Il Re prega/XIII

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XIII. Come si diviene lazzarone

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XII XIV


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XIII.

Come si diviene lazzarone.


Vi è un giorno nell’anno che è un giorno di beatitudine per i trovatelli di Napoli.

Il 25 marzo, li ripuliscono, li vestono, si astengono dal farli morir di fame e dal troppo bistrattarli. Il sorriso, esiliato da queste giovani teste trecentosessantaquattro giorni dell’anno, sboccia sulle loro labbra: è il giorno della speranza dopo tante settimane d’abbattimento. Della gente onesta e povera che non ha figliuoli, dei miseri operai che non trovano una compagna nella società legale, vanno a visitare lo stabilimento dei trovatelli dell’Annunziata, aperto a tutti il 25 marzo: l’uno vi cerca un figlio, l’altro una sposa. I figliuoli della Madonna sono esposti: Dio riparerà l’ingiustizia degli uomini.

Un operaio, maritato da dieci o dodici anni, non aveva figliuoli. I due coniugi ne desideravano uno: diventavano vecchi, e si sentivano soli. Nel 1818 [p. 196 modifica]si decisero dunque ad adottare un figliuolo della Madonna.

Fortunella avrebbe voluto una ragazza, Giovanni volle un garzoncello. Ne scelsero uno dell’età di cinque anni chiamato Gabriele.

L’operaio era stato soldato della Repubblica Partenopea. Era stato di coloro che arrestarono la marcia di Championnet su Napoli, che non ha nè forti nè mura per resistere allo straniero, ma parecchie castella per schiacciare le sommosse del popolo. Nel 1820 Giovanni si aggregò naturalmente fra coloro che forzarono re Nasone ad accettare la costituzione.

Al ritorno di quel re, in mezzo all’esercito austriaco, Giovanni fu cacciato in galera e non si udì più parlare di lui.

Restata sola con Gabriele, un monello di circa otto anni, senza risorse, senza risparmi, senza attitudine speciale e senza lavoro, — perchè, onde non incorrere i fulmini della polizia, alcuno non osava dar lavoro alla vedova del condannato giacobino, — Fortunella mendicò. Gabriele si mise a vagabondare sotto pretesto di fare delle commissioni.

A Napoli non si vive positivamente di aria e di maccheroni conditi dall’incomparabile spettacolo del Vesuvio e delle sue eruzioni. I romanzieri, gli autori di opere buffe, certi viaggiatori di appendici han detto ciò; il mio amico Jules Janin ha persino traversato a nuoto la Riviera di Chiaja; ma ciò non è poi così incontestabile come il quadrato dell’ipotenusa. Tuttavia la vita non vi è [p. 197 modifica]cara1; ma altresì i salari sono bassissimi, eccessivamente esili.

Le limosine che Fortunella raccoglieva non sarebbero bastate a far vivere una donna sola; ella aveva un garzoncello per soprassello. Ciò che questo monello guadagnava, se guadagnava qualche cosa, lo spendeva di nascosto, sia per andare a vedere i pupozzi di Don Gabriele al teatro di Donna Peppa, sia per pagare il vecchio che raccontava sul Molo le avventure di Rinaldo e di Bradamante, sia per comperarsi di quelle stomachevoli leccornie chiamate franfellicchi. Il pane era dunque tutto a carico della povera donna.

La quistione degli abiti non fu mai una quistione per Gabriele. La natura avendolo provvisto di una magnifica capigliatura nera, come gli augelli del cielo sono provveduti di piume, Gabriele non aveva bisogno di coppola. Le belle lave del Vesuvio, che lastricano le strade di Napoli, avendogli indurito l’epidermide dei piedi, come gli animali erranti, egli non sentiva la necessità delle scarpe. Il freddo del clima di Napoli non essendo intenso, un giubbetto non era indispensabile. Egli è vero che il pudor pubblico, checchè ne abbia scritto lady Morgan, non avrebbe tollerato che egli andasse attorno senza camicia e senza calzoni. Ma che quel pantalone non arrivasse che fino al ginocchio, che i suoi squarci a bocca aperta lasciassero vedere ciò che avrebbero dovuto nascondere, [p. 198 modifica]che quella camicia fosse un cencio così pittoresco come i deliziosi stracci dei cialtronelli di Murillo, poco importava. La morale pubblica era salva, la società pudica soddisfatta; la coscienza della gente caritatevole restava quindi senza rimorsi. La nettezza poi era affare di Gabriele. Quando la sua biancheria era sporca, egli la gittava al mare. E frattanto ch’egli succhiava delle conchiglie, il sole ed il mare s’incaricavano dell’imbiancatura di sua signoria.

