Il flauto nel bosco/Carbone fossile
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Carbone fossile.
Mai come quel giorno la signora poetessa s’era convinta che la schiavitù esiste ancora.
Il marito aveva ordinato una tonnellata di carbone fossile per il termosifone.
Aveva ordinato che questa montagna nera si movesse e venisse in casa perchè la moglie quando soffriva il freddo era inaccessibile ad ogni sentimento d’umanità: ed anche perchè le voleva bene: e passati erano i tempi quando per scaldarle le piccole mani di orientale se la stringeva al petto e raccoglieva le piccole mani indolenti nel cavo delle sue ascelle di lavoratore, riscaldandola tutta col fuoco del loro amore.
*
Era già d’autunno avanzato quando finalmente il carbone arrivò.
La signora era appena scesa in giardino per godersi la mattina bella e pura come la prima del mondo, quando la serva le annunziò che il carro col combustibile arrivava.
Ma il carbone non era contenuto nei sacchi come un tempo si usava, e il conduttore, carrettiere e non facchino, non poteva quindi, trasportandolo sulle sue spalle, scaricarlo in cantina: e perchè il passaggio del carro non guastasse il viale d’ingresso, la signora ordinò che il veicolo entrasse dal cancello di servizio e non da quello padronale.
Di lì si poteva senza sciupare i viali arrivare alla finestra della cantina e scaricare il carbone a mano. È giusto che gli uomini non curvino più le spalle sotto il peso del benessere altrui. Si fanno pagare, è vero, più di quando curvavano le spalle, ma è giusto che sia così.
La signora, in fondo, come tutti i veri poeti, era comunista.
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Per non distogliere la serva, che non chiedeva di meglio, dalle sue faccende, lei stessa andò ad aprire il cancello di servizio.
Quando fu spalancato, questo cancello lasciò vedere il quadro di un breve vicolo in pendìo, fra due muri di giardini e lo sfondo di una strada traversale.
Fra i ciottoli del selciato, argentei di brina, l’erba testarda sbucava vivida, orgogliosa di aver attraversato anche le connessure della pietra sotto cui era stata sepolta. Il carro rossastro del carbone appariva laggiù in fondo con la sua montagna nera, tirato da un cavallo scuro non molto grande ma forte e con la testa grossa e le zampe pelose: forse un incrocio di cavallo maremmano con qualche altro di razza diversa.
Le cose andarono bene fino a metà strada. L’uomo conduceva tranquillo il carro, e la signora guardava tranquilla dallo sfondo del suo giardino. La serva si affacciò a guardare dalla finestra con un piumino in mano, una mano così grossa che il piumino sembrava un fiore. Ma la padrona la ricacciò dentro con un solo cenno: perchè se il poeta in lei era comunista, la padrona di casa era ferocemente fascista.
*
A questo punto le cose s’imbrogliano.
Il carro si ferma a metà strada, e sembra che la caparbietà dell’erba si comunichi con una potenza misteriosa alle zampe della bestia che la calpesta.
Non invano le erbe sono state sempre piene di sovrumani poteri.
In realtà la bestia non va avanti perchè non può: è stanca, il carro è pesantissimo, e la strada selciata, in salita, è peggio di una strada di montagna. E di montagna è il silenzio che si fa intorno. Il carrettiere si è fermato anche lui, pensieroso, con lo sguardo smarrito entro di sè alla ricerca del come risolvere il problema.
Mai la signora, sebbene conosca i più grandi pensatori, ha veduto un uomo così.
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Finalmente l’uomo si scuote dal suo raccoglimento, e dà un grido strano, gutturale e rauco, fra il nitrito del cavallo e il raglio dell’asino.
È la sua voce di richiamo alla bestia: e questa infatti si scuote: tutto intorno, il carro con le sue catene di galera, i finimenti, il carbone, il selciato stesso, tutto vibra.
Solo le zampe dell’animale non si smuovono: e i loro peli si confondono con l’erba nella comunione di un loro segreto.
Sebbene osservi tutte queste cose, la signora comincia a impazientirsi.
Contro chi? Contro il carrettiere, contro il marito, contro la guerra, contro l’inverno.
E anche contro sè stessa che, in fondo, è la causa di tutto.
