Il Parlamento del Regno d'Italia/Luigi Sanvitale

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Luciano Scarabelli

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Camillo Benso di Cavour Vincenzo Spinelli
Questo testo fa parte della serie Il Parlamento del Regno d'Italia


Luigi Sanvitale.

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Scrivere la vita di un Senatore di nazione entrata di fresco a trattare de’ suoi interessi civili e de’ politici col magistero de’ suoi migliori non dovrebb’essere arduo nè lontano, pure mi perito io che di Luigi Sanvitale conte di Fontanellato vorrei discorrere, avvegnachè breve essere debbo, non consentendo prolissità il libro che de’ membri del Parlamento italiano raccoglie memoria, e mi conviene pur dire per quali meriti gli si degnasse l’onorevole ufficio e per quali argomenti a meriti pervenisse. Il nome suo è modesto perchè le ambizioni furono streme, e l’opera spontanea come da natura o inclinazione, volle essere più che parere, contento della soddisfazione della coscienza. Mite il carattere fu inclinato nel collegio Tolomei in Siena agli studî delle polite lettere che anche i rudi spiriti ingentiliscono, i delicati sublimano, e l’esempio del genitore chiaro in suo paese e fuori per nobili [p. 696 modifica]discipline e carità della patria e de’ poveri, perfettirongli il cuore e l’intelletto, così che l’anima di lui nel figliuolo Luigi parve trasfusa. Bisogna leggere una Visione poetica stampata dall’Alvisopoli nel 1841 in pochissimi esemplari di versi e prose di questo gentile per riconoscere la verità di quello che dico: nel qual libretto le Avvertenze, in prosa, per un giovane essendo visibilmente scritte per Alberto suo primogenito (oggi capitano fra gli artiglieri d’Italia), dimostrano la sollecitudine che il redaggio di virtù non isfumi da lui, com’egli del padre suo Stefano aveva raccolto.

Discorrendo di persona destinata all’operosa politica m’è giuocoforza abbandonare l’esame della natura e della efficacia degli studî letterati e dei morali del mio soggetto, e delle sollecitudini sue in ogni grazioso costume, dove chi pretende alla aristocrazia deve rendersi eccellente perchè non gli si bugiardino i titoli che la verità e l’orgoglio dagli antichi han posto in uso, e l’adulazione fomenta a crescerne o immaginare di nuovi. Ma non pertanto vorrò pur dire che la lindura del costume, della persona, e delle opere sue cittadine qual è, mancherebbe senza le stille divine che nel cuore e nel cervello penetrarono al conte per la via di Stefano suo padre letterato e filantropo, e di Massucco il quale nel collegio Sanese non per sè solo, ma per invirire le menti de’ giovani, colà studianti, idolatrava la sapienza e la grandezza degli antichi, e sopratutto la letteratura e l’acutezza del Venosino. Oggi quegli studî indeboliscono gli stomachi cefalici e se ne incolpano i tempi da’ coloro stessi che guastano in casa le menti impuberi, e da quegli altri che le puberi od opprimono o scemano; e la vacuità sonora allegatasi al posto della cupa sostanza distrae i volonterosi dalla ricerca del buono e li svia, e li fa smarrire. Frutto di quegli avviamenti, e dell’esercizio paterno e dei viaggi impresi pur dopo appena i vent’anni in larghe parti d’Europa non a sfuriar di corsa le provincie e i regni in brevi dì, non a veder mura, e goder feste e piaceri, ma a studiare con tempo ed agio instituti e instituzioni, uomini e cose, in che ebbe per un buon tratto compagno e direttore il naturalista Jan, uomo [p. 697 modifica]fornito di molte cognizioni e di molto sapere, furono le riverenze alle persone dotte e sapienti, una devozione agli svariati argomenti di lettere ed arti informati al bello classico e ragionevole, donde poi le scritture sue decorose di degnità sì in prosa che in verso, vuoi serio, vuoi faceto, un amore di possedere e di conservare i documenti degli studî e degli studiosi; ornarne le biblioteche e i musei, e quel suo arrendersi a chiunque lo invitasse a qualche opera utile, e quel suo essere dappertutto dove carità di prossimo alla città o al privato si richiedesse. I tempi, per disavventura strani, erano propri al nobile suo carattere. Io non suo famigliare, non suo cliente, non ausato al suo palazzo, non facile a lodare, astinente da servitù e da ossequi, non dubito di affermare che il Panegirico da lui scritto al proprio genitore in quella Visione si potrà un dì ristampare con giustizia al suo indirizzo.