Neppure la quistione dell’alloggio non era stata giammai una per lui. Egli avea fisso il suo domicilio al terzo scaglione della gradinata della chiesa di S. Teresa, a Capodimonte. Il proprietario non gli dimandava mai il pesone, come il popolo napolitano chiama il fitto della casa.

La parola dice la cosa.

Ma l’inverno? domanderete voi. L’inverno? Ebbene, fra tutte le calamità sociali che affliggevano la città di Napoli, la Provvidenza le ne aveva risparmiata una che forse le valeva tutte. A Napoli non vi erano portinai, o piuttosto non ve n’era che uno solo: lo svizzero del re! L’inverno dunque Gabriele si cacciava in un cortile, s’appollaiava dietro una porta, in una rimessa, in una stalla. A giorno, cominciava a battere le strade, se gli restava ancora qualche soldo, ovvero andava a vedere sua madre, nel suo orribile buco al mercato, se aveva fame.

Questa esistenza spensierata e nomade era il suo apprendimento della vita. La famiglia naturale l’avea rigettato, la famiglia adottiva era stata [p. 199 modifica]disciolta dal potere politico: orbo di padre e di guida, egli vagava alla mercè del caso, e si dava a lui tutto intiero.

Il caso è l’istinto.

Sua madre un giorno lo sgridò: credo anzi che lo battesse un tantino. La povera donna voleva tirarselo dietro in una chiesa, ed il galuppo preferiva di restar fuori, al sole. Gabriele se la spulezzò, e per due o tre giorni non comparve al tugurio. Però, come Fortunella gli aveva parlato di religione, ei si fece pitturare sul braccio delle belle anime del purgatorio che si voltolano nelle fiamme, e si tenne per aggiustato col cielo.

In questo mentre, il lastrico della città gl’insegnava non poche cose.

In contatto col mondo, messo a limite nelle sue inclinazioni, subendo di già la legge del più forte, alle prese con i bisogni e con le aspirazioni che sorpassano sempre le latitudini della miseria e si slanciano in quelle del lusso, costretto ad osservare, a riflettere, ad attendere, egli studiava la città come il selvaggio studia le savanne.

Egli apprendeva a pensare senza accorgersene. E le lezioni non gli mancavano, perocchè il vizio, quando non è il delitto, e mica ancora la brutalità, diviene un gran maestro di scuola.

Il vizio è la lotta che si stabilisce fra quello che è regola per molti e quello che è ostacolo per taluni. Gabriele non conosceva la regola, perchè alcuno non gli aveva insegnato ciò che sia dovere e ciò che sia diritto; ma egli subiva l’ostacolo ed assottigliava la potenza del suo spirito per demolirlo. [p. 200 modifica]

Due fatti colpirono il suo spirito.

Un giorno, passando davanti al convento di Santa Maria Nuova, e’ vi vide accalcata una cinquantina di persone, vecchi storpi e cenciosi, e fanciulli di sette od otto anni sparuti e nudi. Tutta questa gente aveva un coccio smussato sotto il braccio. In aspettando, recitava il rosario ed uccideva i pidocchi. I fanciulli acchiappavano le mosche. Quello spettacolo divertì Gabriele: si fermò. Ad un tratto, la porta del convento si aprì, e vide comparir sulla soglia un frate estremamente grasso ed oleoso, il volto acceso ed inzaccherato di tabacco, di brodo e di vino. Due altri fraticelli, egualmente sporchi ma più giovani ed il viso più raffilato, seguivano fra Gaetano. Essi trascinavano un’immensa caldaia, nella quale si erano riuniti a sghimbescio i residui del pranzo di centosettanta monaci, formando così un pappalecco senza nome nel pandemonio culinario, di un colore indeterminato, di una forma indecisa e di un gusto cui la fame sola poteva far trovare tollerabile. Alla vista del pajuolo, i pater e le ave si perdettero in un cospettare sommesso scambiato tra i mendicanti, tarabussandosi a chi passerebbe il primo.

Su questo brontolare assordante, risuonò il vocione di fra Gaetano, che gridò:

— L’anima vostra! volete tenervi la lingua tra i denti?