Tu l’hai voluto, signora poetessa: tu che hai lasciato i paesi del sole per tuffarti in questa baraonda oceanica, dove chi non sa nuotare anche sott’acqua annega.
Ed ella già comincia a sentire i piccoli piedi della sua razza sedentaria che non conosce il mare, gelarsi come quelli del nuotatore che perde forza.
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Eppure dell’erba calpestata sentiva pietà, e della povera bestia che aveva ragione a non andare avanti con quel peso superiore alle sue forze e su quella strada barbara.
Ella ha pietà delle bestie, dell’erba, di tutte le cose che non hanno voce per difendersi. Oh, per questo il suo cuore non è nido di passioni politiche, ma di semplice umanità.
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La serva si riaffaccia, curiosa e ridente, scuotendo il piumino come per tirar su con quel gesto la disgraziata bestia che anche il carrettiere accarezza e tira per la briglia mormorandole all’orecchio parole di incoraggiamento e di amore.
In quel momento tutti sono buoni; la signora che vede nel carrettiere un suo simile, l’uomo che supplica la bestia, la serva che si diverte. La signora le permette persino di guardare.
Solo il signorino, che si alza dal letto in questo momento e spalanca la sua finestra accennando il motivo di Madama Fioraliso, veduta la scena si mette a ridere. E il suo riso di venti anni si fonde alla bella giornata, sopra quei disgraziati laggiù.
*
Ma la bestia non smuove neppure una zampa. Il carrettiere abbandona giù di nuovo le braccia e torna a raccogliersi, pensando.
Frutto della sua meditazione è un improvviso flusso di sangue che gl’infiamma il viso pallido e i dolci occhi celesti: anche i suoi capelli si fanno più rossi. Egli solleva la frusta e comincia a tempestare di colpi la bestia sulla schiena, sulle ginocchia, sulla faccia, rinnovando il suo grido rinforzato da una ferocia bestiale.
Così in un’antologia la signora ricorda di aver letto è il grido del leone.
*
La bestia scuote appena la testa per allontanare le frustate, senza dimostrare di soffrirne troppo, finchè il terribile uomo non la percuote col manico della frusta sulle ginocchia e sugli occhi.
Allora sbatte un calcio contro il disotto del carro, quasi tentando di sbalzarlo in aria e liberarsene, poi finalmente ha un gemito umano.
La signora ricorda il sogno di Raskolnikoff, e grida al carrettiere:
— Andate via, andate via; non lo voglio più il vostro carbone.
L’uomo risponde, pieno d’angoscia e di sudore:
— Non è mio.
E continua a torturare la bestia.
— Bisognerebbe che passasse qualche signora della Società per la protezione degli animali.
— Bisognerebbe che passasse qualche carrettiere che mi desse una mano, — risponde l’uomo.
*
Di nuovo si ferma poichè la bestia non si è smossa d’un passo: di nuovo medita.
Medita anche la signora. Non è vero, pensa, che la schiavitù sia scomparsa da questa terra: schiava la bestia dell’uomo, e l’uomo del suo simile più forte.
E noi gridiamo tanto, adesso, perchè l’uomo che ha la forza fisica si fa pagare più di quello che ha la forza intellettuale: è giusto, o pare giusto; perchè la sua schiavitù è maggiore.
Aspettò quindi pazientemente che l’uomo risolvesse il suo problema.
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Problema che non si sarebbe mai risolto, poichè il carro non poteva neppure tornare indietro, se non fosse passato nella strada di sfondo un altro carrettiere.
L’uomo corse verso di lui: subito s’intesero e si misero all’opera. Uno tirava la bestia, l’altro spingeva or l’una or l’altra ruota.
Così il carro entrò nel giardino, mentre la signora si ricordava di aver letto anche questo in un libro: che solo l’uomo può essere di aiuto all’uomo quando questo dispera anche di Dio.
*
Qui comincia il secondo atto del dramma.
La donna e l’uomo si guardarono. Egli si asciugava il sudore col dorso della mano, e anche lei si sentiva stanca di star lì dove cominciava a batter l’aria di tramontana.
— Bè — domandò spiccia e chiara. — Il carbone si scarica qui o in cantina giù per la finestra?
— Qui, qui — disse l’uomo. — Non ho tempo.
