Il Quadriregio/Libro quarto/I

Da Wikisource.
I. Del paradiso terrestre e di Enoc e d’Elia e dell’albero della scienza del bene e del male

../../Libro quarto ../II IncludiIntestazione 1 aprile 2021 25% Da definire

Federico Frezzi - Il Quadriregio (XIV secolo/XV secolo)
I. Del paradiso terrestre e di Enoc e d’Elia e dell’albero della scienza del bene e del male
Libro quarto Libro quarto - II
[p. 275 modifica]

CAPITOLO I

Del paradiso terrestre e di Enoc e d'Elia e dell'albero della scienza
del bene e del male.

     Lasciata addietro avea la prava terra
e delli vizi la maligna schiera,
e trapassata avea tutta lor guerra.
     E sopra l’orizzonte giá ’l sole era
5ben quattro gradi, in quella parte posto,
che li fa state e qui fa primavera;
     quando, per poter giungere piú tosto,
andava dietro alla scorta benegna,
la qual a seguitar m’era disposto,
     10Detto m’avea che nullo è che pervegna
ad alto fine ovver a nobil cosa,
se non chi s’affatica e chi s’ingegna.
     Ond’io per quella via sí faticosa
andava in fretta come il pellegrino,
15che, ’nsin che giunge al termine, non posa.
     Quando fui presso al fin di quel cammino,
il paradiso vidi ch’è terrestro,
il qual fe’ Dio per singular giardino.
     E, s’egli è bello, pensisi il Maestro,
20il qual el fece e posel dove il sole
ha piú vertú e ’l cielo a lato destro.
     Lí era un pian di rose e di viole
e d’altri fiori e di maggior fragranza
che qui, dove siam noi, esser non suole;

[p. 276 modifica]

     25ché ogni frutto, quanto ha piú distanza
da quello loco, tanto ha vertú meno,
e quanto piú s’appressa, in virtú avanza.
     Tra quelli fiori e l’aere sereno,
e tra le melodie di quel piano
30io trapassai di dolci canti pieno.
     Da quel giardino er’io poco lontano,
ch’io vidi un serafino in su la porta,
ch’è posto lí da Dio per guardiano,
     il qual un gran coltel nella man porta;
35e l’uno e l’altro è di color di foco,
talché lor fiamma al sol non parea smorta.
     Quando appressato a lui mi fui un poco,
egli mi disse, la spada vibrando:
— Guarda come trapassi in questo loco,
     40dal qual per colpa fu l’uom messo in bando,
non solamente per gustar del pomo,
ma perch’e’ trapassò di Dio il comando.—
     Minerva a me insegnato avea siccomo
l’intrata da quell’angelo si chiede,
45senza il qual modo non v’entra mai uomo.
     In terra mi prostrai da capo a piede,
ed ivi in croce spasi le mie braccia
come nel legno Quel che a noi si diede.
     E dissi:— O angel, prego ch’e’ ti piaccia,
50per amor del Signor, ch’è sí cortese,
che nullo, che a lui torni, mai discaccia,
     che lí mi lassi entrar nel bel paese.
Tu sai ch’Egli al ladron su nella croce
simile grazia fe’, quando gliel chiese.—
     55L’angel allora, al suon di questa voce,
la porta aprío e diedene l’entrata,
levando via il coltel tanto feroce.
     Come buona speranza il cor dilata
d’allegrezza, cotal a me quell’orto
60dava letizia e la contrada grata,

[p. 277 modifica]