E ciò dicendo, sollevava il suo scettro, — il lungo e profondo cucchiaio di cui si serviva per distribuir la pietanza. [p. 201 modifica]

La vista di quelle scodelle tese, risvegliò l’appetito di Gabriele. Egli vide passare i mendichi l’un dopo l’altro, ed avanzando insensibilmente, a misura che quelli che si allontanavano lasciavano posto, si trovò in faccia di fra Gaetano. Gabriele non aveva scodella; ei non distese la mano. Fra Gaetano lo sbirciò senza cospettare, poi lo sbirciò ancora grattandosi l’epidermide del collo. Ei prese da un paniere due pezzi di pane e di carne, e glieli gettò, dicendo:

— Ritorna domani.

Gabriele trovò il pane eccellente, la carne squisita, il monaco strano; osservò sulle labbra dei due fratocci un sorriso ch’e’ si permise di qualificar stupido, e se ne andò facendo capriole.

L’indomani e’ si disse:

— Poffar dio! poichè mi si dà un così buon pranzo per nulla e mi s’invita con tanta gentilezza, perchè non accetterei io l’invito di padre Gaetano?

Ed andò al convento.

Appena che fra Gaetano lo scorse, gli fece segno di aspettare e sollecitò a dispensar la brodaglia. Poi, quando Gabriele fu restato l’ultimo, fra Gaetano cavò fuori di sotto la tunica un bel pezzo di pane bianco ed un groppone di cappone non male in carne, e l’offerse all’avidità del garzoncello, carezzandogli paternamente la testa. Poi gli disse:

— A domani, piccolo.

Allettato in questa guisa, accolto di così buona grazia, attirato con tanta premura, carezzato, fe[p. 202 modifica]steggiato, Gabriele ritornò il terzo dì. Fra Gaetano gli sorrise. Quando tutti furono partiti, anche i due monaconzoli, fra Gaetano mise avanti gli occhi del figliuolo un piccione arrostito ed un pane bianco come l’ostia.

Gabriele entrò nel convento.

Scorse un minuto, e in un baleno lo si vide uscire, gittare ciò che il frate gli aveva regalato e salvarsi a gambe.

Gabriele non mendicò più.

E’ si accomodò di un altro mestiere.

Eravi a quell’epoca, in una piccola casa accosto al teatro di san Carlino, un uomo conosciutissimo chiamato llu si’ Michele2. Questi era intraprenditore di ladrerie, brevettato dalla polizia, — sì, brevettato dalla polizia, pagando patente!

Un prefetto della polizia di molto buon senso si era detto:

— Il furto è il sistema normale del governo napolitano. Eccetto il re che non ruba, — regnava allora Francesco I cui non bisogna confondere con Ferdinando II, — tutti gli altri rubano. In una società, bene o male organizzata, il furto è inevitabile, ed in una grande città come questa, impossibile ad evitare. Il furto è l’anarchia; io vado a governarlo. Il furto è indipendente e perciò degno di forca; io vado a farlo realista, a forzarlo a subir le leggi dello Stato ed a pagargli tributo come ogni altra cosa; la prostituzione, per esempio! Quando il furto sarà legale, sarà morale; [p. 203 modifica]quando esso sarà produttivo per il fisco e protetto dal fisco, esso non sarà più giacobino.

Egli tirò allora dal bagno un uomo che passava per aver del genio in questa categoria di delitti, lo fece trasferire a Napoli e gli disse:

— Ascolta. Ti lascio tre mesi per studiare la piazza e scegliere il tuo personale. Dopo questi tre mesi, tu sei responsabile di tutti i furti che si commettono nella città.

— Io?

— Sì, tu. Adesso ecco le condizioni che ti pongo. Io autorizzo il ladroneccio, ma non al di là del numero di furti commessi fin qui. Io ti do giurisdizione piena ed intera per impedire e reprimere le ruberie che non saranno commesse dai tuoi agenti; ma qualunque di cotesti agenti si lascierà sorprendere in flagrante dalla polizia, sarà severamente punito e perderà l’impiego.

— Io accomoderò codesto. Avviserò la polizia che avrà cura di allontanarsi.

— Ascolta il resto. Sul prodotto delle operazioni, sarà prelevato il cinquanta per cento per la nostra amministrazione. Sugli altri cinquanta, venticinque per te, venticinque per l’agente. Se c’inganni, la prima volta che ti prenderemo in frode, sarai impiccato. Ecco le mie condizioni. Accetti?