Come il padre al duca Ferdinando in favore di Du-Tillot che aveva fatto di Parma una piccola Atene e in riconoscenza ebbe diffamazione e povertà (premio non ancor disusato alle virtù), egli alla duchessa Maria Luigia austriaca patrocinò in favore de’ sudditi, la conservazione di que’ beni che una setta nemica dei popoli e opprimitrice de’ principi, prima tentò, poi misesi a disfare. Fido cavaliere a quella signora nei dì pericolosi non l’abbandonò, ma non la tacque ciò che tutti sforzavansi di tenerle occulto, e taluno rappresentavale diverso o ingannato, o ingannatore. Non giovò, e maturavano i tempi in cui il consigliere leale dovesse mescolarsi agli oppressi per salvarli da maggiori disastri. Intanto, avvegnachè meno corruttibili e meno disfacibili sono le buone inclinazioni de’ popoli se siano le parti volgari educate all’amore del vero, dell’ordine e della giustizia, come il padre suo con pecunia propria alle sue terre, egli colla propria e coll’altrui promosse con vittoria di molti ostacoli in Parma, gli asili per educazione della povera infanzia, la casa della Provvidenza in cui per gli allevati dagli asili le arti manuali aggiungevano all’intellettiva morale l’opera moralissima della mano che discaccia l’ozio fonte ed incitamento di perversità: e dove [p. 698 modifica]l’egoismo si accresce, e la limosina s’invoca nelle disgrazie che o da fortuna o da incuria di sè cagionò alle famiglie, contrappose egli con nuovi Statuti, e attivissima protezione, la Compagnia di Mutuo Soccorso, ampliandola dopo cent’anni dalla fondazione pe’ servitori a tutti quelli che il vitto si procacciano lavorando, onde videla a 600 individui che l’aveva ricevuta a 150, e così onorando il lavoro egli fra i soci e capo dava al lavoro facoltà di provvedere alla povertà onesta scesa dalle fatiche o dalla sciagura non provocata. Della quale instituzione oltre a discorsi varî ne’ varî anni stampò Memoria nel 46, che già comunicata aveva al settimo congresso degli scienziati italiani, e fu fatta studiare altrove da privati e da governi per la sua bontà essenziale, e procurato aveva al benemerito riformatore, instanze da varie parti a fornir luce e giudizi su quella grande questione della beneficenza che perchè non è limosina, può darsi e riceversi senza jattanza e senza vergogna. Quindi fu che il nome suo venne osservato e riverito in Italia da coloro che in que’ tempi tanto più calorosamente intendevano a redimere dall’ignoranza e dall’abjezione le plebi, quanto quieta, ma assidua e fieramente, altri lavorava per ricacciarle nelle ignoranze e nelle superstizioni.

