Il mestiere di vivere/1950

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1950

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1949 Nota al testo

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1950


1° gennaio.

Roma è un crocchio di giovanotti che attendono per farsi lustrare le scarpe.

Passeggiata mattutina. Bel sole. Ma dove sono le impressioni del ’45-’46? Ritrovato a fatica gli spunti, ma niente di nuovo.

Roma tace. Né le pietre né le piante dicono piú gran che. Quell’inverno stupendo; sotto il sereno frizzante le bacche di Leucò. Solita storia. Anche il dolore, il suicidio, facevano vita, stupore, tensione. In fondo ai grandi periodi hai sempre sentito tentazione suicida. Ti eri abbandonato. Ti eri spogliato dell’armatura. Eri ragazzo.

L’idea del suicidio era una protesta di vita. Che morte non voler piú morire.

2 gennaio.

Tornato in via Uffici del Vicario. Vecchi volti (le ragazze, gli uomini, io). Le cose si sa che accadono quando sono già accadute. La pienezza del ’45-’46 la so adesso. Allora la vivevo.

Id. nella storia. Gusto del passato, della conservazione. Il destino è abbandonarsi e vivere la pienezza, che poi si chiarisce coerente e costruttiva. È destino ciò che si fa senza saperlo, abbandonandosi. In un dato senso, tutto è destino: non si sa mai quel che si fa. C’è una piccola e razionale consapevolezza che morde in superficie e noi abbiamo il dovere di profondire al possibile. Ciò che resta inconoscibile (lo capiranno i posteri — in questo senso non è irrazionalismo) è il destino. Esempio storico: il vero significato [p. 364 modifica]dell’opera di Robespierre, che lui credeva l’edificazione politica della virtú, lo capí lo storicismo scientifico — ma per lui era il suo destino. Beninteso, posteri ulteriori vedranno un senso anche piú profondo nell’opera di Robespierre, e allora anche l’interpretazione storicistica farà parte del suo destino, sarà stata il suo destino (il non ancor risolto in consapevolezza).

Rapporto del destino col superstizioso. Il primo è il fatto istintivo, non ancor conosciuto né previsto, il secondo il fatto istintivo dopo conosciuto. Il primo è un modo di esser vivi, il secondo di esser morti.

3 gennaio.

Non sono fungibili le direzioni che il destino poteva prendere. Noi constatiamo che quella presa (in certi casi o sempre?) è buona — che salda insieme tutti i giorni secondo uno sviluppo — era, all’inizio, un bocciolo che ha dovuto fare il suo corso ed esistere.

4 gennaio.

Visto e fiutato quanto Roma ha di peggio. Facile amicizia, vita d’occasione, denaro fatto e speso come se non ci fosse, e invece tutti i criteri, i gusti, le voglie ecc. sono in funzione del far denaro.

Comincia ad apparirti come infanzia (adolescenza) anche l’età dei trent'anni. Puoi fare racconto — cioè — anche della cultura. La virilità si può intuire («favoleggiare») quando appaia come un’infanzia.

Aver digerito un’esperienza, avere il distacco vuol dire vederla come un’ingenuità infantile. La grande poesia è ironica.

7 gennaio.

A Roma, hai spiegato allo «zio Sandro» che tutto quello che è valore va salvato — tutte le aspirazioni, i gusti, le umanità — il [p. 365 modifica]liberalismo, la buona educazione ecc. Si tratta di trovare il cànone storico-politico che lo permetta. Ora il suo di lui salva forse le cose che il tuo di te salva? Non pare. Ecc. ecc.

9 gennaio.

La passione smodata per la magia naturale, per il selvaggio, per la verità demonica di piante, acque, rocce e paesi, è un segno di timidezza, di fuga davanti ai doveri e agli impegni del mondo umano.