— Ma chi constaterà la frode? domandò Michele.

— Noi. Accetta o torna in galera.

— Accetto.

Tre mesi dopo, l’uffizio di Michele era istituito, [p. 204 modifica]e sei mesi più tardi, la sua amministrazione funzionava a meraviglia. Era l’amministrazione modello negli Stati di S. M. Siciliana. Il prefetto di polizia aveva legalizzato il furto.

Gabriele fu ammesso come soprannumero, da prima nella banda di coloro che vigilavano, poi entrò nel ripartimento dei furti di pezzuole da tasca. Ora, ecco cosa avvenne.

Gli austriaci che avevano occupato Napoli dopo il 1821, erano partiti nel 1827. I mercenari svizzeri li avevano sostituiti. Un giorno, un capitano svizzero passeggiava nella strada Toledo, ove Gabriele era di servizio. Il capitano aveva nella tasca un magnifico fazzoletto di seta delle Indie, a fondo bianco e larghe strisce rosse sui lembi ed una punta di quell’arnese usciva a civettar dalla saccoccia; stuzzicando l’avidità, da agente provocatore. Gabriele lo notò o lo fece notare al suo collaboratore, un giovincello di tredici o quattordici anni come lui. Questi disse a Gabriele:

— Sta in guardia, seguimi, io vado a fare il colpo.

E si slanciò. Gabriele guardava intorno.

Il ladroncello si avvicinò, passò di dietro allo svizzero, ed in un batter d’occhio la pezzuola fu tratta fuori. Ma restò aderente alla tasca dell’uniforme.

Il capitano, a quanto pare, più di una fiata rubato aveva attaccato il moccichino con una spilla all’uniforme. Infatti, dacchè si accorse che se ne andava, allungò la mano e prese pel braccio il piccolo delinquente. [p. 205 modifica]

Il capitano gli fece fare un mezzo giro e se lo menò d’incontro. Lo considerò un istante senza parlare, come se lo giudicasse mentalmente, poi piegò il ginocchio sinistro a terra, pose sull’altro ginocchio piegato ad angolo retto il braccio del giovanetto, l’innalzò, l’abbassò con forza sulla rotella. Il braccio del disgraziato era rotto in due come un ramo di legno morto! Il monello gittò un grido e cadde svenuto. Il militare si rialzò tranquillamente, scosse la polvere del suo calzone, guardò con aria soddisfatta le persone che gli avevan fatto capannello attorno, portò la mano allo shakò, salutò tutti e si allontanò in pace. Il popolo si disperse, il cuore stretto, e mutolo. Uno sbirro, che aveva tutto visto come gli altri spettatori, raccolse il fanciullo, lo trasportò alla prefettura di polizia, ove il commissario gli fece infliggere venticinque colpi di frusta, in seguito di che l’infermo fu mandato all’ospedale.

Gabriele, anch’egli, aveva tutto visto, anche i colpi di verga. Egli fece giuramento di non mai più rubare, di guisa che un frate mendicante lo corresse dal vizio della mendicità, un mercenario gli apprese il rispetto della proprietà: due violenze gli indicarono due doveri.

Gabriele aveva sedici anni.

Quando si è lazzarone, e non si ruba e non si mendica, non si ha altra risorsa che il lavoro. Ora, che può fare un lazzarone?

Si è scritto, e lo si ripete ogni dì, che tra il lazzarone ed il lavoro vi è incompatibilità e ripulsione naturale. Ciò non è esatto. Tra il lavoro [p. 206 modifica]del lazzarone ed il lazzarone non vi è equilibrio di salario, e per conseguenza il secondo è disgustato del primo. Ciò è molto, ma ciò non è ancora tutto.

Per compiere un lavoro qualunque, occorre che la natura e la società si diano la mano. La natura aveva tutto fatto pel lazzarone. Il lazzarone era forte, intelligente, sobrio, paziente, sopportava tutto, era abile, proprio a tutto, capace di tutto, anche di essere onesto! Col lazzarone non si aveva neppur bisogno di parlare: un segno, un muover d’occhio, ed egli aveva capito. La natura era stata larga per quest’organizzazione primitiva. Ma la società? Madrigna!

Non scuole, non conservatorii, non istruzione, non associazioni, non opifizi, non maestri, non assistenza, non asili d’infanzia, nè casse di risparmio, non istrumento di lavoro, non istruzione professionale.... nulla, nulla per rilevare l’uomo sopra il livello del produttore della forza bruta, la macchina. La società incivilita gli aveva venduto una gerla, ed ecco tutto.

