Il crowdsourcing tra necessità di coordinamento e perdita di controllo/Capitolo 2 – Marketing applicato

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Capitolo 2 – Marketing applicato

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Capitolo2 – Marketing applicato[modifica]

2.1. Introduzione[modifica]

Nella prima parte di questo capitolo si trattano alcuni ambiti teorici di interesse: il marketing territoriale e turistico (definizioni, modalità di sviluppo di un Sistema Locale Territoriale tra strategia e percezione) per approdare al concetto di marketing relazionale e collaborativo; il web 2.0, i social network e il loro utilizzo in una strategia aziendale di social-media marketing (strategia tratteggiata nell’approccio e nelle prassi concrete di attuazione). Infine si affronteranno le tematiche di esperienza mediata e micro-sfera pubblica.

2.2. Marketing territoriale e turistico[modifica]

Il marketing territoriale è un non-profit marketing che ha come oggetto il territorio e il cui obiettivo non è massimizzare i profitti ma assicurare e migliorare il benessere collettivo (Ciciotti e Rizzi, 2002).
Non esiste una definizione univoca di marketing territoriale, in quanto ogni autore ne sottolinea aspetti specifici. Qui se ne presentano alcune1.
Raffaele Cercola parla di “processo finalizzato alla creazione di valore per una collettività composta dall’insieme di individui che fruiscono di un territorio” (Cercola, 1999, in Guercini e Ranfagni, 2009); Matteo G. Caroli ritiene che il marketing territoriale costituisca “un’intelligenza d’integrazione e di fertilizzazione delle componenti tangibili e intangibili del territorio” (Caroli, 2003, in Guercini e Ranfagni, 2009).
Più nello specifico, Massimiliano Vesci afferma: “il marketing territoriale piuttosto che costituire quell’attività volta all’attrazione degli investimenti su una determinata area, rappresenta quel processo relazionale, strategico ed operativo attuato da un ente territoriale, un’agenzia a capitale pubblico, ecc. singolarmente intesi o in accordo fra loro […] finalizzato ad indurre uno sviluppo ordinato, coordinato e coerente di un’area predeterminata” (Vesci, 2001, in Gilodi, 2004, 10).
Gianfranco Corio, d’altro canto, definisce il marketing territoriale come “attività organizzata che aiuta i decisori politici a definire le strategie per rendere attrattivi i [p. 46 modifica]territori, ad effettuare interventi finalizzati ad incrementare l’importanza ed il pregio delle zone e ad orientare le offerte in linea ed in stretta connessione con la vocazione2 del territorio, con l’obiettivo di valorizzare le opportunità preesistenti ed anche in funzione dell’innovazione delle condizioni presenti" (Corio, 2005, 8).

Alla relativa voce Wikipedia attualmente si legge: "per marketing territoriale si intende quel complesso di attività che hanno quale specifica finalità la definizione di progetti, programmi e strategie volte a garantire lo sviluppo di un comprensorio territoriale nel lungo periodo 3.
Al concetto di marketing territoriale è legato dunque il concetto di sistema locale territoriale (SLT): secondo Ciciotti e Rizzi, un SLT è costituito dal sistema produttivo di una zona, congiunto a infrastrutture e servizi, alla qualità della vita e dell’ambiente.
Guido, Peluso e Pace aggiungono: un SLT è composto dal raggruppamento di attori pubblici e privati (definiti cluster) che presentano tre tipologie di affinità: affinità da un punto di vista fisico (dimensione spaziale), da un punto di vista economico commerciale (dimensione economica) e da uno sociale, culturale e istituzionale (dimensione sociale). Ciciotti e Rizzi precisano però come, in seguito alla globalizzazione, un sistema territoriale non sia necessariamente caratterizzato da continuità fisica, ma possa seguire una logica delle reti (sia essa definita da una grande impresa organizzata a rete o una rete di Piccole-Medie Imprese).

In seguito alla globalizzazione dell’economia e all’apertura dei mercati mondiali, inoltre, il territorio è diventato un soggetto economico che opera in un ambiente altamente competitivo. I SLT devono essere presenti nel mercato globale, comunicando e valorizzando le ricchezze specifiche: il marketing territoriale si pone come uno strumento di promozione del territorio e di stimolo allo sviluppo locale. “Gli strumenti attivati per sviluppare i territori sono significativi e raggiungono gli scopi fissati se definiscono il sistema degli elementi di tipicità in essi contenuti; tali fattori, a loro volta, permettono ai territori di distinguersi gli uni dagli altri e conferiscono loro una collocazione esclusiva” (Corio, 2005, 15). [p. 47 modifica]Kotler, Heider e Rein individuano fattori interni ed esterni ai territori stessi che renderebbero necessario l’utilizzo del marketing territoriale. In relazione ai primi, la causa principale è rappresentata dal "ciclo di vita" di una città, che vede naturalmente alternare periodi di crescita (city growth dynamic) al proprio declino (city decay dynamic). Le cause esterne sono, invece, individuate nel repentino cambiamento tecnologico, nella competizione globale, e nei cambiamenti verificatesi entro i livelli di potere politico, non solo entro i confini statali (Gilodi, 2004).

Il marketing territoriale applica le nozioni e gli strumenti del marketing tradizionale al territorio e ai suoi attori allo scopo di incrementare il valore e l'attrattività di uno specifico territorio. Si tratta però solo di assumere gli schemi metodologici di una disciplina, senza incidere sulla finalità pubblica delle politiche (Latusi, 2002, in Ciciotti e Rizzi, 2002).
L'offerta è data dal bene territorio e da prodotti/servizi (tangibili ed intangibili) ad esso legati; la domanda è data da residenti e imprese locali (marketing interno), dagli investitori esterni, dai turisti e dagli abitanti potenziali (marketing esterno).
Come spiega Corio, "gli attori rappresentativi dei territori sono sia interni che esterni; tale distinzione è particolarmente importante per quanto riguarda le iniziative e le azioni da attuare per soddisfare bisogni ed esigenze eterogenee e per sviluppare opportune politiche di comunicazione" (Corio, 2005, 6); il marketing territoriale interno ha la funzione di suscitare affidamento e sicurezza negli utenti locali e di realizzare le loro aspettative, mentre il compito del marketing territoriale esterno è quello di attrarre e fidelizzare gli investitori, i turisti, i nuovi residenti (Corio, 2005).
A questo quadro si devono aggiungere le amministrazioni, che assumono un ruolo strategico da due punti di vista (Vatinno, 2004). Da un lato, esse sono titolari di informazioni legate al territorio e rappresentano un’interfaccia con il mondo imprenditoriale. Dall’altro, esse detengono un forte potere di indirizzo e di pianificazione delle politiche per lo sviluppo.