Ferma restando l’esigenza mitica di sentire la realtà delle cose, ci vuole il coraggio di fissare con gli stessi occhi gli uomini e le loro passioni. Ma è difficile, è scomodo — gli uomini non hanno la fissità della natura, la sua larga interpretabilità, il suo silenzio. Gli uomini ci vengono incontro imponendosi, agitandosi, esprimendosi. Tu hai cercato in vari modi di impietrarli — isolandoli nei loro momenti piú naturali, immergendoli nella natura, riducendoli a destino. Eppure i tuoi uomini parlano, parlano — in essi lo spirito si dibatte, affiora. È questa la tua tensione. Ma tu questo spirito lo subisci, non vorresti trovarlo mai. Aspiri all’immobilità naturale, al silenzio, alla morte. Far di loro dei miti polivalenti, eterni, intangibili, che pure gettino un’incantesimo sulla realtà storica e le diano un senso, un valore.

10 gennaio.

La feconda idea che destino sia il mito, il selvaggio (l’emozione della Vigna) e che perciò — una volta spiegato — se sussiste nella sua forma arcaica diventa superstizione. Destino è ciò che di mitico ha un’intera esistenza, un dramma. È ciò che accade e non si sa ancora che è accaduto. Ciò che pare libertà e invece si chiarisce poi paradigmatico, ferreo, prefissato. Destino è lo storico prima d’essere inteso nei suoi nessi e nella sua necessità-libertà. Quando tratta di uomini, la poesia guarda sempre ai destini — si muove sui destini e magari li intende, li chiarisce, ne fa storie. [p. 366 modifica]

Ma tu (9 gennaio) parti dagli uomini spiegati e, per poetarli, li riduci a destino. Sembra il processo inverso all’arte, che di mito fa logo. Oppure. Si travaglia intorno a questo passaggio. Lo dibatte. Tendendo alla forma, alla favola, tende alla forma naturale, all’organismo autonomo, e quindi ricostruisce, sulla comprensione razionale, la figura del mito-destino. Volendo rifare la vita ricorre alle forme naturali, si rituffa cioè nel gorgo mitico, nelle forme che stupiranno come la natura, la vita, stupiscono, inesauste.

14 gennaio.

Disgusto del fatto, dell’opera omnia. Senso di cagionevolezza, di decadenza fisica. Arco declinante. E la vita, gli amori, dove sono stati? Serbo un ottimismo: non accuso la vita, trovo che il mondo è bello e degno. Ma io cado. Quello che ho fatto ho fatto. Possibile? Desiderio, brama, ansito di prendere, di mordere, di fare. Ci arriverò ancora?

(Tutto perché fioccano i giudizi negativi sul Diavolo sulle colline).

Ripensando alle sorelle D. so che ho perduto una grande occasione di fare sciocchezze. Ecco che Roma si colora nel ricordo.

17 gennaio.

Rapporto del destino col superstizioso. Dopo la Poetica del destino — sono, il destino, la vera miticità della vita umana; il superstizioso, la miticità conosciuta, quindi falsa. È fatale una vita che abbia una cadenza mitica, un ritmo prefissabile ma non disciolto in conoscenza razionale (che lo distruggerebbe); è superstiziosa una vita che si intestardisca a vedersi come schema mitico, quando sa bene che non è, e si capisce razionalisticamente. Una vita il cui ritmo, i cui ritorni, sono voluti, intenzionali.

Noi siamo al mondo per trasformare il destino in libertà (e la natura in causalità).

(Corretto il 30 gennaio). [p. 367 modifica]

Riprendi il II del 10 gennaio.

La poesia è ripetizione. È venuto a dirmelo allegro Calvino. Lui pensava all’arte popolare, ai bambini ecc. Per me è ripetizione in quanto celebrazione di uno schema mitico. Qui sta la verità dell’ispirazione dalla natura, del modellare l’arte sulle (orme e sulle sequenze naturali. Esse sono ripetitive (dal disegno dei singoli pezzi — foglie, organi, vene minerali — al fatto che i pezzi sono ripetuti all’infinito). E allora si vince la natura (meccanicismo) imitandola in modo mitico (ritmi, ritorni, destini). Ma ogni generazione deve tener conto di quanto sa della natura, e superarla con schemi mitici irriducibili da questa conoscenza. (Elemento evolutivo ignoto all’arte arcaica che aveva perciò il còmpito piú facile in quanto, essendo ferme le sue nozioni razionali, applicava schemi mitici già familiari da tempo).