E intanto che in que’ tre instituti egli dava pecunia, opera e consiglio, e coll’autorità della persona in corte frenava le suggestioni poco amorevoli per ogni disciplina civile, aggiustava le sue letterature in molti giornali, in fogli volanti, in librettini che leggevansi con quanto amore egli dettavanli, infonditore di umani e salutevoli pensamenti nelle masse, mantenitore col bello stile e la lingua forbita di quell’onore a sè stesso che gli retribuivano il Taverna, il Pezzana, il Colombo, il Gamba, il Pellico, il Giordani, non solo nelle lettere a lui indirette, ma e nelle epistole ad altrui e nelle commemorazioni anche pubbliche. Gli scritti son numerosi, e bene sarebbe raccoglierli dal troppo sparso; de’ quali piacemi avvertire che di notevoli sono in due strenne Parmigiane che per sua cura e per suo conto, sul mio esempio dell’anno innanzi, immaginò a profitto degli asili per la infanzia nel 1842 e proseguì [p. 699 modifica]nel 1843 raccogliendo in esse frutti di provetti, e frutti di giovani ingegni del suo paese, mescolandosi con loro ora coperto, ora col proprio nome, non permesso così che gli facesser corona, sì gradito d’esser ricevuto nella loro schiera; Taverna e Giordani piacentini amici al conte e agli Asili, non vi mancarono come non mancarono alle Piacentine amici agli Asili e a me, e que’ libri ivi e quivi rimasero per que’ tempi monumenti di carità patria e dì studî gentili. E poichè ho nominato Giordani, io famigliare suo attesterò che quantunque a me, di molti, ben altri severi giudizî dèsse che quello che con artificiose parole scriveva, del Conte come di colto e di leale parlava; e se neo vedeva, era nella mitezza del carattere che io ho enunciata, e che gli reputava soverchia, parendogli che il primo signore di Parma, e credibile alla duchessa, dovesse più farsi valere che la sua osservanza non gli consentiva. Ma i casi del 48 dimostrarono che il Conte, astinente dalle parti focose, non si rimaneva inoperoso dove la sua facoltà gli dava opportunitade sicura di essere ascoltato e favorito. Il Conte non dirà, ma ho ben io già scritto e spero di pubblicare, nella Vita di Giuseppe Taverna, com’egli questo vecchio amico della sua casa soccorresse, e spesso, nelle sue umilianti necessità che la ingratitudine del suo paese, anzi dell'Italia, gli faceva soffrire. Questo angelico prete che tenne viva la buona letteratura nella Cispadana e la buona educazione in tutta la Penisola, per la quale, instante il padre del nostro Senatore, scrisse il primo Abecedario e i libri di Lettura per le prime e le seconde classi de’ fanciulli, e poi alla gioventù diede le Novelle e morali le istoriche, e insegnò quanto valesse e dovesse godere la Italia in studiando i suoi Latini, fu così maltrattato in suo vivente che nelle maggiori necessità dovette vivere di limosina. Il conte Luigi soccorrittore non era sempre saputo tale dal Soccorso grato alla provvidenza; e quando pur volle essere saputo diè parvenza di premio alla beneficenza come allora che la novella di Pantea e d’Abradale pel Taverna foggiata al grecanico, e dal Colombo, dal Pezzana, dal Giordani ammirata e una traduzione della [p. 700 modifica]cronaca di Gondar accettò, fece lussoriosamente decorare e donò alla parmense biblioteca. Io amico al Taverna sarei impacciato a determinare se più il vecchio pedagogo amasse il Conte, o il Conte venerasse quel prete impastato di bontà con sentimenti d’una schietta libertà ch’è più presto annunziata che presentata.

Il Conte aveva avuto officii d’onore in corte, officii operosi in città. La duchessa non più libera dopo il 1831 aveva dovuto accettare dall’Austria consigli e consiglieri; non era inclinata ai nuovi venuti: ma la specie del retto può presentarsi con seducenti e con ispaventevoli forme e non essere che specie, riceversi, e ricevuto fallare le opere. Così avvenne a Maria Luigia che amata lungamente da’ suoi popoli, e a’ suoi popoli benefica, fu condotta a dubbi, a timori, e a rimedii peggiori de’ mali che le si andavano sussurrando. Il conte di Bombelles lorenese dato dall’Austria agl’intimi consigli era probo, ma di principii vieti, e secondo essi consigliava e faceva operare. Pur non sarò crudo verso di lui di che tanto si lamentarono i Parmigiani, e a oltranza e giustamente i Piacentini. Egli non tutto di suo capo faceva nè chiedeva parola soltanto a coloro che la pensavano come egli, ma, gli rendo giustizia, anche interpellava i più onorati nella città dagli uomini liberali. N’ho esempio una sua lettera originale del 18 gennajo 1859 al marchese Ferdinando Landi di Piacenza nella quale lo scongiura a dirgli il vero sui gesuiti di che tanto intronavano i paesi e le persone; ed ho la minuta autografa del Landi del 22 dello stesso gennajo nella quale è detto tutto quello che poteva tranquillare l’animo suo timoroso. Aggiunge il Giordani (Opere, Append. Milano 1865, p. 125) che il Governo interrogò alquante persone di quella città; che le risposte variarono: alcune libere e sincere; altre ambigue e dissimulanti, altre favorevole ai frati, credendosi comunemente così volersi dal conte maggiordomo. È noto a tutti che prete Giuseppe Veneziani, oracolo di probità e di scienza fisica in Piacenza rispondesse tra i favorevoli, ed è noto a me che gli officiali dei carabinieri pregavano gl’interpellati a dire [p. 701 modifica]sincero e libero il vero, ma parve carità pelosa e tranello ai sollicitati. Il marchese Landi aveva rinforzata la risposta col personnes respectables assurent; e quindi il conte è compatibile se credette ciò che credere era male. I Piacentini fecero la famosa soscrizione dei 406 il dì 30 giugno e la porsero al Landi, ma sa Dio che cos’abbia scritto al conte egli che pur la ricevette. Sanvitale parlava come i 406, e diceva qualche cosa più, ma egli era troppo moderno; Mistrali ministro parlava con maggiore autorità, ma aveva fama di giacobino: quindi le cose camminarono alla peggio finchè la Duchessa finì la vita dichiarando che amato avea il suo ducato, e che se qualche male era caduto, d’impotenza a frenarlo, d’inganno patito, sè accusava. La luce s’era fatta anche in lei, ma era tardo, e le redenzioni dovevano aversi dal cielo; e i popoli che libera l’aveano trovata buona, si ristettero di accagionarla delle disgrazie che lei non libera o insciente, caddero sopra di loro. Farini che raccolse all’Italia i Ducati e le Romagne non dissimulò di quella Principessa il giusto elogio che le si doveva.