Il marketing territoriale comprende tutte le attività volte a far incontrare l'offerta di un SLT con la domanda emergente/potenziale, allo scopo di massimizzare il funzionamento sociale ed economico dell’area considerata. Dato che un SLT è un’entità territoriale complessa, che, come si è detto, viene fruita simultaneamente da diverse [p. 48 modifica]tipologie di utenti, ai fini dello sviluppo locale non basta agire dal lato dell’offerta, ma bisogna intervenire anche dal lato della domanda.
La domanda è influenzata dalla percezione soggettiva che le diverse tipologie di fruitori hanno di un SLT, e deve quindi esistere una relazione di continuità tra identità e immagine percepita4.
Secondo Guido, Peluso e Pace, l’identità di un SLT è determinata da specifiche tipologie di risorse e competenze presenti al suo interno (che lo qualificherebbero come sistema a vocazione industriale o turistica). L’immagine percepita dipende, invece, da come è colto il SLT dagli utenti. Gli autori operazionalizzano l’immagine percepita tramite il concetto di personalità che deriva dal mix territorialmente specifico di 5 fattori: amicalità, apertura mentale, coscienziosità, energia, stabilità emotiva (Guido, Peluso e Pace, 2008).
La coerenza tra identità e immagine percepita dei SLT, continuano gli autori, è obiettivo e requisito delle politiche di marketing territoriale: è necessario cercare di mantenere tale coerenza agendo sia dal lato dell’offerta tramite investimenti volti a incrementare il patrimonio di risorse esistenti, che dal lato della domanda tramite azioni di promozione sviluppate intorno a specifici fattori distintivi (Guido, Peluso e Pace, 2008).
Un marketing di questo tipo è un marketing relazionale, che ha bisogno di creare e consolidare un sistema di relazioni durature a scopo cooperativo tra soggetto offerente e soggetto acquirente (Ciciotti e Rizzi, 2002). Ed è proprio la coerenza tra identità e immagine percepita che attiva e sedimenta da parte degli utenti quel meccanismo di credibilità e fiducia sul quale è possibile costruire relazioni durature nel tempo. Credibilità e fiducia sono infatti le precondizioni di ogni comunicazione efficace. Tuttavia esse sono frutto di un processo continuo di contrattazione simbolica, grazie al quale gli utenti verificano costantemente tale coerenza. La costruzione della coerenza tra identità e immagine impone dunque degli obblighi, delle attese da soddisfare (Grandi e Miani, 2006). [p. 49 modifica]Il marketing territoriale diventa dunque lo schema metodologico per la progettazione, implementazione e valutazione delle politiche locali, volte a rafforzare il tessuto economico esistente, sviluppare nuova imprenditorialità, diffondere competenze e innovazione, attrarre potenziali utenti (Ciciotti e Rizzi, 2002).
Kotler, Haider e Rein individuano quattro attività di cui si occupa il marketing territoriale: (a) progettazione di un adeguato mix di beni e servizi territoriali; (b) predisposizione di incentivi per gli utenti ed acquirenti attuali e potenziali di beni e servizi locali; (c) miglioramento dell’accessibilità dei beni territoriali; (d) promozione dei valori e dell’immagine della città affinché i potenziali utenti siano pienamente consapevoli dei vantaggi distintivi offerti (Kotler, Haider e Rein, 1993, in Gilodi, 2004, 18).
In questo caso, secondo Ciciotti e Rizzi, il marketing mix è così composto:

  • prodotto = territorio;
  • prezzo = componenti economico finanziarie;
  • politiche distributive = azioni di produzione/consumo territoriale;
  • promozione = azioni di costruzione dell’immagine del territorio.

Questo tipo di marketing prevede una pianificazione strategica, ovvero un nuovo modo di programmare le politiche locali in un’ottica di promozione alla crescita e in un orizzonte di medio-lungo periodo (Ciciotti e Rizzi, 2002). Il maggiore elemento di novità è la presenza di un principio di governance locale, il governo partecipato del territorio tramite la pianificazione dal basso e la collaborazione tra enti locali di diversa scala, associazioni di categoria, realtà sociali e culturali. Muta così il ruolo delle istituzioni: "occorre affiancare la promozione di possibili alleanze dal basso in grado di mobilitare gli attori locali, superando le politiche redistributive a pioggia a vantaggio delle politiche di contesto" (Ciciotti e Rizzi, 2002, 5). Ecco quindi il quadro in cui si pongono le politiche wikicratiche di Cottica, delineate nel primo capitolo.
Un piano di marketing, strutturato secondo i principi sopra descritti, è composto dalle seguenti sei fasi: (1) analisi di mercato e posizionamento competitivo tramite analisi [p. 50 modifica]SWOT5 e studio dei fattori attrattivi (audit interno ed esterno), (2) segmentazione della domanda attuale e potenziale, (3) definizione degli utenti di riferimento grazie all’analisi dell’interazione tra domanda e offerta, (4) definizione dell’offerta attuale e potenziale (è questa la fase che più si lega ai processi di emersione e costruzione delle politiche di sviluppo locale, fase durante la quale si valutano le possibili alternative su cui puntare), (5) elaborazione del piano operativo di marketing con discussione partecipata di tutte le componenti interessate (soggetti economici e sociali, enti locali e cittadini), e (6) implementazione del piano operativo e avvio delle politiche di comunicazione/promozione del territorio. Il marketing territoriale diretto alla promozione del turismo segue le stesse fasi.
L’immagine del prodotto turistico ha però una caratteristica singolare: essa è connotata da fragilità intrinseca, dovuta alla vulnerabilità dell’esperienza turistica. "La percezione del prodotto turistico […] può cambiare nel tempo per i mutamenti della domanda degli utenti o le performance dei concorrenti. Ciò richiede una continua riformulazione e ridefinizione del prodotto" (Ciciotti e Rizzi, 2002, 20). Questo incide sulle politiche di costruzione di immagine del territorio: l’immagine del prodotto turistico, intesa come insieme delle rappresentazioni mentali delle sue caratteristiche, reali o fittizie, presso un dato pubblico, diventa il fattore principale nella politica di marketing territoriale per il turismo. Ne dipende inoltre non solo l’aspettativa del turista, ma anche il consolidamento del senso di appartenenza degli operatori turistici.
Non solo è necessario verificare la coerenza tra immagine percepita e offerta turistica effettiva, pena la perdita di credibilità, ma ci deve essere coerenza anche tra immagine del territorio e immagine del prodotto specifico: la coerenza rafforza la scelta e la continuità della preferenza del turista. Ne deriva l’esigenza di attenzione ai canali informativi attraverso cui le immagini circolano, e di programmazione di politiche di comunicazione specifiche, tramite il cosiddetto piano di comunicazione.
Tale piano di comunicazione è costituito dalle seguenti azioni: analisi dell’immagine percepita, definizione degli obiettivi, identificazione dei gruppi di interesse, scelta dei [p. 51 modifica]canali e definizione del budget, individuazione del mix promozionale e coordinamento dell’insieme delle azioni. Le finalità delle politiche di comunicazione comportano

  • obiettivi di riconoscimento (risposta cognitiva);
  • obiettivi di adesione (risposta affettiva);
  • obiettivi di mobilitazione (attivazione).



Ciciotti e Rizzi affermano che "proprio per questi aspetti si definisce il marketing territoriale e in particolare quello legato alle attività turistiche, come marketing di tipo relazionale, che prevede interazione […] tra individui" (Ciciotti e Rizzi, 2002, 21). Deve esistere un rapporto di partecipazione nella condivisione di un giudizio sul territorio, non limitabile al semplice processo di consumo partecipato.