30 gennaio.

Superstizioso è chi crede ancora in un mito che è già stato superato dalla storia — che ci sono ormai i mezzi per dissolvere. Correggi 17 gennaio. Chi ostenta un mito e non ci crede piú, è un ipocrita, un reazionario. Il superstizioso può essere fanatico, il reazionario cinico. Scettico è chi non crede a nessun mito. Fatale è chi realizza in sé un mito autentico in cui crede. L’uomo fatale non è libero.

Creare un personaggio libero del tutto è impossibile. Le cadenze della sua vita (ineliminabili) saranno il suo destino.

Si potrà andar oltre un giorno e considerare anche la libertà un mito? Cioè vederla da un punto in cui anch’essa si scopre destino?

1° febbraio.

L’intuizione fa mito-religione
la volontà fa storia-poesia o teoria.

Errori:

con l’intuizione voler fare storia
con la volontà voler fare mito.
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La volontà si esercita sui miti e li trasforma in storia. Destini che diventano libertà.

9 febbraio.

Corollario. Tema di un’opera d’arte non può essere una verità, un concetto, un documento ecc., ma sempre soltanto un mito. Dal mito direttamente alla poesia, senza passare attraverso la teoria o l’azione.

15 febbraio.

«P. non è un buon compagno»... Discorsi d’intrighi dappertutto. Losche mene, che sarebbero poi i discorsi di quelli che piú ti stanno a cuore.

La vita storica si sviluppa dal mito, non dalla religione. Mito pre-storia, religione sopra-storia.

Parlano di festini, di far carnevale, di trovarsi... Bravi amici, amiche, gente sana e brava. Tu non ne senti nemmeno la voglia, il rimpianto. Altro preme.

Che piccola cosa è la vita, i piaceri, le opere di queste ragazze... Cosí devono ritenere i genitori. Viste dall’esterno, ti eran parse ricchi misteri... Cosí sono banali aggeggi domestici.

Ragioni sempre: le cose prima d’esser conosciute, le cose dopo conosciute... Il problema è sempre quello — razionalizzare, prender coscienza, fare storia.

Intanto hai ridotto all’immagine del sangue sotto il fico, alla vigna, tutto ciò che accade e non si comprende ancora: i paesaggi, [p. 369 modifica] le strane coincidenze, i groppi psicologici, le cadenze in un’esistenza, i destini.

(Se in queste immagini è per te la poesia, è chiaro che, riconoscendoti in una dottrina che spiega tutto, diventi incapace di poesia).

Beninteso, non basta constatare il nodo irrisolto — poesia è rappresentare questo nodo come tale, farne sentire il mistero, il selvaggio. Ma allora dov’è lo sforzo di conoscenza del poetare?

18 febbraio.

La cultura deve cominciare dal contemporaneo e documentario, dal reale, per salire — se è il caso — ai classici.

Errore umanistico: cominciare dai classici. Ciò abitua all’irreale, alla retorica, e in definitiva al disprezzo cinico della cultura classica — tanto non ci è costata niente e non ne abbiamo visto il valore (la contemporaneità al loro tempo).

26 febbraio.

Giro Toscana-Emilia. Pensato al saggio sulla poesia e cultura popolare. Pensato soprattutto al rapporto tra paese e cultura, alle radici contadine (botaniche e minerali) dell’arte. A Firenze (Rovezzano) e in Val Pesa, Elsa ecc. — Siena — sentito come da quella terra è nata un’arte. Campagna che divenne grazia fiorentina e senese. Ma quando una civiltà non è piú contadina quali saranno i rapporti radicali della sua cultura? Siamo ormai fuori dell’influsso botanico, minerale, stagionale del paese sull’arte? Parrebbe.

27 febbraio.

Rivisto S. Asciutto, duro, taciturno, stanco. Ha parlato dei suoi piaceri, gite in campagna e montagna dietro ai coleotteri, sotto la pioggia; ha ascoltato in silenzio assente i miei discorsi di Toscana, le mie vivacità, le mie pose. Non commentava mai. L’impaccio che [p. 370 modifica]provavo, un tempo sarebbe stato senso di crollo, tragedia. Che cosa mi sostiene? Il lavoro fatto, il lavoro che faccio.