La contessa Albertina partecipante col marito ai sentimenti giustissimi della sua città, accettava dal Conte che i suoi figliuoli fossero educati ed instruiti in casa, e piena di sollecitudine perchè la prole fosse allevata degna di lei e del marito non intermise atto che indebolisse gli effetti dei disegni dell’educatore. A questo incidente sono venuto per notificare che agli agi e al rispetto per gli studî civili di casa Sanvitale si devono i primordi di una invenzione di fisica applicativa che ha fatto molto parlare in Italia, e che recherà giovamento considerevole alle comunicazioni di ogni genere prosperevoli de’ popoli qual è quella del Pantelegrafo dell’abate Caselli. Quel buon prete che fu l’aio e il precettore dei figliuoli del conte Luigi Sanvitale, poichè malato della scienza che redime i popoli dalle menzogne, dovette nel governo succeduto a quello della duchessa Maria Luigia andare a proseguire altrove i suoi tentativi e le sue esperienze, abbandonare i giovinetti a lui affidati, staccarsi della famiglia divenutagli amica e cedere così all’inquietezza [p. 702 modifica]non quietabile di una corte che non poteva aver pace nelle contentezze d’altrui.

Morta Maria Luigia, Carlo di Borbone lasciata Lucca regnò in Parma, e stettevi colle milizie austriache perocchè l’Austria calcava da più che mezza l’Italia. Un suo proclama del 26 dicembre 1847 che santificava ciò che i popoli avevano sperato abolisse aveva fatti avversi gli animi degli onesti cittadini. Come in varie parti d’Italia scrivevasi e stampavasi dei mali d’ogni sua terra, così io da Firenze nel Giornale dell’Alba fondato dal La Farina esponevo con molte cifre e con libere parole la condizione misera dei Ducati e il 18 di marzo 1848 raccolte quelle notizie in libro, spedivale al duca con un indirizzo a stampa (riprodotto poi nel 1849 coi tipi Moretti a Genova) perchè imitasse Carl’Alberto, il Papa, il re di Napoli, il granduca di Toscana. Il 19 la sera in Parma minacciavasi la rivolta, e ad ora tarda il duca intimorito convocò presso sè alquanti magistrati e alquanti patrizi della città. Fu chi consigliò armi e man bassa; il Conte non ultimo e tra i pochi, la Costituzione. Il duca volle meditare la notte; e la mattina a sette ore chiamò il Conte. Già i Parmigiani battevano a fucilate gli austriaci, e il Conte non esitò di passare tra i pericoli. Era adunata dal duca più gente che il giorno innanzi. Morti e feriti erano per le vie, il duca sbigottiva e vaneggiava; il figliuolo voleva uscire alla testa delle truppe indigene e disperdere la rivolta. Il padre in quello stonamento lo fermò in palagio. La consorte del Principe stava sola e muta nel fondo della sala; quella del Duca malata e a letto fece chiamare il Conte e gli commise di riferire al consorte «ch’ella sentivasi morire udendo e pensando che sangue spargevasi nella città, volesse il duca far cessare il fuoco dei soldati contro i cittadini». Avuta l’imbasciata il duca fu un momento dalla moglie, poi ai congregati chiese nuovo consiglio. Il Conte non fu tardo a rispondergli «Facciasi cessare il fuoco dalle soldatesche e si stenda proclama breve e netto che la desiderata Costituzione è data e che una mano di cittadini buoni sarà chiamata al governo». Il [p. 703 modifica]proclama fu lì nell’istante scritto e dal duca firmato. Chi lo notifica? domanda il duca, — Io, risponde Sanvitale, diami V. A. due persone che m’accompagnino. Si esibirono Molesini avvocato e Nasalli Girolamo conte. Desiderò il duca andassero notificare il proclama, e insieme gli condussero il conte Cantelli col quale voleva formare una reggenza di Stato a Parma. Rifaceva, ma in peggio, la commedia di non molti mesi innanzi rappresentata a Lucca. Erudito di sacre carte e di lingue orientali nulla aveva appreso dagli aforismi di Salomone e dalle conseguenze delle dottrine di Roboamo. I popoli si movevano per la prima volta tutti, ma sperava nella lor debolezza di gioventù; oggi primo di tutti i scoronati d’Italia riconobbe giunti al virile gl’italiani, e da principe si tiene lor pensionato e cittadino. Quanto ne impara il suo consanguineo napoletano?