2.3. Web 2.0 e social-media marketing[modifica]

Quello di Web 2.0 è un termine-ombrello impiegato per indicare in generale uno stato di evoluzione di Internet (e in particolare del World Wide Web), rispetto alla condizione precedente (comunemente definita web 1.0). Si tende a indicare come web 2.0 "l’insieme di tutte quelle applicazioni online che permettono uno spiccato livello di interazione sito-utente"6; "la locuzione pone l’accento sulle differenze rispetto al cosiddetto web 1.0, diffuso fino agli anni novanta, e composto prevalentemente da siti web statici, senza alcuna possibilità di interazione con l’utente". Web 2.0 include tutti i generi di social media (blog, wiki, social network, piattaforme di microblogging), quelle "tecnologie e pratiche online che le persone adottano per condividere contenuti testuali, immagini, video e audio"7. I social media, permettendo condivisione di informazioni e contenuti, sono il motore di quel processo di democratizzazione dell’informazione descritto nel primo capitolo. Secondo Sergio Maistrello, il web 2.0 non identifica semplicemente un apparato tecnologico, ma un sistema di relazioni tra soggetti pari ordinati, o per dirla in altra parole, un "insieme interconnesso di tutti i punti di presenza personale" (Maistrello, 2007, 23), chiamati nodi. I collegamenti tra un nodo e l’altro sono relazioni, i contenuti sono [e creano] conversazioni. [p. 52 modifica]Roberto Zarro, per sua parte, afferma che il web 2.0 comprende "tutti quegli strumenti, soluzioni, tendenze e attitudini che […] fanno fortemente leva sul contributo diretto dei navigatori", ed è questo il "valore aggiunto potenzialmente offerto da ognuno di essi ai processi di comunicazione e condivisione" (Zarro, 2008, 70).
"Lo scambio di informazioni, la possibilità di appuntare le proprie considerazioni a margine degli interventi altrui, la volontà di riprendere e ampliare un’argomentazione nel proprio spazio personale fanno sì che questo scambio asincrono riproduca molte delle dinamiche che stanno alla base di un dialogo aperto. […] Ogni nodo della rete è origine e destinazione di informazione ma i due canali non sono mai separati. Al contrario ciò che è prodotto da ciascun nodo è spesso influenzato dagli stimoli che ha ricevuto da altri nodi, così com’è probabile che il suo contributo influenzi i contenuti altrui" (Maistrello, 2007, 23). È qui che si evidenzia la maggiore differenza con le tradizionali pagine statiche proprie del web 1.0, che producono monologhi, e i social media propri del web 2.0, che producono conversazioni spontanee, reticolari e inclusive.

I social media sono classificabili a seconda che siano prettamente media-centered (YouTube, Flickr), piattaforme di distribuzione di specifici prodotti mediali, o person-centered (un esempio tra tanti è Facebook), piattaforme “onnivore” che mettono al centro la persona e i suoi interessi, integrandone l’espressione tramite differenti modalità (Mazali, 2009).
I social network sono siti person-centered definibili, secondo la definizione di Boyd ed Ellison come servizi basati sul web che permettono agli individui di (1) costruire un profilo pubblico o semi-pubblico in un sistema delimitato, (2) creare una lista di altri utenti con i quali condividono una connessione, e (3) vedere e navigare la loro lista di connessioni e quelle fatte dagli altri all’interno del sistema (Boyd e Ellison, 2008).
I social network sono lo strumento per la cultura partecipativa "basata sull’importanza dei contributi individuali all’interno del gruppo/community e sull’instaurarsi di diversi livelli di connessione e sentimento sociale" (Mazali, 2009, 2).

Per uno studio sulla diffusione dei social network in Italia si può vedere una recente ricerca (pubblicata il 10 febbraio 2011) del LaRiCA8 (Laboratorio di Ricerca sulla [p. 53 modifica]Comunicazione Avanzata) del Dipartimento di Scienze della Comunicazione, Facoltà di Sociologia dell’Università di Urbino. Tra i dati ottenuti da questo studio emergono quali siano le attività su Internet degli italiani: il 59,30% utilizza i social network, mentre solo il 19% utilizza piattaforme di microblog come Twitter9.

Facebook è il social network più diffuso, e gode degli effetti di rete di cui parla Danah Boyd. Proprio per questo, comprende al suo interno utenti molto diversi per grado di attivazione: dai fruitori che lo utilizzano come semplice passatempo e mezzo per chiacchierare con gli amici a quelli più attivi che se ne servono per produrre/condividere contenuti in maniera più professionale.
Boyd sostiene che i giovani utilizzino Facebook principalmente per socializzare con amici pre-esistenti, per affermare se stessi e negoziare i rapporti sociali; al contrario gli adulti lo userebbero più come servizio (per esempio come strumento per recuperare vecchie amicizie).
Twitter è invece maggiormente usato "per diffondere notizie, come strumento di giornalismo partecipativo"10; è il social network più orientato alla partecipazione ad una pubblica piazza, e gli utenti lo usano per "diventare parte di un dialogo più vasto" (Boyd, 2009, 9): proprio per questo, secondo Boyd, Twitter sarebbe meno utilizzato da utenti giovani.
Friendfeed, infine, in Italia è ancora un social network di nicchia, utilizzato più dagli appassionati o dagli addetti ai lavori, ma i contenuti condivisi sono sia personali che professionali.

I social network sono tecnologie che permettono bassi costi di accesso/partecipazione per gli utenti, e in questo modo facilitano la conversazione tra persone e la creazione e condivisione di contenuti. Negli ambienti web 2.0 la pratica non può essere ridotta e limitata alla produzione di contenuto bensì sempre e comunque deve essere vista insieme al momento di upload/condivisione (Mazali, 2009). "Raramente gli abitanti della parte abitata di Internet creano contenuti destinati a rimanere isolati, giustificati [p. 54 modifica]dal solo fatto di esistere e non per il fatto di esistere in un ambiente reticolare" (Maistrello, 2007, 23).
Gli utenti sono classificabili in sei categorie in base al grado di attività svolta grazie alle piattaforme web 2.0: creator, critic, collector, joiner, spectator fino ad arrivare all’inactive (Mazali, 2009).
Nel suo libro, Maistrello afferma che "dentro la parte abitata della Rete non esiste cittadinanza passiva" (Maistrello, 2007, 55): la Rete, con i suoi strumenti di pubblicazione personale, apre a ciascuno l’opportunità di essere presente e esprimersi. Si tratta di quel fenomeno di amatorializzazione della pubblicazione/comunicazione descritto nel primo capitolo.
Boyd afferma che per chi si occupa di informatica, il concetto di web 2.0 evidenzia la necessità di un’interazione costante e costruttiva tra creatori e utilizzatori di tecnologia. Per la massa di utenti, invece, web 2.0 coincide con la riorganizzazione di pratiche web-based per l’interazione con gli amici: più che per vero e proprio networking, la maggioranza delle persone usa il web 2.0 per stare in contatto con persone che conosce già. A tal proposito l’autrice parla di effetti di rete, dell’importanza dei cluster: la gente sceglie solitamente le cose che i propri amici utilizzano. "Molti fra quelli che costruiscono tecnologie ritengono che il set di caratteristiche del prodotto sia la chiave di volta per la sua adozione e popolarità. Con i social media spesso non avviene così. Esistono alcuni elementi scatenanti in grado di spingere gli early adopters verso un certo sito, ma senza dubbio il fattore determinante è costituito dal fatto che esso rappresenti o meno lo spazio in cui i tuoi amici si ritrovano" (Boyd, 2009, 6).
Eppure, la Rete permette una potenzialità espressiva come mai è stato possibile precedentemente: "la condivisione del proprio bagaglio di sensibilità avviene all’interno di un ipertesto collettivo che promuove la partecipazione e incoraggia le relazioni tra persone che condividono interessi. Le idee si raccolgono, decantano negli archivi, si confrontano con il punto di vista dei lettori, vengono riproposte in altri siti se qualcuno le trova rilevanti, danno vita a discussioni collettive, infine tornano indietro arricchite e rielaborate" (Maistrello, 2007, 57). È quello che viene definito WOM (Word Of Mouth), il passaparola che influisce sulle scelte che le persone compiono, anche in relazione ai processi decisionali di acquisto/fruizione di un prodotto/servizio. [p. 55 modifica]L’utente/consumatore oggi è un "empowered consumer" (consumatore potenziato) principalmente grazie alla conoscenza che può ottenere dalla Rete. "La forza dell’empowering dipende dall’abilità nel saper scegliere le informazioni potenzialmente utili per valutare servizi o prodotti in competizione, e per soddisfare i suoi bisogni con il minor sforzo e perdita di tempo. Il consumatore empowered presenta una soglia di qualità attesa maggiore rispetto alla media, e manifesta il suo potere durante il processo di scelta" (Tassi, 2010).
La prima delle "91 discutibili tesi per un marketing sostenibile ai tempi di Facebook" di Gianluca Diegoli afferma: "il marketing è morto in quanto sono esaurite le due condizioni che lo nutrivano: primo, che le persone non potessero parlare facilmente e direttamente tra loro, secondo, che il canale di trasmissione fosse concentrato, semplice e direttamente controllabile" (Diegoli, 2009, 11).
In linea con questo concetto, Mafe DeBaggis evidenzia la necessità da parte dell’azienda di un cambio nella modalità con la quale si rapporta con i clienti, che non devono essere considerati soggetti passivi da manipolare, ma collaboratori a loro volta impegnati per il successo dell’azienda.
Diegoli specifica nella seconda tesi: "non è la vostra promozione, ma la vostra conversazione a differenziare il vostro prodotto, e provocare un acquisto" (Diegoli, 2009, 12). I social media possono essere lo strumento adatto per attivare un dialogo tra azienda e clienti, però DeBaggis sottolinea come essi rappresentino non semplicemente un nuovo canale di comunicazione aziendale, bensì "un modello sociale di organizzazione alternativa e indipendente dal medium utilizzato" (DeBaggis, 2010, 57). Si tratta di un marketing non solo relazionale ma anche collaborativo, un marketing che chiede alle imprese di pensare a come collaborare con i clienti e renderli parte integrante delle attività di marketing, al fine di massimizzare il valore sia per i clienti che per l’impresa (Sawhney, 2005, in Grandi e Miani, 2006).