Ora, questa gerla — la sporta — era tutto un mondo pel lazzarone.

Aveva bisogno di portare un fardello? la gerla gli serviva di carrettello. Pioveva? la gerla gli serviva di paracqua. Aveva sonno? la gerla gli teneva luogo di origliere. Voleva sedere come un sibarita? e’ si faceva una poltrona della gerla. Vi si coricava dentro, vi dormiva sopra, vi si nascondeva dietro per procurarsi dell’ombra.... L’uomo e la gerla si completavano, s’identificavano talvolta; erano inseparabili. [p. 207 modifica]

Vi sono degli uomini, le cui funzioni sociali sono limitate a produrre la ventesimasesta parte di una spilla, od a girare una ruota per tutta la loro vita, e finiscono per diventar bruti. Perchè quest’altro bruto, il lazzarone, che era aggiogato per tutta la sua vita ad un fardello ch’egli doveva portare sulla testa o sulle spalle, perchè diveniva esso filosofo? Imperciocchè, se il lazzarone non sapeva leggere, e’ pensava; quando lo si credeva addormentato, meditava; quando lo si credeva indifferente, sentiva. Del resto è presso a poco la legge generale di tutti gli schiavi e di tutti i servi; essi non fanno che recitare la parte dello stolido. Ecco perchè il lazzarone ragionava poco, parlava per imagini, almanaccava molto. La folle du logis era sempre all’erta in quel cervello ben costruito e mal intonacato.

Il lazzarone non esiste più. Domani sarà elettore.

Ma ritorniamo a Gabriele.

I viaggiatori che arrivavano di provincia, mettendo il piede nella capitale, erano innanzi tratto sicuri di avere a sostenere una lotta col lazzarone. Quando la carrozza passava la barriera della gabella, una mezza dozzina di lazzaroni vi si aggrappava attorno come bruchi, sostenendosi ad ogni punto di appoggio che la vettura offrisse loro. Circondata da questa guardia del corpo, la carrozzaccia entrava trionfalmente in città. Il cocchiere andava dritto alla sua locanda e depositava le sue vittime sul lastrico. Ma queste povere vittime, appena sottrattesi all’imperio del cocchiere, [p. 208 modifica]cadevano immediatamente sotto il potere del lazzarone.

Il potere del lazzarone sulla sua pratica era così esteso, così irresponsabile come quello dello Czar su i suoi sudditi; non vi era che l’insurrezione che lo limitasse. Con un colpo d’occhio rapido ed intelligente il lazzarone giudicava il suo cliente, lo valutava come se lo avesse conosciuto da vent’anni. Dopo questo apprezzamento e’ si disponeva ad agire. La conclusione di questo ragionamento era del resto assai semplice: aver dei danari con o senza accompagnamento di busse.

Le busse non entravano in conto: erano una cosa sì abituale, che col tempo era divenuta natura.

I lazzaroni che avevano accompagnato la vettura si gittavano dunque immediatamente sul bagaglio e si distribuivano i colli. Che l’uno o l’altro pigliasse una pesante valigia, un sacco da notte, un bastone, un porta-capello o una canna di pipa, importava poco. Era una buona o una cattiva fortuna, ecco tutto. Ma colui che si era impossessato del bastone si guardava bene di caricarsi per sopra più del paraacqua. Ciò sarebbe stato un invadere i dritti del compagno, un violare il dritto di proprietà, il dritto al lavoro, il dritto al salario..... ed il lazzarone, che non aveva alcun dritto, li rispettava tutti.

Quanto al viaggiatore, e’ non poteva più toccare alle sue cose: lo avrebbero bastonato. Imperciocchè ciò sarebbe stato «un rubare la povera gente [p. 209 modifica]la quale non aveva che quello per vivere!» Se il viaggiatore aveva l’aria un po’ determinata, gli si faceva la grazia di lasciargli scegliere il suo albergo. Diversamente, il povero provinciale doveva stimarsi felice di correre a tutte gambe dietro ad una mezza dozzina di lazzaroni che, essendosi impadroniti dei suoi bagagli, lo avrebbero condotto in America. Lo conducevano ove volevano — e sempre male.