Poi chiese di vedere la finestra della cantina.
— Badate — osservò la signora, conducendolo: — qui il viale svolta ad angolo e il passaggio del carro mi sembra difficile. Guardate bene prima di decidervi: a me piacciono le cose chiare.
L’uomo guardava l’angolo dove i due viali, piuttosto stretti, s’incontravano: uno era quello percorso da loro, l’altro si stendeva sotto la facciata della casa e proseguiva diritto fino al cancello padronale.
— È difficile — disse, come parlando all’angolo, però non si decideva a dire di no.
— Bè decidetevi.
Egli calcolò. Calcolò che una buona mezz’ora se ne sarebbe andata nella faccenda: e poichè era un uomo mezzo onesto, disse che ci voleva un’ora.
— Mi darà venti lire.
— Va bene: ma sia una parola.
E la signora entrò per le sue faccende, lasciando all’uomo ogni responsabilità. Guardò l’orologio: erano le dieci.
*
Dopo pochi minuti sentì il grido strano dell’uomo per aizzare la bestia e capì che si trovava di nuovo davanti a un mistero.
Aprì la finestra del corridoio e vide infatti una cosa straordinaria.
Il carro era di nuovo fermo, nell’angolo fra i due viali, e la bestia, dura e rigida come le due stanghe che la imprigionavano, non si moveva più. Pareva cieca, sotto i suoi occhiali di cuoio, o peggio ancora morta.
L’uomo rinnovava tutti i suoi tentativi di dolcezza, poi di astuzia e di violenza, ma non riusciva a smuoverla. E qui davvero nè Dio e neppure il carrettiere potevano aiutarlo.
Allora egli pensò di scaricare lì il carbone.
Lì? Proprio nel posto che meglio si vedeva dal cancello padronale, dove si fermavano le automobili delle grandi dame che visitavano la poetessa come una loro pari?
— Se non scaricate il carbone in cantina non vi pago — ella disse all’uomo, con la fredda crudeltà dei dominatori.
L’uomo non rispose, non si rivoltò contro di lei, poichè il patto era quello; ma se la prese con la bestia.
Fu una cosa indimenticabile, indescrivibile. Egli balzava e si piegava, d’un tratto divenuto elastico e quasi incorporeo: graffiava e supplicava la bestia, chinandosi davanti a lei a mani giunte: tentava di aiutarla e la percuoteva a sangue. E bestemmie inaudite uscivano dalla sua bocca. Anche la bestia cominciò ad agitarsi dentro la sua gabbia di ferro che le indicava la via ma non le permetteva di percorrerla, e dava calci e nitriva, coi peli della criniera agitati come serpenti.
Era, fra quei due, un movimento diabolico, un grido di esasperazione non più umano.
E dapprima la donna rise, d’un riso che le riempì gli occhi di lagrime, anche perchè dietro di lei la serva rifaceva il verso dell’uomo: «non ho tempo!» poi rabbrividì: il carrettiere aveva tratto il coltello; e in quella lotta che non aveva più forma, ella vedeva solo il movimento delle passioni umane e bestiali, spinte fino alla morte: e l’inferno quale lo sogna l’uomo nei suoi deliri di espiazione e di sete di giustizia.
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— Scaricate pure lì — disse all’uomo.
L’uomo si fermò, esaurito. Aprì quasi inconsciamente i lati del carro, che la signora aveva creduto di legno ed erano di ferro; poi andò giù in cantina, prese una cesta e un po’ per volta portò giù il carbone sulle sue spalle.
Quando finì era mezzogiorno. Egli non domandò nulla, ma la signora gli diede trenta lire e un bicchiere di vino.
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E finalmente anche lei, che sentiva più che l’uomo la stanchezza di lui, pensò di riposarsi: ma al suo posto favorito, che era una vecchia cassa rovesciata nel sottoscala della loggia sul giardino, trovò la sfinge nera del suo gatto.
Il gatto aveva assistito a tutto il trambusto senza smuovere neppure gli occhi d’opale, anzi profittando dell’assenza della padrona per prenderne il posto.
E all’urto della mano di lei che lo scacciava, si restrinse verso l’estremità della cassa, come per farle posto, e le si addossò: nel mondo, e specialmente nel mondo delle visioni, c’è spazio per tutti.