Nel dibattito su questi temi, si è via via fatta strada una classificazione dei social network in tre differenti modalità, suddivise sulla base della tipologia dei contenuti veicolati e dalle dinamiche che regolano ognuno di questi canali: Paid Media, Owned Media e Earned Media. [p. 56 modifica]

a. Paid Media: sono i media sui quali l’azienda effettua un investimento per ottenere la pubblicazione di un messaggio, come l’acquisto di spazi pubblicitari all’interno di un social network. Questa modalità riscuote un basso livello di attenzione, ma possiede un’alta capacità di segmentazione e quindi la possibilità di veicolare un messaggio mirato.
b. Owned Media: sono i media posseduti dalle aziende e rientrano nella comunicazione corporate. In questa modalità rientrano i contenuti creati e condivisi dall’azienda al fine di coinvolgere consumatori attuali e potenziali. È necessario rispettare criteri di coerenza, trasparenza, reattività, ed è necessario che i contenuti forniti siano di effettivo valore e qualità. Se si osservano questi principi, la diffusione dei contenuti aumenta il livello di attenzione nei confronti dell’azienda, migliora la fedeltà alla marca, e contemporaneamente porta vantaggi di scalabilità.
c. Earned Media: sono i canali che accolgono la comunicazione spontanea che esprime giudizi di valore su un brand in conversazioni indipendenti dal brand stesso, ma con l’ausilio di persone che, senza remunerazione economica, si fanno medium dei contenuti prodotti dall’azienda. Questi media godono del contagio delle informazioni in Rete, del WOM.

Nella pianificazione della comunicazione di un social-media marketing va tenuto presente che i tre media devono fare parte di una strategia coerente e integrata, una sorta di approccio olistico dove ogni media supporta gli altri.
DeBaggis afferma che "utilizzare i media digitali per soddisfare contemporaneamente gli obiettivi di un’azienda e gli obiettivi dei clienti significa ragionare su come aumentare il capitale sociale ed economico di entrambi" (DeBaggis, 2010, 23) e suggerisce un percorso attuabile dall’azienda per utilizzare il potenziale dei social media: ascolto, presenza diffusa, informazione, servizio, socialità.

Il web 2.0 permette la disintermediazione tra azienda e utente e, da un lato, favorisce le piccole iniziative; ma, dall’altro, permette alle grandi aziende di entrare nei discorsi, di conoscere meglio l’opinione delle persone che costituiscono l’insieme dei propri consumatori. Il problema emerge, secondo Maistrello, nel fatto che non ci possono essere vie di mezzo nella gestione della comunicazione social, una comunicazione [p. 57 modifica]basata sulla conversazione. In concreto conversazione significa: (a) rispondere a domande e critiche con tempestività; (b) essere presenti nei dibattiti; (c) concepire l’ambiente di discussione come ambiente tra pari.
I social media si differenziano dalla comunicazione di massa uno a molti per l’eterogeneità dei messaggi: è quindi necessario per l’azienda stimolare ed entrare in una narrazione in cui tutti contribuiscono a fare avanzare la storia. Si tratta di uno storytelling partecipativo, che non può essere pianificato a priori: si possono definire gli aspetti di base, ma è poi necessaria una revisione continua delle strategie comunicative in base ai comportamenti emergenti delle persone. La forza della narrazione è la complicità tra interlocutori, che si basa su un patto di fiducia e interesse reciproco. Secondo DeBaggis, in una narrazione condivisa ci deve essere un social object, un nucleo di interesse comune tra gli interlocutori, che agisca da attivatore di conversazioni e relazioni. È necessario poi, a partire dal social object, trovare e negoziare un concept narrativo che racconti, con un linguaggio condiviso, ciò che le persone vogliono sapere ed esprimere dell’oggetto sociale.
A partire dalla narrazione condivisa è possibile sviluppare una community.
È doveroso sottolineare come le community nascano sempre dal basso, anche quando a proporle è un’azienda. Le community, infatti, essendo basate su una condivisione di valori e interessi, devono esistere almeno in potenza.
Le community on-line sono comunità immaginate, comunità che permettono a individui con interessi affini di percepire se stessi come parte di un gruppo. Tale concetto è stato delineato per la prima volta nel 1991 da Benedict Anderson (che lo aveva applicato al concetto di nazione): "an imagined community is different from an actual community because it is not (and cannot be) based on everyday face to face interaction between its members. Instead, members hold in their minds a mental image of their affinity"11.
Jedlowski (2005) descrive le comunità immaginate come comunità non basate su rapporti faccia a faccia e spesso temporanee o reversibili, dotate di effetti reali sulla coscienza e sui modi in cui i soggetti si comportano.
Come sostiene DeBaggis, è necessario al fine di una strategia aziendale sui social media, partire dall’analisi della realtà circostante ed individuare una community latente, [p. 58 modifica]in modo che l’azienda si faccia interprete di un bisogno sociale emergente. Per sviluppare una community l’azienda deve, inoltre, essere disposta a farne parte e rivedere il suo stile di comunicazione, essendo preparata a perdere il controllo sul messaggio che vuole veicolare. In Rete, continua l’autrice, è impossibile applicare una strategia basata sulla pianificazione perché le conversazioni sono emergenti, imprevedibili, e dunque non controllabili.
Il primo passo è ascoltare le conversazioni spontanee senza intervenire, per arrivare a costruire una mappa di temi, protagonisti e interessi relativi al posizionamento dell’azienda. L’azione conseguente deve essere trasparente e deve portare valore aggiunto alla conversazione. Inoltre è consigliabile intervenire non solo nell’ambito strettamente aziendale, ma partecipare alla vita della community, anche proponendo spunti che vadano al di là dell’interesse aziendale immediato, o partecipando a conversazioni altrui.
La presenza in Rete dell’azienda deve esprimere la personalità dell’azienda stessa (ciò che è in realtà, non ciò che vorrebbe apparire), deve essere trasparente e coerente con la percezione che ne hanno i clienti. In Rete l’azienda è percepita in base a quello che fa e che non fa (DeBaggis, 2010).
Cosa non fare: è necessario abbandonare meccanismi di manipolazione basati sulla seduzione ed abbracciare un nuovo tipo di comunicazione dialogica, trasparente, rispettosa ed aperta ai consigli.
L’interazione con la comunità può portare a diversi benefici, come la diffusione di passaparola spontaneo e la raccolta di informazioni sui bisogni e le preferenze degli acquirenti.
Se però l’azienda cerca di controllare o influenzare la community, i membri tenderanno ad abbandonarla. Inoltre, se una community diventa controllata, la sua natura diventa simile a quella dei canali di comunicazione tradizionali, e le potenzialità dell’interazione social saranno sprecate. Maistrello ricorda che le aziende, "abituate a considerare la Rete come una vetrina istituzionale o tutt’al più come attività afferente al marketing o alle pubbliche relazioni, sono andate incontro a diversi incidenti di percorso. L’errore più comune è cercare di far parlare un marchio attraverso un mezzo di comunicazione personale, col risultato che qualunque spontaneità, trasparenza e colloquialità cede ben presto il passo alla [p. 59 modifica]fredda comunicazione istituzionale, mentre i contenuti sono ignorati senz’appello dai lettori" (Maistrello, 2007, 108).
La reticenza all’apertura dell’azienda a un vero dialogo si fonda sulla questione della possibilità (o impossibilità) per un’azienda di essere effettivamente sincera. Tale trasparenza, infatti, per l’azienda comporta dei rischi. Eppure, far finta di niente non è la soluzione, perché i clienti possono esprimere comunque esperienze negative relative ad un prodotto o ad un’esperienza, e le loro opinioni saranno accanto al sito pubblicitario e unidirezionale sui motori di ricerca. Come afferma Diegoli: "la conversazione prenderà una forma che non dipenderà dalla vostra volontà, dalle vostre linee-guida e dalla vostra pianificazione – a meno che non vogliate farla emigrare altrove. In cui, comunque, di nuovo prenderà una forma non prevedibile" (Diegoli, 2009, 14) e "rinunciare a ospitare e incentivare la conversazione sul proprio sito significa spingerla a chiedere asilo in territori in cui non avete accesso o influenza" (Diegoli, 2009, 25).
Secondo Maistrello l’unica alternativa valida per un’azienda è oggi aprirsi alla comunicazione web 2.0. Certo esiste la possibilità che nei social media vengano postati commenti negativi, ma, dal momento che, se non sui canali dell’azienda, tali commenti trovano posto da altre parti, i social media offrono almeno l’opportunità per l’azienda di conoscerli e poter intervenire. Inoltre le critiche relative alla percezione del prodotto aiutano l’azienda a migliorare il suo posizionamento e il valore effettivo del prodotto/servizio che fornisce.
Trasformare le critiche in suggerimenti, secondo DeBaggis, è utile all’azienda per adottare un’ottica di re-branding: se si intende il brand come l’insieme simbolico di tutte le informazioni relative ad un prodotto/servizio (dal nome alle immagini correlate, alle aspettative delle persone che fanno parte della creazione del prodotto/servizio, fino alla percezione dell’utente), il re-branding è un processo tramite il quale viene verificata la corrispondenza tra promessa e effettiva fruizione del prodotto/servizio.