Notificare quell’atto fu ardua impresa, quanto ardua giungere a casa Cantelli. Le soldatesche impedivano i passaggi; bisognò voltare per di qua e per colà, lunghi giri e infruttuosi. Erano tre in carrozza scoperta, e finalmente giunsero a casa Cantelli. Molta gente strepitava e minacciosa colle coltella in alto domandava a che venissero. Sanvitale balzò fuori e gettatosi nella folla gridando buona notizia, palesò il chirografo cui subito lesse uno degli astanti. La folla acquietossi, incamminossi al Municipio a costituir la guardia cittadina, e i tre col Cantelli andarono a palazzo, illesi sebbene un colpo di fuoco fosse loro scagliato da un soldato presso al Ponte di mezzo. Mezz’ora di conferenza segreta ebbe il Conte col duca: usciti insieme il duca dichiarò d’avere eletta una reggenza di Stato, membri il Cantelli, il Sanvitale, Gioia e Maestri avvocati, Pellegrini professore. La prima volta dopo 33 anni del governo duchesco un piacentino entrava governatore. In breve la reggenza fu governo provvisorio; Sanvitale conservò il portafoglio dell’interno, Gioia si dimise, e andò a sollevar Piacenza e ad unirla al Piemonte; Parma rimase in qualche agitazione; Sanvitale fu più volte in piazza a quietare i commossi che agitati erano dai tristi. Partiva il [p. 704 modifica]principe, e s’ignorava il fine, che io da Firenze avvisai a Pellegrini; poi andossene il duca e il resto della famiglia. Votossi la dedizione a Carl’Alberto, e Sanvitale con Nicolosi magistrato e Maestri portò il decreto a Sommacampagna a quel principe che incominciava la libertà d’Italia; così Parma quietava.

Ma le armi albertine, e dovrei dire italiche, infortunarono e il Borbone tornò. Abdicò il padre, ma decretò esilio e quasi confisca de’ governatori sotto colore di male speso denaro, sotto menzogna di giudizio, che mai non fu; infamia che nel 31 la duchessa austriaca evitò rispettando il Maestrato che per sua legge esisteva. Il quale Maestrato, con esempio unico da’ secoli assolvendo i rivoltosi contro il suo governo, essendo biasimato amaramente a lei, Essa umanamente fece muti i zelanti pronunciando le memorabili parole: «Ne sono contenta: tanto meglio per loro e per le loro famiglie». Carlo III fece eseguire, direbbesi rabbiosamente, il rabbioso decreto del padre dimissionario, nè valsero le pubbliche censure di lord Palmerston a metterlo in rispetto, e quanto al Sanvitale, più percosse e straziò; e più tardi non mancossi d’insidiarlo nella casa di Fontanellato ov’erasi ritratta la consorte e così dannarla, se si fosse potuto, come rea di Stato, e cacciarla spoglia di tutto a far compagnia al marito. Il Conte erosi fermato in Piemonte, creato senatore e dispensato per a tempo dall’uffizio, sopportò rassegnato, ma fermo, il destino che la tirannide rabbiosa gli infliggeva, e nel suo avere e nella sua famiglia. Come nel 48 era presidente del comitato che attendeva nella capitale del regno subalpino ad afforzare le annessioni dei popoli dei Ducati, e poi adoperavasi a tener vivo il fuoco sacro che si volea pure spegnere dai ristorati, non è maraviglia se assoluti dai duca gli altri, rimanesse il Sanvitale (e il prof. Pellegrini) odioso e stremo.