La padrona si scaldò al contatto della pelliccia del gatto calda di sole e provò un senso di felicità; si smarrì nella gioia della natura: fu tutta una cosa col sole che concentrava i suoi raggi sotto la breve volta: tutta una cosa col giardino roseo e giallo, e con le foglie del convolvolo che palpitavano sulla cancellata, sospese sull’azzurro dell’orizzonte, più rosse del cuore che arde d’amore: tutta una cosa con l’arco del sottoscala, ponte poggiato sui due punti estremi del sogno e della realtà.
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La riscosse il rumore d’un volo frusciante come quello di un minuscolo dirigibile.
Un uccellino iridato si abbattè accanto a lei; e il gatto già gli era balzato contro con uno slancio feroce: l’uccellino volò via prima d’essere preso, si smarrì fra i colori del giardino riflettendoli tutti nelle sue ali di velo nero.
Il gatto gli corse appresso, saltò sul muro della cancellata; lì si raccolse un momento, impotente e deluso; poi tornò presso la padrona che rideva poichè l’uccellino era una cavalletta.
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Poi anche tutto il giardino si smosse. Il vento di tramontana soffiava dall’angolo ove s’era fermato il carro: e le foglie rosse si sciolsero, e caddero a mille a mille quelle della robinia. Quelle che erano già secche per terra si animarono con un movimento prima di danza poi di fuga: ed erano di un colore fra di sole e di terra, e non rassomigliavano ad altro che a foglie secche spinte dal vento, eppure avevano qualche cosa di vivo, più che sulla pianta, ma prese anche esse da una follia di dispersione, di ritorno al nulla.
Il gatto balzava di nuovo, appresso a loro, tentando di afferrarle a volo, con un gioco grazioso di animale felice; finchè il vento gelato non persuase lui e la padrona a rientrare in casa.
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Nel terzo atto siamo a tavola, moglie, marito e figlio, nella chiara e fredda stanza da pranzo.
Sul popolo di stoviglie e sul paesaggio della fruttiera, i due poeti della tavola, la boccia del vino e quella dell’acqua, chiudono il primo in sè ma in agguato il suo cupo fuoco e l’altro il riflesso delle cose intorno e anche del suo compagno in una deformazione luminosa di colori che riversa intorno con un’iride meravigliosa.
Siamo di nuovo in un cerchio magico di felicità: la donna sopratutto è contenta, sebbene senta freddo. Oramai il problema dell’inverno è risolto, con quella miniera in cantina, e davanti a sè ella vede un’eterna primavera anche perchè ha di fronte il figlio.
E parla ridendo dell’avventura del carbone, raccontando l’avidità crudele dell’uomo e l’inaudita resistenza della bestia.
— Pareva un simbolo, quel povero cavallo.
— Ma se era un mulo, mamma!
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Ella rimase male, anche perchè i due uomini la canzonavano; poi reagì:
— Che importa? Io lo credevo un cavallo. Tutto sta nella sostanza, non nella forma. E quel carbone che è duro e nero e viene dalla fredda profondità della terra non è forse fuoco?
— Con la volontà dell’uomo — disse il padre.
— Con la necessità — disse il figlio.
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E qui si comincia a discutere.
Problemi e problemi che di gradino in gradino conducono all’infinito. Per risolverli bisogna dimenticarli, e si dimentica solo col dormire, e neppure così poichè ritornano in sogno.
Ad ogni modo la signora pensò di coricarsi un poco come del resto faceva tutti i giorni.
Nella sua camera il letto era coperto dal drappo del sole; ella però sapeva che il sole fa male, nel dormire, e si stese al buio sotto la coperta di lana.
E ricordando le vaste solitudini della patria, e gli avi che per necessità di vita sacrificarono a loro stessi l’agnello che pure amavano, e nutriti della sua carne e riscaldati dalla sua lana per riconoscenza ne formarono la realtà di Dio; e si valsero dei cavalli selvaggi per vincere il mistero delle lontananze; e sulle alture costrussero i nidi di pietre dove traevano il fuoco dalla selce, e dormivano presso i loro morti per succhiarne nel sonno la sapienza eterna e risvegliarsi più vivi, a poco a poco si scaldò col calore del suo cuore e si addormentò.