttore responsabile.
Tipografia Sociale - Pinerolo.
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