Gli obiettivi del social-media marketing devono essere qualitativi più che quantitativi. Non sono importanti tanto il numero di fan o di like, o il numero di partecipanti a un progetto: la visibilità, che in Rete è un valore più importante del denaro, si ottiene per merito. Relativamente alla misurazione dei risultati, Diegoli afferma che "il valore totale della vostra reputazione dipende più dalla qualità delle relazioni che stabilite nelle [p. 60 modifica]vostre conversazioni aziendali che dalla loro quantità" (Diegoli, 2009, 33) e che "nell’iniziare una conversazione, gli obiettivi aziendali devono essere in ordine di importanza per la comunità: ricevere un feedback per migliorare il prodotto e incentivare lo scambio diretto di informazioni tra gli utenti. Passaparola e posizionamento sui motori di ricerca verranno di conseguenza" (Diegoli, 2009, 16).
Secondo Grandi e Miani (2006), misurare la qualità delle relazioni, il capitale intangibile di un’impresa, in un’ottica di outgrowth, è importante perché esse sono lo specchio della possibilità di costruire/rafforzare relazioni a lungo termine tra impresa e stakeholders. Gli autori propongono una possibile scala di misurazione, basata su sei elementi di percezione dell’impresa:

  • mutualità di controllo, ovvero il grado di influenza reciproca tra impresa e stakeholders;
  • fiducia e apertura reciproca;
  • soddisfazione delle aspettative positive reciproche (una relazione soddisfacente è quella in cui i benefici superano i costi);
  • impegno continuativo e affettivo nel mantenimento della relazione;
  • relazioni di scambio attese sulla base di scambi passati;
  • relazioni di comunità in cui lo scambio di benefici è fine a se stesso.


Non esistono obiettivi intrinseci dei social media; come suggerisce DeBaggis, ciò che è misurabile è il contributo che i social media possono dare al ROI (Return On Investment12) tramite alcuni obiettivi di business, quali dialogo, advocacy, costumer-care e innovazione13.
E l’imprevedibilità delle conversazioni, implicita in una strategia di marketing tramite i social media, comporta che spesso i risultati non sono quelli attesi. L’importante è rendere visibili i risultati ottenuti, anche se diversi da quelli promessi. [p. 61 modifica]Lo IAB, Interactive Advertising Bureau, introduce il concetto di "credibilità dell’autore", "indispensabile per ricordare che […] il valore delle impression guadagnate dipende in larghissima parte dall’autorevolezza dell’autore" (DeBaggis, 2010, 162). La popolarità e la reputazione, in Rete, derivano dalla meritocrazia. Tale modello è giusto, sebbene non equo, per due motivi: come spiega Giuseppe Granieri, la popolarità è il risultato di una preferenza accordata non da una, ma da centinaia di persone; inoltre la popolarità va riconquistata ogni giorno. La popolarità è il risultato di una profonda interazione sociale. Granieri continua dicendo che "la popolarità di un blogger cresce (e diminuisce) quotidianamente in funzione di ciò che dice, di come stabilisce le sue relazioni. […] Il capitale ell’individuo in Rete coincide con il suo capitale culturale ed espressivo" (Granieri, 2004, in Maistrello, 2007, 94).
Il grado di reputazione, che deriva dal riconoscimento pubblico di autorità e fiducia, caratterizza quindi il proprio status digitale e "lo status si coltiva giorno dopo giorno dandosi da fare in prima persona e ragionando nell’interesse collettivo" (Maistrello, 2007, 55). Due sono le attività fondamentali: creare e condividere. "Conta quello che creo, il mio sguardo sulle cose e la rappresentazione personale della complessità che mi circonda. E conta quello che condivido, ovvero ciò che sono disposto a mettere in circolazione col minor numero di vincoli possibile" (Maistrello, 2007, 55).
Questo ragionamento è utile anche per la progettazione della comunicazione dell’azienda stessa, per la definizione del proprio stile discorsivo e la propria strategia. Una nuova tipologia di cliente comporta infatti un nuovo tipo di marketing. Diegoli propone le nuove 4P del marketing: prodotto, passione, personalità e pazienza (DeBaggis, 2010, 119).