Arrivati a destino, i lazzaroni, sempre rispettosi fin là, prendevano una cert’aria di dignità. Se erano sei, uno solo entrava nella camera, gli altri restavano alla porta. Il viaggiatore faceva un calcolo più meno giusto e pagava. Ei credeva pagar tutto. Il lazzarone guardava la moneta ricevuta, la voltava e rivoltava nella palma della mano, squadrava la sua pratica dalla testa ai piedi, alzava infine le spalle con disprezzo ed usciva. Il viaggiatore respirava.

Ma ecco che il secondo si presenta.

— Eccellenza.....

— Cosa è?

— Ebbene!, ma io vi ho portato il vostro sacco da notte, io.

— Eh! ma io ho pagato il tuo camerata per tutti. Domandagli la tua parte.

— Che cosa mi riguarda ciò, a me? Conosco io forse il mio camerata, io? Vi aveva io detto di dargli la mia parte, io?

Il viaggiatore pestava, e poi pagava ancora e respirava di nuovo. [p. 210 modifica]

— Eccellenza, il povero facchino che ha portato il vostro baule.

— Come, il mio baule? Ma io ho pagato. Ne ho anzi pagato due.

— È impossibile, ma me no, eccellenza.

— Te, te, te ho pagato per tutti. Va al diavolo.

Il lazzarone che aveva cominciato per dar dell'eccellenza al suo paziente, abbassa di un grado i titoli.

— Ma signore, io non posso andare al diavolo prima che non mi abbiate pagato. Io mi sono slogato le ossa per trascinare il vostro miserabile cassettone. Credete che ciò sia per i vostri bei baffi da carbonaro, eh?

— Io non do più un soldo. Fuori di qui!

— Tu ti burli di me dunque eh! il calabrese? Io ho gittata la mia anima a carreggiare il tuo lurido cataletto, e tu mi pagherai.

— Io non pagherò più nulla, no, no. Esci all’instante, se no.....

— Ed io ti ripeto che tu mi pagherai o per la Vergine del Carmine, il sangue va a scorrere a lava.

Il viaggiatore cospettava ancora e pagava.

Il quarto si presentava. E là, nuova disputa sul prezzo, mista a bestemmie, a gesticolamenti, a minacce, a lazzi, ad ironie fine ed insolenti dalla parte del lazzarone che è il minchionatore il più fino e il più insolente che io mi conosca. Egli aveva inoltre un disprezzo imperiale per tutte le genti della provincia, cui addimandava di un sol [p. 211 modifica]nome: calabresi. Come per gli antichi romani, tutto ciò che non era della loro capitale era barbaro.

In una parola, il viaggiatore doveva pagarli tutti, subire i loro insulti, talvolta le loro busse. Ma egli arrivava altresì qualche volta che il viaggiatore si ribellasse e desse un calcio o uno schiaffo. Allora un combattimento in regola s’impegnava. Egli era insorto troppo tardi! Così, tutti coloro ch’egli credeva partiti ritornavano, ed un tafferuglio cominciava, in cui si rompeva tutto, compreso la testa del viaggiatore.

Ma come fare, mi domanderete, per evitare questo inconveniente?

Il metodo era semplice. Bisognava dare uno schiaffo, senza fiatar sillaba, al primo che toccava al vostro bagaglio prima di ricevere i vostri ordini. Il lazzarone capiva all’istante che egli aveva a fare con un militare, con un pezzo grosso del governo, o con un uomo determinato che conosceva i procedimenti onesti, e diveniva umile come agnello. Egli era sovente anche rubato dal suo cliente.

Gabriele faceva quel mestiere al Ponte della Maddalena, da dove arrivano i Calabresi, gli uomini i più irruenti delle provincie del regno. Gabriele si caricava raramente di un mobile pesante: per conseguenza e’ correva più ch’altri il rischio di ricevere un pugno od un calcio, quando si presentava l’ultimo per domandare il prezzo del porto di una frusta o di una bottiglia vuota. Ora, ciò gli arrivò così spesso ch’e’ finì per pren[p. 212 modifica]dere il mestiere in disgusto. Imperocchè, se la polizia non interveniva punto per proteggere il viaggiatore contro l’aggressione dei lazzaroni, essa interveniva meno ancora per proteggere il lazzarone contro le batoste e le scroccherie del viaggiatore. Poi, Gabriele divenne adulto, ed una rivoluzione morale si era operata nel suo carattere.

Egli amava.

Note

  1. Io parlo dell’epoca prima del 1847; il lettore non obblii questa data in tutti i dettagli.
  2. Il sor Michele.