Ma finalmente Carlo III finì la vita e Sanvitale potè riavere il suo e rimpatriare. Tanti benefizii e pubblici e privati alla sua città, e servigi onorati alle lettere gentili e alle severe, tanta perdita del suo avere, tante sollecitudini in pro della politica italiana, tante [p. 705 modifica]angoscie comportate coll’animo sereno nell’esiglio, non lo salvarono dall’ingiustizia, nè dall’ingiuria; nè gli valsero le nuove azioni del 59 e del 60 perchè i Ducati fossero italiani nell’Italia. Nel 61 l’Espero proprio in Torino, biasimòllo d’aver chiesto il rimpatrio, imputògli di non aver trovato forza di compiere i beni che mostrato avea di desiderare. Così adopera l’arroganza ignorante, nella libertà della parola, lo stile in discorrendo ai popoli di coloro a cui devesi avere conoscenza ed animo grato. Forse un poco d’asprezza in certi dì, in certi autorevoli, sarebbe desiderabile, ma non è da volere nessuno erigersi giudice de’ pensieri, e de’ mezzi degli autorevoli stessi per vincere gli ostacoli a procacciare il bene. Non mancano alla storia esempli in onor di Sanvitale, ma i moderni facitori di fama ad altrui non ne sanno principio, nè è fiato da perdere a insegnargliela. Certo io so che a Parma nulla si pensava, nulla si proponeva senza di Sanvitale, e innanzi al 48, e dopo; e presidente ai luoghi pii già memorati, e all’accademia di belle arti e Sindaco della città, e consigliere provinciale, è tuttavia signore consultato e gradito, e dall’universale ossequiato. Gl’individui si umiliano all’adulare, ma a codesto non vanno i popoli, che non si accecano per benefizi interessati. In quella sua temperanza l’attività era continua, e di sè e del suo non risparmiò nè punto nè mai, e i beni pensati per sua parte compì. Fatta l’Italia, assunse officio in Senato; gli atti di quel consesso parlano dell’operosità sua quello che non devo dir io.

Per quello che importa all’effemeride, in cui deve entrare questa menzione, avrei detto abbastanza, ma non voglio lasciar di ricordare che nell’esilio, e nel rimpatrio, e nella gioja dell’essere da parmigiano fatto italiano, i suoi nobili studii non intermise. Come negli anni giovani egli viaggiando istruivasi, così negli anni maturi cercava istruzione mutando climi a rinfrancar la salute. Da qualche tempo per la consuetudine cogli studiosi di Parma attendeva a rintracciar notizie di storie o per le lettere, o per le arti, o per la beneficenza, e se non osava dettare la vita del [p. 706 modifica]benemerito padre suo, temendo non l’amor figliale e la gratitudine potessero fargli velo al giudizio nel vero, e quindi la commise al prof. Giovanni Adorni che gli soddisfece, scrisse molto eruditamente della propria Rocca di Fontanellato e dei preziosi affreschi lasciativi da Francesco Mazzola soprannominato il Parmigianino; riordinò e riarricchì l’archivio dell’ordine Costantiniano di cui era dignitario; raccolse preziose rarità nella propria libreria, e partecipò di sue ricchezze librarie e artistiche il museo, la biblioteca, la pinacoteca; ito a Recoaro nel 58 esaminovvi l’archivio, fecevi gravi scoperte e presene memorie importanti; tornatovi nel 60, instituì col suo secondogenito escursioni al monte vicino detto il Campetto, visitò i famosi antri e fecevi scavi, e tenne ad assicurarsi che non campo romano, ma ricettacoli paionvi di Cimbri Teutoni; fecene a stampa, prima in Parma poi a Torino (e dediconne alla Olimpia Savio) libretto che aiuta le memorie di Pezzo e di Macca, storici di quelle parti, e di quei luoghi non ricordanti. Su quel d’Aosta, in Savoia, raccolse altre notizie non meno curiose e utili.

Gli è dunque il conte Luigi Sanvitale, uomo educato a studî ormai rari, e dalla madre Gonzaga e dal padre inspirato a carità e a beneficenza, oggi che scrivo, sui 65 anni, ma vegeto e intelligente; meritevole per azioni alla redenzione d’Italia utili ed efficaci, d’animo libero, e di principii umanissimi, delle pubbliche faccende colto, del pubblico bene desideroso ed operoso; nella chiarezza delle virtù permissivo di riverenza nel nome de’ suoi antenati, degno e opportuno a sedere nel Senato del regno di questa nobilissima Italia, alla quale fortissima di sentimenti generosi, io, per bene suo, auguro cittadini molti che nella coltura della mente e del cuore a questo suo cittadino si rassomiglino.


L. Scarabelli.