Esistono comunque studi che cercano di indagare il valore e la misurabilità della conversazione.
Vengono utilizzati a tale scopo parametri tecnici di diversa natura, che aiutano a capire l’estensione e la profondità di una discussione in atto circa un determinato argomento e il relativo grado di coinvolgimento dei consumatori (Tassi, 2010):

  • La dimensione della conversazione, misurata in numero di siti, numero di link e visitatori dei siti inclusi nella conversazione; [p. 62 modifica]
  • La pertinenza del sito, misurata come la densità di conversazione dei post riconducibili alla conversazione;
  • La credibilità dell’autore, misurata con il numero dei post pertinenti alla conversazione, numero di link verso quei post, data del post più vecchio e più recente, e intervallo tra i due;
  • La freschezza dei contenuti, misurata da parametri temporali riferiti ai post.


Cosa fare per attuare una strategia di social media marketing? La prima cosa è osservare e ascoltare per capire con chi si ha a che fare; la progettazione della piattaforma di comunicazione social dovrebbe essere solo l’ultimo step, in quanto deriva dalle caratteristiche delle persone che si vuole coinvolgere, dai loro bisogni, desideri, abitudini, modi di relazionarsi con l’azienda (DeBaggis, 2010). Ciò che sta in mezzo è un cambio di prospettiva da parte dell’azienda, una serie di transizioni nel modo di pensare aziendale, che DeBaggis riassume in questa tabella (DeBaggis, 2010, 60):

Pianificazione Collaborazione
Controllo Fiducia
Identità Reputazione
Immagine Personalità
Creatività Narrazione
Dispersione Aggregazione
Latenza Partecipazione
Utenti Persone
Target Community
Capitale economico Capitale sociale


Secondo DeBaggis, far crescere una comunità vuol dire costruire un vero e proprio ambiente che sia in grado di stimolare e facilitare la creazione di contenuti di valore prodotti da parte delle persone che popolano quell’ambiente. Scopo dell’azienda è quindi creare le condizioni che permettano al comportamento spontaneo di emergere e crescere. [p. 63 modifica]In un’ottica di stakeholder management, gli stakeholders assumono quattro ruoli fondamentali (Grandi e Miani, 2006):

  • rappresentano fonti di aspettative riguardo ai caratteri in base ai quali una performance dell’impresa può essere ritenuta desiderabile, determinando le conseguenti norme di comportamento aziendale;
  • sperimentano gli effetti del comportamento aziendale, ossia costituiscono i destinatari delle azioni dell’impresa e i relativi risultati;
  • valutano il grado con il quale i risultati dell’impresa riescono a soddisfare le proprie aspettative e forniscono all’impresa un feedback relativo al suo comportamento;
  • agiscono, di conseguenza, nei confronti dell’impresa secondo i propri interessi e le proprie aspettative, esperienze e valutazioni.


L’azienda deve instaurare una relazione con tre tipologie di interlocutori: clienti attuali, clienti potenziali e influenzatori.
Con i primi si tratta di una relazione "a metà tra il costumer-care avanzato e la fidelizzazione" (DeBaggis, 2010, 117); l’elemento più importante è la volontà di ascoltare critiche e suggerimenti.
È invece più complesso creare una relazione con il secondo tipo di interlocutori tramite i social media, "a meno che il prodotto non sia molto caratterizzato emotivamente" (DeBaggis, 2010, 117): la strategia si deve basare sull’aumento di informazione relativa al prodotto/servizio proposto e sulla facilità di essere trovati, la cosiddetta findability.
Il vero potenziale dei social media si realizza con il coinvolgimento della terza categoria di interlocutori, gli influenzatori, ovvero persone che godono di popolarità e buona reputazione, che spontaneamente parlano del prodotto/servizio.
Gli influenzatori sono una "categoria di utenti che gode di alta Authority e di alto Trust" (Tassi, 2010), i parametri da cui dipende il grado di influenza presso la propria rete sociale. Gli influenzatori sono il motore del WOM, il diffondersi attraverso una rete sociale di informazioni e/o consigli tra consumatori14.
DeBaggis accoglie la differenziazione (ideata da Gladwell e ripresa da Forrester) dei Mass Influencer tra Mass Connectors e Mass Mavens. I primi sono coloro che "hanno [p. 64 modifica]relazioni con grandi quantità di persone sui social network"; i secondi sono "persone competenti che hanno informazioni utili da mettere a disposizione degli altri" (DeBaggis, 2010, 144).
Secondo DeBaggis la strategia di coinvolgimento degli influenzatori nella comunicazione dell’azienda è la strada che ha maggiore impatto e ROI, ma è anche la più difficile. Se si desidera che gli influenzatori abbiano voglia di condividere il messaggio con gli amici, il prerequisito è che il contenuto del prodotto/servizio sia realmente interessante e utile. È consigliabile inoltre che il messaggio sia modificabile, permettendo agli influenzatori di trasmetterlo alla propria rete con il proprio linguaggio. Tale strategia ha successo, inoltre, solo se si evitano le scorciatoie, come cercare di comprare gli interlocutori: la viralità non può essere comprata, può al massimo essere facilitata e indirizzata, tramite strategie derivanti dal cosiddetto BuzzMarketing, strategie che però non devono essere ingannevoli. Per esempio è necessario distinguere chiaramente tra contenuti prodotti dall’azienda (definiti EGC, Enterprise Generated Content) e gli UGC veri e propri.

È necessario inoltre non abbandonare un’ottica di costumer-care: è importante prendersi cura degli interlocutori e rispondere alle richieste e domande. DeBaggis chiarisce: "spesso si trascura un’attività in cui i clienti vengono da te a chiedere esplicitamente aiuto o consiglio a favore di attività in cui sei tu/azienda che cerchi disperatamente di farti ascoltare e dare aiuto e consiglio" (DeBaggis, 2010, 201). Inoltre le mail e le richieste degli utenti costituiscono un’opportunità per incentivare il dialogo e sapere cosa realmente essi pensano del prodotto/servizio fornito.
È l’approccio definito Customer Relationship Management (CRM), processo grazie al quale, invece di trattare gli utenti come semplice target, si cerca di personalizzare l’interazione con i singoli, sviluppando quindi relazioni (Tassi, 2010). In particolare il costumer-care potrebbe rientrare in quella strategia di CRM collaborativo o social (SCRM), che è composta dalle metodologie e tecnologie integrate con gli strumenti di comunicazione (e-mail, chat, forum, social network) per gestire il contatto con gli interlocutori15. [p. 65 modifica]DeBaggis evidenzia alcune accortezze pratiche per l’applicazione di una strategia di presenza in Rete. In primo luogo è necessario fornire un palinsesto vario: la presenza on line deve essere in grado di interessare code diverse per interessi e modalità di comportamento. In secondo luogo i contenuti e linguaggio devono essere adeguati all’obiettivo di invito ad una conversazione collettiva: i contenuti devono essere modificabili e facilmente ripubblicabili; il linguaggio, indicatore di affinità tra interlocutori, deve essere coerente con la situazione. In terzo luogo è necessario fare attenzione ai social pattern e agli standard di riferimento: ogni tecnologia trova il suo scopo in base agli usi che ne vengono fatti e le intenzioni di chi sviluppa una tecnologia devono potersi piegare e modificare in base agli utilizzi reali degli interlocutori. Inoltre è sconsigliabile progettare da zero un’interfaccia, in quanto l’utilizzo di standard riconoscibili è segno di rispetto per le aspettative degli interlocutori: come sottolinea DeBaggis, l’innovazione richiesta è culturale e di atteggiamento, non tecnologica.
Infine è necessario impostare alcune regole di base per la vita della community: "ogni community […] dovrebbe avere come obiettivo la definizione progressiva di un set di usi e consuetudini, [di regole esplicitate] che è sentito come proprio dai partecipanti" (DeBaggis, 2010, 166). L’autrice è consapevole del fatto che la Rete difficilmente accetta regole imposte dall’alto, e conseguentemente suggerisce di impostare e negoziare un sistema di metaregole: regole-base che si prestano ad essere adattate a diverse situazioni. Una sorta di netiquette interna alla community che ne permetta l’autoregolazione.
DeBaggis cita i consigli di Virginia Shea: "ricorda le norme di convivenza sociale, utilizza in Rete gli stessi schemi di comportamento che useresti in un incontro reale […] rispetta i tempi, la banda e gli spazi delle altre persone, sii gradevole, condividi le tue conoscenze, aiuta a mantenere i flame sotto controllo, rispetta la privacy delle altre persone, non abusare del tuo potere, sii indulgente con gli errori degli altri" (Shea, 1994, in DeBaggis, 2010, 167).
La policy dovrebbe essere quella di porre le basi di un accordo paritario che garantisca un insieme di diritti e doveri. DeBaggis porta come good-practice l’esempio di YOYOU (You Own Your Own Words), principio regolatore della community The Well secondo il quale chiunque può dire ciò che vuole purché se ne prenda la responsabilità sociale, oltre che legale. Si tratta di una policy facilmente accessibile (raggiungibile e [p. 66 modifica]chiara), senza margini di interpretazione, adattabile alle diverse situazioni, non genitoriale, continuamente applicata.

