Il flauto nel bosco/Cura
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Cura.
Un tempo quando ero di malumore mi ripiegavo su me stessa a rosicchiarmi l’anima; adesso, e fortunatamente sempre più di rado, per caricare la macchina fino a farla scoppiare me ne vado mal vestita e con le scarpe più vecchie nei luoghi più tristi e plebei, per esempio in certe strade sempre fangose d’un fango nero e attaccaticcio di pece, che s’insinuano fra altre aristocratiche come l’intestino fra le viscere più nobili.
Nulla di più esasperante di quelle case alte che, in faccia alle ville e ai parchi di palme e cedri forse più belli dei giardini pensili di Babilonia, sventolano dalle loro finestre luride stracci e stracci che si agitano al vento con saluti di miseria insolente, di allegria ironica, quasi di beffe per l’austera compostezza dei luoghi dei ricchi.
Eppure non c’è cosa più viva ed eccitante di voi, stracci di Via Nomentana verso dove Via Alessandria sbocca col suo fiume di umanità inferiore, voi che comunicando il vostro brivido disperato al malumore finora opaco e duro gli ridestate l’istinto a ribellarsi, a sollevarsi, a cercare i mezzi per convertire il fango in oro e creare così una ricchezza che ci renda padroni delle ville e dei parchi di palme e di cedri.
Si ha l’impressione allora che gli stracci siano fazzoletti agitati dai finestrini dei treni in partenza; addio, addio: persone che vanno, persone che restano; addio, addio; partire è un poco morire: bisogna ricominciare la vita.
*
Ma ogni sentimento di ambizione e di speranza ricade col proseguire la strada. Vado in su, verso la piazza stellare del mercato vuota in quell’ora coi suoi sfondi metallici il cui riflesso fa luccicare il fango e i cavalli e gli asini dei carretti alcuni fermi in mezzo alla strada con le loro brave mangiatoie, più tranquilli che nelle loro stalle.
Mazzi di fiori di fanciulle ridono negli angoli dei marciapiedi, e nel centro misterioso di Via Reggio una folla nera si stringe intorno a un piccolo edificio di tela dentro il quale ci deve essere, a giudicare dall’attenzione ansiosa degli astanti, qualche cosa di fatale.
— È il teatro di Pulcinella; la fabbrica dell’appetito — mi dice una sinistra vecchia strizzando l’occhio con confidenza e con invito ad andare con lei a vedere.
Ma io non mi sento ancora nello stato di grazia di accompagnarla, e proseguo: però, un certo senso di allegria incosciente mi viene comunicato dalla gente che va su e giù sguazzando nella mota e nella miseria come nel suo elemento naturale.
Mi vedo passare povera fra i poveri nello specchio grottesco del robivecchi; saluto il mio buon carbonaio nero e bello come l’antico spazzacamino. Dopo tutto sei tu, buon carbonaio, nonostante il tuo peso scarso, il migliore amico mio dell’inverno che corre, tu che porti sulle tue spalle e deponi ai miei piedi il calore necessario alla mia esistenza.
E poichè salutiamo, salutiamo anche il maestoso ventre della vinaia che tappa la bocca violacea della sua taverna; e sopratutto il fornaio birbante che senza farsi pregare come Iddio ci manda il nostro pane quotidiano. All’unto norcino, poi, regalo proprio un sorriso, perchè non conosco un uomo più gentile e onesto di lui che per mezzo della mia serva mi manda, con le salsicce e l’arrosto, anche i saluti e gli auguri.
Tutto questo però, a pensarci bene, avviene con l’esasperazione tranquilla del re costretto a scendere fra il suo popolo senza il quale non sarebbe re.
*
Cammina cammina così a poco a poco la misura si colma: torniamo indietro e pensiamo addosso a chi scaricarla. Al marito, no, perchè sa metterci a posto con poche parole; ai figli no perchè i figli bisogna rispettarli.
Come la freccia ben tirata va dritta al suo scopo, il mio pensiero s’indirizza alla serva, tanto più che ho paura abbia lasciato sola la casa, profittando della mia assenza, e negri fantasmi di ladri mi assalgono già. Per far presto allora infilo la strada un tempo popolata, verso sera, di coppie amorose che la preferivano perchè chiusa da giardini sopra i muri dei quali gli alberi si chinavano favorevoli e complici al grande mistero: e adesso squarciata dalle nuove costruzioni, con montagne d’immondizie e di fango intorno alle quali bisogna girare come allora le coppie giravano intorno al loro peccato e al loro dolore.
Cammina cammina si fa quasi buio: un punto rosso richiama il mio sguardo: è una finestra illuminata, o una macchia di sangue? È un taccuino di pelle, caduto senza dubbio a un passante. Mi chino a guardarlo: è nuovo e grande; forse quello di una donna, perchè la donna smarrisce più facilmente dell’uomo la sua proprietà.
Lo prendo? Può contenere lo schema vecchio di un romanzo, può avere fogli intatti e servire. Io ho sempre avuto più paura di un albo per autografi che dei suoi microbi. Prendo anche questo, dunque, lo apro timidamente come si apre una porta sconosciuta. E non mi pento: è veramente nuovo, un albo finalmente mio, con un solo autografo, d’un autore che non conosco ma che sulle prime giudico destinato a diventare grande: la scrittura è minutissima eppure chiara e si legge anche nel crepuscolo, incisa in nero sulla pagina bianca come su una lapide.
Rivalità.
Non ho avuto paura di te finchè ti sapevo giovine, bello, ricco; adesso so che tu soffri e temo che tu mi raggiunga.
Poi lascio ricadere il taccuino. Cose vecchie. Le conoscevamo già fin da bambini quando il medico di casa veniva a curare le nostre indigestioni e scriveva la ricetta sul suo taccuino staccandone poi il foglietto dentato e cattivo.
Piuttosto bisogna affrettarsi verso casa: l’ora dei ladri discende con quella dei sogni.
Mi rassicura la presenza qua e là poco distante in vista al mio cancello, di carabinieri, guardie regie e affini. Anzi un piccolo soldato è proprio di piantone rasente al cancello chiuso ed ho l’impressione, appena mi vede, che mi presenti le armi scostandosi per lasciarmi passare: il mio aspetto dev’essere per lui più formidabile di quello di Napoleone sdegnato.
E adesso capisco tutto: dietro le sbarre del cancello c’è la testa d’uccello in gabbia della mia serva, ci sono le sue labbra gonfie di sangue diciottenne, e sopratutto le gambe più potenti delle colonne di un tempio. È giusto che tutti quei gatti le stiano attorno, giusto per lei non per me, che tuttavia sento la gioia confusa del gatto che a sua volta ha trovato il topo.
L’aspetto dentro e finalmente la misura si vuota: io stessa mi meraviglio e m’impaurisco della violenza delle mie parole. Lei però ascolta beata e dura come un muro illuminato dal sole: nulla può offendere la felicità d’amore. E le mie parole mi rimbalzano contro come le palle elastiche dei fanciulli, finchè le spingo a rotolare lontano e trovo anzi una scusa per mandar fuori la ragazza onde possa rintracciare il suo soldatino.
*
E finalmente apro la finestra per respirare. Il cattivo tempo si schiara, la luna sorge da una montagna di nuvole. La mia vicina di casa canta, e neppure lei mi dà più ai nervi: anzi l’ascolto con bontà. Il suo canto dapprima un po’ greve piatto e incerto poi sempre più lieve e saltellante e infine armonioso e alato ricorda il posarsi dell’uccello a terra e il suo cercare beccando il suolo e lo svolazzare e infine l’improvviso volo e il ritorno nell’azzurro dell’aria.