(Cervinia)


6 marzo.

Stamattina alle 5 o 6. Poi la stella diana, larga e stillante sulle montagne di neve. L’orgasmo, il batticuore, l’insonnia. C. è stata dolce e remissiva, ma insomma staccata e ferma. Il cuore mi ha saltato tutto il giorno, e non smette ancora. (Da tre notti quasi non dormivo. Parlavo parlavo). Quella che si chiama passione non sarà poi semplicemente questo dibattersi del cuore, questa tara nervosa?

Sono molto deteriorato dal ’34 e dal ’38. Allora ero smaniosissimo ma non malato.

Eppure tutto mi pare un wandepunkt epocale. Tutto. Ma la figura di lei, socialmente e moralmente? Se ci fosse un malinteso?

E io? Non m’illudo nel vecchio modo, scambiando per valori umani dei semplici condimenti di distinzione, glamour, avventura, haut monde? La stessa America, il suo ritorno ironico e dolce, entra come valore umano, vero?

9 marzo.

Battito, tremore, infinito sospirare. Possibile alla mia età? Non mi succedeva diverso a venticinque anni. Eppure ho un senso di fiducia, di (incredibile) tranquilla speranza. È cosí buona, cosí calma, cosí paziente. Cosí fatta per me. Dopotutto lei mi ha cercato.

Ma perché non ho osato lunedí? Paura? [......]1. È un passo terribile.

16 marzo.

Il passo è stato terribile eppure è fatto. Incredibile dolcezza di lei, parole di speranza. Darling, sorriso, lungo ripetuto piacere di [p. 371 modifica]star con me. Le notti di Cervinia, le notti di Torino. È una ragazza, una normale ragazza. Eppure è lei — terribile. Dal profondo del cuore: non meritavo tanto.

20 marzo.

Mon coeur reste encore à toi. Frase di degnazione da maggiore a minore. Perché rallegrarsi tanto? È chiaro che son io il beneficato. Echomai ouch echo. Come possedere senza esser posseduto? Tutto dipende da questo.

Dai discorsi di stasera (con la P.) risulta chiaro che io «sono posseduto» perché mi godo la parte interessante dell’uomo posseduto. Devo godermi quella impassibile del padrone. Sarò piú amato. Soltanto cosí sarò amato. Ma c’è ancora gusto? Tutte le volte che ho posseduto io, non ci ho provato gusto (***, ***, ecc.). Vecchia storia.

Bisogna esser posseduto senza dimostrarlo. È possibile farlo con la «saggia rassegnata comprensione»?

21 marzo.

Giornata dura. Situazione internazionale, situazione italiana di latente guerra civile, voci varie di reazione atomica a catena per aprile. Tutto tende a separarmi da lei, a rimandarla in America, a bloccare Roma, a sbaraccare tutto.

Soffrivo cosí prima? Sí, allora soffrivo per la paura di morire. Ora, per quella di perderla. È sempre un soffrire. Rassegnati. Stoicismo, questo conta. Si fractus illabatur orbis...

22 marzo.

Nulla. Non scrive nulla. Potrebbe esser morta.

Devo avvezzarmi a vivere come se questo fosse normale.

Quante cose non le ho detto. In fondo il terrore di perderla ora, non è l’ansia «del possesso» ma la paura di non poterle piú [p. 372 modifica]dire queste cose. Quali siano queste cose ora non so. Ma verrebbero come un torrente quando fossi con lei. È uno stato di creazione. Oh dio, fammela ritrovare.

23 marzo.

L’amore è veramente la grande affermazione. Si vuole essere, si vuole contare, si vuole — se morire si deve — morire con valore, con clamore, restare insomma. Eppure sempre gli è allacciata la volontà di morire, di sparirci: forse perché esso è tanto prepotentemente vita che, sparendo in lui, la vita sarebbe affermata anche di piú?

25 marzo.

Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla.

26 (mattino).