È necessario poi stabilire quale tra le tipologie di moderazione sia la più adatta ai propri scopi. DeBaggis afferma infatti che l’anarchia è una forma di governo adatta solo per community mature e in grado di gestire da sole eventuali problemi interni; la maggior parte delle volte non è possibile lasciare i membri in tale situazione e diventa necessaria una forma di moderazione.
Esistono differenti livelli di moderazione:

  • moderazione a priori: è la tipologia di moderazione più rigida, che vede il moderatore come filtro di tutti i messaggi e conversazioni. Tale livello di moderazione non solo è impegnativo, ma ha uno scarso valore sociale in quanto rende difficile l’interazione tra i membri della community;
  • moderazione a priori con white list: in questo caso vengono filtrati solo i primi interventi; nel momento in cui una persona si crea una buona reputazione, entra a far parte della lista dei buoni, i membri che non necessitano di moderazione a priori. In questo modo i disturbatori (troll) possono essere individuati, controllati e bloccati;
  • moderazione a posteriori con rimozione: secondo questa tipologia, la pubblicazione dei messaggi è libera, ma quelli contrari alla policy vengono rimossi, fornendo a chi ha pubblicato il messaggio una motivazione. In questo modo i disturbatori non vengono bloccati, ma "conversati". Si tratta di una sorta di "anarchia con senso di responsabilità": ognuno è responsabile del proprio messaggio e il moderatore ha il ruolo di monitoraggio e di semplice punto di riferimento. È la forma che permette maggiore parità tra staff e community, oltre a essere la più simile a dialogo off line. Tale tipologia si adatta però a community in cui le regole sono poche e ben definite.


Oltre alla gestione della community, una pratica di social media marketing implica anche la gestione dello staff.
DeBaggis suggerisce di non dare in outsourcing (delegare a un’agenzia esterna) la gestione dei social media dell’azienda: l’instaurazione di un dialogo effettivo si basa [p. 67 modifica]sulla condivisione di valori che solo chi conosce e vive l’azienda può capire e interpretare fino in fondo.
All’interno di uno staff social i ruoli principali sono tre: (a) il community manager, che è il responsabile dell’andamento della conversazione con i clienti; (b) l’animatore/moderatore, che è il responsabile dell’andamento degli ambienti di interazione; (c) il responsabile del costumer-care, che si occupa di rispondere alle richieste e risolvere i problemi emergenti.
DeBaggis suggerisce alcune accortezze pratiche per un’idonea gestione dello staff. In primo luogo, per quanto riguarda i flussi di comunicazione e decisione, la leadership dovrebbe essere un servizio, e il community manager dovrebbe essere più che altro un punto di riferimento con il dovere di diffondere le informazioni a tutto lo staff.
In secondo luogo, può essere utile, per il mantenimento di uno stile comunicativo unitario, la creazione di un "personaggio" cui ogni membro dello staff, pur con la propria personalità, dovrà essere coerente; è necessario evitare di "fare bruschi salti di stile" ed evitare di deludere le aspettative della community; inoltre è utile tenere a mente che le opinioni possono accendere conflitti e che la maleducazione è contagiosa (DeBaggis, 2010).
Infine, per la moderazione interna è possibile stabilire una policy, una sorta di prontuario di comportamenti, specifica per lo staff al fine di garantire uniformità di comportamento e disposizioni per affrontare situazioni emergenti e intervenire in maniera tempestiva.

2.4. Esperienza mediata

DeBaggis afferma, usando la prospettiva sociologica di Erving Goffman, che la sfera privata (i pensieri di chi assiste a un evento) stia passando sempre più velocemente sulla sfera pubblica (la condivisione di informazione su quei pensieri). In questo modo, sulla base del racconto delle persone, anche chi non ha partecipato in prima persona ad un evento o ad un’esperienza può crearsene un’idea. Tale dinamica è sempre esistita, ma si limitava al racconto diretto. Ora con i social media questo avviene ad un livello molto più ampio.
Questa prospettiva è stata introdotta da differenti autori. [p. 68 modifica]Come afferma Joshua Meyrowitz nella prefazione al suo libro "Oltre il senso del luogo": "una volta, la presenza fisica era un requisito essenziale dell’esperienza diretta […] Un tempo le comunicazioni dal vivo e quelle mediate erano molto diverse fra loro. Oggi non è più così. L’evoluzione dei media ha diminuito il significato dell’essere fisicamente presenti nel fare esperienza di persone e fatti" (Meyrowitz, 1985, prefazione). "I media elettronici hanno modificato il significato del tempo e dello spazio nell’interazione sociale" (Ibidem). L’autore propone un’interpretazione dei media come ambienti culturali.

Secondo Paolo Jedlowski (2005) i media, influenzando la conformazione del senso comune, influenzano anche la costituzione dell’esperienza, grazie soprattutto a quel processo di simultaneità despazializzata (che unisce luoghi distanti in un’unica percezione) impensabile prima dell’avvento dei media elettronici. Infatti, se in qualsiasi periodo storico precedente lo stesso tempo implicava lo stesso luogo, oggi i media consentono di sperimentare come simultanei eventi che accadono in luoghi diversi: si può essere fisicamente in un luogo e contemporaneamente essere a conoscenza di ciò che accade in un altro. I media permettono una prossimità mediata nei confronti di ciò che percepiamo grazie a loro. Si tratta di una sorta di mimesi del mondo: si creano mondi che hanno a modello la realtà immediata dei sensi, ma che se ne emancipano poiché si creano grazie al discorso (Jedlowski, 2005).