     ove null’uom giammai sarebbe morto
senza sua voglia e non giá per natura,
ché sol per grazia venía tal conforto;
     ché nulla cosa, c’ha in sé mistura
65di qualitá ed opposita azione,
di venir men puote esser mai secura.
     Mentr’io ascoltava la dolce canzone
degli uccelletti, ed io vidi venire
due venerande ed antiche persone.
     70Il meno antico a me cominciò a dire:
— Come tu in questo luogo se’ intrato?
con qual potenzia vien’? con qual ardire?—
     Minerva allor rispose:— Io l’ho menato;
l’agnol di Dio a lui la porta aperse,
75quando umilmente da lui fu pregato.
     Giú del centro d’inferno, ove s’immerse,
colle mie mani io da primaio el trassi,
e feci sí, ch’in quel loco non perse.
     Palla son io, che gli ho guidato i passi
80per mezzo a’ vizi e tra le fiere crude
insino a voi, ai qual vuol Dio che ’l lassi,
     ché demostriate a lui ogni vertude:
quassú venute sonno e quassú stanno,
quando fuggîr del mondo, ch’è palude.
     85Tornar io voglio al mio beato scanno:
a questi lascio te, dolce figliuolo:
costor inverso il ciel ti guidaranno.—
     Cosí dicendo, in alto prese il volo;
ed io, piangendo, dissi:— O dolce Palla,
90perché di te cosí mi lasci solo?
     Dietro alli passi tuoi ed alla spalla
lasciato ho ’l mondo, o scorta e mia auriga,
il qual, rispetto a questo, è una stalla.
     E sempre, andando insú con gran fatiga,
95le tue vestige, o donna, seguitai,
tra ’l mezzo delli mostri e di lor briga.

[p. 278 modifica]

     Ora, che tu cosí lasciato m’hai,
per tutto l’universo, che ti trovi,
io anderò cercando sempremai.—
     100Un degli antichi padri ed a me novi,
disse:— Non è bisogno tanto pianto,
ma con noi insieme omai i passi movi
     per questo paradiso in ogni canto.
Enoc è questo primo, ed io Elia,
105quai Dio ne pose in questo loco santo.
     Delle vertú ti mostrerem la via.—
Allor pel prato di que’ fiori belli
una con lor mi mossi in compagnia,
     tra verzillanti foglie ed arbuscelli
110e tra le melodie dolci e gioconde,
ch’ivi faceano inusitati uccelli,
     quando trovai un arbor senza fronde,
ch’era di spoglio di serpente avvolto,
sí come un’edra ch’un ramo circonde.
     115Lo spoglio avea di forma umana il volto;
e l’arbore di spine era pien tutto
intorno a sé, siccome luogo incolto.
     Ogni altro legno ivi era pien di frutto,
e di be’ fiori e frondi fresco e bello;
120e questo solo era secco e destrutto,
     e su non vi cantava alcun uccello.
E, non sapendo perché questo fusse,
il padre Enoc addomandai di quello.
     — L’arbor profano è questo, che produsse
125— rispose Enoc— il frutto del suo ramo,
col qual il drago il primo uomo sedusse,
     quand’egli ingannò Eva e poscia Adamo
a non servare a Dio obbedienza
col pomo dolce, ov’era il mortal amo.
     130«Legno» chiamato fu «della scienza
del bene e mal»; che è prima solo bene,
poscia del mal il ben ha sperienza.

[p. 279 modifica]

     Le piú fiate al miser uomo avviene
ch’e’ non conosce il ben, se non in quella
135che n’è privato o c’ha contrarie pene.—
     Poscia trovammo la pianta piú bella
del paradiso, la pianta felice,
che conserva la vita e rinovella.
     Su dentro al cielo avea la sua radice
140e giú inverso terra i rami spande,
ove era un canto, che qui non si dice.
     Era la cima lata e tanto grande,
che piú, al mio parer, che duo gran miglia
era dall’una all’altra delle bande.
     145— Questa gran pianta di gran maraviglia
— disse a me Enoc— è l’arbore vitale,
che vita dona a chi suoi frutti piglia.
     Fitto nel cielo sta il suo pedale;
indi vien la vertú, che gli dá Dio,
150che possa l’uomo rendere immortale.
     Un ramoscello dall’angelo pio
n’ebbe giá Set e piantollo in la fossa
del padre Adamo suo, quando morío.
     E quello crebbe e féssi pianta grossa,
155e poscia posta fu nella piscina,
che sol di sanar uno ebbe la possa;
     ché profetato avea Saba regina,
che su dovea morir quel gran Signore,
che faría nuova legge e piú divina.
     160Allor il legno di tanto valore
da Salamon fu di terra coperto,
insin ch’a far suo frutto apparse fòre;
     ché, quando piacque a Dio, venne su ad erto,
e di quel legno la croce si fece,
165ove l’Agnel di Dio per noi fu offerto,
     quando su ’n quella il prezzo satisfece.—