Prima di partire per Milano:

Nulla. Sempre nulla. Come avvezzarmi? Ormai per la strada, da solo, parlo benissimo inglese.

27 (sera).

Niente. Ho un carbone in corpo, brace sotto la cenere. Oh C. perché perché?

28 marzo.

Bene. Aveva scritto. Le ho parlato, lontano. Non mi vuole subito. Ebbene, questo è bello. Lavora. [p. 373 modifica]

20 aprile. (Dopo Roma)

Forse sta volando sull’Atlantico. Per due mesi. Come aspettare tanto? E aspettare che cosa? Tutti — Lalla, Nat., Doris ecc. — tutti dicono che non va, che siamo diversi, che non c’è niente da guadagnare. «Che vuoi?» Voglio te, per la vita. Possibile che basti?

26 aprile mercoledí.

Certo in lei non c’è soltanto lei, ma tutta la mia vita passata, la inconsapevole preparazione — l’America, il ritegno ascetico, l’insofferenza delle piccole cose, il mio mestiere. Lei è la poesia, nel piú letterale dei sensi. Possibile che non l’abbia sentito?

Curiosa questa processione di donne I., L., R., L., e — inconsce — V. e D. Tutte sanno o presentono che in me si celebra un mistero sacro e ammirano.

L’opinione di tutte quelle che sanno è che lei è stata colpita, che mi pensa piú che io non creda. Possibile che si sbaglino tutte? Sono donne.

27 aprile.

E adesso. Tutto accade insieme. Davvero a chi ha sarà dato. Ma chi ha non prende. Vecchia storia.

8 maggio.

È cominciata la cadenza del soffrire. Ogni sera, all’imbrunire, stretta al cuore — fino a notte.

10 maggio.

Mi si chiarisce l’idea, a poco a poco, che, se anche torna, sarà come non ci fosse. «I’ll never forget you» questo si dice a chi si ha intenzione di mollare. [p. 374 modifica]

Del resto, come mi sono comportato io con quelle che mi pesavano, mi seccavano — che non volevo? Nell’identico modo.

Il gesto — il gesto — non dev’essere una vendetta. Dev’essere una calma e stanca rinuncia, una chiusa di conti, un fatto privato e ritmico. L’ultima battuta.

12 maggio.

Scritto un altro soggetto: Amore amaro. E con questo? Avrà lo stesso destino, e se anche ne avesse uno migliore, servirà ad altro che a staccarla di piú?

13 maggio.

In fondo, in fondo, in fondo, non ho colto al volo questa straordinaria avventura, questa cosa insperata e fascinosa, per ributtarmi al mio vecchio pensiero, alla mia antica tentazione — per avere un pretesto di ripensarci...? Amore e morte — questo è un archetipo ancestrale.

16 maggio.

Adesso il dolore invade anche il mattino.

27 maggio.

La beatitudine del ’48-’49 è tutta scontata. Dietro quella soddisfazione olimpica c’era questo — l’impotenza e il rifiuto a impegnarmi. Adesso, a modo mio, sono entrato nel gorgo: contemplo la mia impotenza, me la sento nelle ossa, e mi sono impegnato nella responsabilità politica, che mi schiaccia. La risposta è una sola: suicidio. [p. 375 modifica]

Dilemma. Devo essere un assoluto amico, che tutto fa per il suo bene, o un risoluto indemoniato che si scatena? Inutile domanda — è già deciso da tutto il mio passato, dal destino: sarò un amico indemoniato che non otterrà nulla — ma forse avrà il coraggio. Il coraggio. Tutto starà nell’averlo al momento buono — quando non le nuocerò — ma che lo sappia, che lo sappia. A questo si può rinunciare?

Certo io so di lei piú cose che lei non sappia di me.

30 maggio.

Tutte queste lagne non sono stoiche

E con questo?

22 giugno.

Domattina, parto per Roma. Quante volte dirò ancora questa parola?

È una beatitudine. Indubbio. Ma quante volte la godrò ancora? E poi?

Questo viaggio ha l’aria di esser per essere il mio massimo trionfo. Premio mondano, D. che mi parlerà — tutto il dolce senza l’amaro. E poi? e poi?