Anche John B. Thompson descrive un mondo in cui la capacità di fare esperienza si è separata dall’incontro. Interpretando l’esperienza come processo di apprendimento e arricchimento dell’organizzazione riflessiva del sé, l’autore afferma che i materiali simbolici mediati allentano il legame tra autoformazione e ambiente condiviso. Ciò avviene per due ragioni: "perché gli individui accedono in misura sempre maggiore a tipi di informazione e comunicazione provenienti da fonti lontane, e perché trasmettono tali informazioni reti di comunicazione sempre più ampie; in altre parole gli individui hanno accesso a ciò che in termini generali potremmo definire conoscenza non locale" (Thompson, 1995, 289).
L’autore definisce quattro caratteristiche tipiche dell’esperienza mediata: (a) l’esperienza mediata comporta la sperimentazione di eventi spazialmente (e [p. 69 modifica]temporalmente) lontani dai contesti pratici della vita quotidiana; (b) il contesto di fruizione dell’esperienza mediata è diverso dal contesto in cui l’evento accade effettivamente, l’esperienza è così ricontestualizzata; (c) l’esperienza mediata, diversamente dall’esperienza vissuta, si presenta come una fruizione discontinua di eventi di differente importanza; (d) l’esperienza mediata dà vita a forme di comunanza despazializzata, una affinità non radicata nella prossimità fisica, ma che dipende dall’accesso alle stesse forme di comunicazione mediata.

2.5. Sfera pubblica mediata[modifica]

La nozione di sfera pubblica, intesa nella sua accezione habermasiana, è specificata dall’autore come sfera dei privati riuniti come pubblico, che si confrontano tramite una pubblica argomentazione razionale, originata dall’esperienza personale. La sfera pubblica borghese prendeva forma nei caffè e nei salotti, luoghi in cui il pubblico si riuniva e discuteva tra pari (al di là dello status di appartenenza).
Le genesi della sfera pubblica borghese deriva storicamente da alcune dinamiche che conducono alla formazione di un nuovo ordine sociale. Tali dinamiche sono riassumibili in (a) circolazione delle merci, che provoca una nuova forma di autonomia economica, il capitalismo finanziario e commerciale, e (b) circolazione delle notizie, che provoca una maggiore diffusione e accessibilità alle informazioni e una maggiore presa di coscienza sociale. Conseguentemente all’affermazione di queste dinamiche, l’uomo borghese acquista consapevolezza di sé e della propria individualità nel mondo. Da questo processo scaturisce l’opinione pubblica, intesa come entità collettiva che nasce dal basso e si esprime attraverso un processo comunicativo e attivo. Infatti le opinioni personali dei cittadini, secondo Habermas, possono trasformarsi in opinione pubblica grazie a quel processo di discussione razionale e critica aperta a tutti (Thompson, 1995). Dopo Habermas, molti altri sociologi si sono dedicati a indagare i meccanismi che regolano la nascita, il funzionamento e la gestione della sfera pubblica. Thompson sostiene la necessità, nella attuale società, di reinventare la sfera pubblica (Thompson, 1995), facendo emergere nuovi centri di potere simbolico. Essi devono essere pluralisti, quindi sganciati dalle influenze dei grandi centri del potere simbolico. Si tratta di uno spazio che deve essere aperto e accessibile. Tuttavia tale spazio non necessita più di compresenza fisica, di uno luogo fisico condiviso. Con lo sviluppo dei mezzi di [p. 70 modifica]comunicazione, è possibile elaborare una nuova concezione di vita pubblica a partire dal tipo di sfera pubblica creato dai media (Thompson, 1995). Se infatti, secondo Habermas, uno dei requisiti che hanno fatto nascere la sfera pubblica borghese è stato la diffusione della stampa e il ruolo dei mezzi di comunicazione cartacei, grazie a nuovi mezzi di comunicazione si può creare una nuova sfera pubblica mediata.

Di seguito si fa riferimento ad alcuni autori che in particolare possono essere utili per una successiva analisi.
Ash Amin, riguardo la nascita dello spazio pubblico, sostiene che l’impulso collettivo allo spazio pubblico sia il risultato di una condizione di molteplicità situata, emergente dall’essere insieme di corpi e fatti, e di usi e necessità, in uno spazio fisico condiviso strutturato in determinati modi. Lo spazio pubblico urbano, come luogo di formazione civica, deriverebbe da un particolare tipo di organizzazione spaziale che si realizza quando gli ambienti condivisi sono segnati da relazioni non gerarchiche, apertura a nuove influenze/cambiamenti e dinamiche di molteplicità. Tale processo di territorializzazione avrebbe origine nella ripetizione di demarcazioni spaziali basate su pratiche d’uso quotidiano, le abitudini che creano un senso dello spazio e del posto degli individui in e attraverso quello spazio.
Nonostante Amin applichi queste categorie di analisi al solo spazio fisico, è forse possibile nella società attuale estenderle anche allo spazio digitale. Lo spazio digitale infatti è sempre più prevalente come:

  • occasione di supporto “distribuito” alla cittadinanza;
  • ambiente di networking tra entità pubbliche diverse;
  • piattaforma per l’espressione di idee e progettualità di individui e gruppi.

Si creerebbe quindi una situazione di molteplicità situata digitale.

Giorgio Grossi, riguardo le modalità di gestione della sfera pubblica, asserisce: "è abbastanza condivisa l’idea che qualsiasi dinamica di opinione pubblica che assuma una dimensione sociale e collettiva richieda la presenza di attori con il ruolo e la funzione di leadership di opinione. Tale presenza, infatti, è determinante proprio per l’avvio del processo stesso di formazione ed articolazione dell’opinione pubblica […] In questo senso il modello originario di Habermas che non postula la presenza di alcun [p. 71 modifica]facilitatore […] appare giustamente inadeguato se riferito alle attuali società" (Grossi, 2004, 145). Il processo di creazione dell’opinione pubblica richiede sempre la presenza e il ruolo di qualche forma di governo che, da un lato, selezioni i temi di interesse e, dall’altro, li promuova e li porti all’attenzione della società. L’imprenditore cognitivo è "quel particolare tipo di attore sociale (individuo, gruppo, organizzazione) che si assume il compito (e il rischio) di promuovere, attivare ed orientare un determinato processo di opinione di rilevanza sociale e collettiva in quanto portatore sia di interessi - l’imprenditore cognitivo investe in beni immateriali - sia di competenze - sa come presentare le questioni, come comunicare le problematiche -" (Grossi, 2004, 146).

Note

  1. Per una descrizione esaustiva delle diverse definizioni si veda Gilodi, 2004.
  2. La vocazione è costituita dall’unità di tutti gli elementi del territorio (Varaldo e Caroli, 1999).
  3. http://it.wikipedia.org/wiki/Marketing_territoriale
  4. L'immagine complessiva è il risultato delle relazioni tra immagine attesa, l’immagine percepita e l’immagine diffusa (Grandi e Miani, 2006). Tuttavia qui si fa riferimento specificamente all’immagine per come è percepita dai fruitori.
  5. SWOT è l’acronimo di Strengths, Weaknesses, Opportunities e Threats. L’analisi SWOT è uno strumento di pianificazione strategica che consiste, appunto, nel valutare analiticamente i punti di forza e di debolezza, le opportunità e le minacce relative ad un progetto.
  6. http://it.wikipedia.org/wiki/Web_2.0
  7. http://it.wikipedia.org/wiki/Social_media
  8. http://larica.uniurb.it/wpmu/
  9. http://larica.uniurb.it/wpmu/news/news consumer italia/
  10. http://it.wikipedia.org/wiki/Twitter
  11. http://en.wikipedia.org/wiki/Imagined_communities
  12. Il ROI indica la redditività e l’efficienza economica del capitale investito in un’azienda (http://it.wikipedia.org/wiki/Return_on_investment)
  13. Sono gli obiettivi individuati dalla Social Marketing Analytics di Altimer Group. In DeBaggis, 2010, 160 è presente una tabella descrittiva che collega ogni obiettivo di business al KPI (Key Performance Indicator) associato.
  14. http://it.wikipedia.org/wiki/Buzz_marketing
  15. http://it.wikipedia.org/wiki/Customer_relationship_management