Lo sai che sono passati i due mesi? E che, any moment, può tornare?

14 luglio.

Tornato da Roma, da un pezzo. A Roma, apoteosi. E con questo? [p. 376 modifica]

Ci siamo. Tutto crolla. L’ultima dolcezza l’ho avuta da D. non da lei.

Lo stoicismo è il suicidio. Del resto sui fronti la gente ha ricominciato a morire. Se mai ci sarà un mondo pacifico, felice, che cosa penserà di queste cose? Forse quello che noi pensiamo dei cannibali, dei sacrifici aztechi, dei processi delle streghe.

All is the same.
Time has gone by.
Some day you came,
some day you ’ll die.

Some one has died
long time ago

20 luglio.

Non si può finire con stile. Adesso la tentazione di lei.

13 agosto.

È ben altro. È lei, la venuta dal mare.

14 agosto.

E anche lei finisce allo stesso modo. Anche lei. Va bene. Sono onde di questo mare.

16 agosto.

Cara, forse tu sei davvero la migliore — quella vera. Ma non ho piú il tempo di dirtelo, di fartelo sapere — e poi, se anche potessi, resta la prova, la prova, il fallimento.

Vedo oggi chiaramente che dai 28 a oggi ho sempre vissuto sotto quest’ombra — qualcuno direbbe un complesso. E dica pure: è qualcosa di molto piú semplice. [p. 377 modifica]

Anche tu sei la primavera, un’elegante, incredibilmente dolce e flessibile primavera, dolce, fresca, sfuggente — corrotta e buona — «un fiore della dolcissima valle del Po», direbbe chi so io.

Eppure, anche tu sei soltanto un pretesto. La colpa, dopo che mia, è soltanto dell’«inquieta angosciosa, che sorride da sola».

Perché morire? Non sono mai stato vivo come ora, mai cosí adolescente.

Nulla si assomma al resto, al passato. Ricominciamo sempre.

Chiodo scaccia chiodo. Ma quattro chiodi fanno una croce.

La mia parte pubblica l’ho fatta — ciò che potevo. Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti.

17 agosto.

I suicidi sono omicidi timidi. Masochismo invece che sadismo.

Il piacere di farmi la barba dopo due mesi di carcere — di farmela da me, davanti a uno specchio, in una stanza d’albergo, e fuori era il mare.

È la prima volta che faccio il consuntivo di un anno non ancor finito.

Nel mio mestiere dunque sono re.

In dieci anni ho fatto tutto. Se penso alle esitazioni di allora.

Nella mia vita sono piú disperato e perduto di allora. Che cosa ho messo insieme? Niente. Ho ignorato per qualche anno le mie tare, ho vissuto come se non esistessero. Sono stato stoico. Era [p. 378 modifica]eroismo? No, non ho fatto fatica. E poi, al primo assalto dell’«inquieta angosciosa», sono ricaduto nella sabbia mobile. Da marzo mi ci dibatto. Non importano i nomi. Sono altro che nomi di fortuna, nomi casuali — se non quelli, altri? Resta che ora so qual è il mio piú alto trionfo — e a questo trionfo manca la carne, manca il sangue, manca la vita.

Non ho piú nulla da desiderare su questa terra, tranne quella cosa che quindici anni di fallimenti ormai escludono.

Questo il consuntivo dell’anno non finito, che non finirò.

Ti stupisci che gli altri ti passino accanto e non sappiano, quando tu passi accanto a tanti e non sai, non t’interessa, qual è la loro pena, il loro cancro segreto?

18 agosto.

La cosa piú segretamente temuta accade sempre. Scrivo: o Tu, abbi pietà. E poi?

Basta un po’ di coraggio.

Piú il dolore è determinato e preciso, piú l’istinto della vita si dibatte, e cade l’idea del suicidio.

Sembrava facile, a pensarci. Eppure donnette l’hanno fatto. Ci vuole umiltà, non orgoglio.

Tutto questo fa schifo.

Non parole. Un gesto. Non scriverò piú.

Note

  1. Omessa una riga [N. d. E.]