Il prato maledetto/VIII

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VIII. Il bando del conte Anselmo

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VII IX
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Capitolo VIII.

Il bando del conte Anselmo.

Quello che io son per narrare, parrà incredibile a molti.

A me basterebbe di premettere che è la leggenda di Cairo, comprovata dal manoscritto di frale Eusebio. Ma posso e desidero, per sua giustificazione e mia, soggiungere ancora dell’altro, che lo renda più chiaro.

Il diritto feudale era stranissimo ancora, quando si cominciò a scriverlo, per scemare gli abusi della consuetudine ond’era stato formato.

Immagini dunque il lettore che cosa potesse essere, a quali follìe del capriccio umano far capo, ne’ primi tempi della sua instaurazione.

Sappiamo già che la terra serva rendeva servo l’abitatore; foss’egli pur nato libero, il [p. 140 modifica] suo fermare stanza sui domini del signore feudatario, o dell’abate d’un monastero, o d’un capitolo di canonici, l’aldione si confondeva a breve andare col servo della gleba.

E tutti quei poveri censuarii che tenevano poderi o campi moventi da un castello, chiamato perciò dominante, acquistavano, per un po’ di sicurezza problematica, la più certa e la più molesta delle servitù possibili.

Un giorno erano richiesti di riparare le fortificazioni del castello; un altro di battere il grano, o di trasportare il vino del padrone; ora dovevano far guardia notturna per lui, ora ferrargli i cavalli, ora adattarsi ad alloggiare e nutrire i suoi cani.

Per far legna nei boschi, per trarre a galla i tronchi di faggio che marcivano nel fondo dei fiumi o dei pantani, per prendere i pesciolini dei borri solitarii, per ogni cosa insomma, che al padrone importasse meno, o di cui ignorasse perfino l’esistenza, dovevano pagare una taglia, un tributo.

Tenuti a lavorare per il padrone finchè luceva il sole, dal San Michele al San Martino, [p. 141 modifica] avevano il magro conforto di un poetico nome: figli del sole!

E uomini della luna si dicevano quelli che erano tenuti a tal prestazione di servizi ad ogni luna novella.

Inoltre, ogni circostanza della vita era argomento e materia di tributo, di taglia. Prendeva moglie il padrone, o qualcheduno dei suoi? Dovevate pagare. In quella vece, vi disponevate a prenderla voi? Dovevate ottenerne il permesso, e quel permesso bisognava ancora comprarlo.

Questa intromissione della volontà padronale nei matrimonii dei servi e dei censuarii diede origine in parecchi feudi ad una vergognosa pretensione, di cui mi dispensa dal parlare la cognizione che tutti ne hanno. Anche troppa, mio Dio! specie dopo tanta erudizione d’operette.

Spesso al gravoso e al terribile degli obblighi si aggiungeva il ridicolo. In qualche luogo i villani erano obbligati a batter l’acqua nei fossi del castello, fino a tanto che la dama fosse nelle doglie del parto, affinchè le rane [p. 142 modifica] non disturbassero col loro canto monotono i suoi delicatissimi nervi. Ed anche senza una ragione come questa, erano obbligati a tal servizio per qualche abate che non poteva soffrire [la voce di quegli innocenti batracii. È ancora rimasta a noi la canzone di que’ poveri villani;

          Pa pa renotte pa!
          Veci messire l’abbé que Dieu ga.

(Zitte, rannocchie, zitte! Ecco qua monsignor l’abate che Iddio guardi). Altrove era obbligo di danze, quando meno se ne aveva voglia, e senza aiuto di musica; oppure di salti e ruzzoloni d’ubbriachi, senza aver bevuto vino, nè idromele, nè sidro. Per segno di servitù bisognava in certi giorni solenni recarsi in processione davanti al portone del castello padronale, e là, ad un per uno, baciarne divotamente la toppa; in altri giorni andar lassù, trasportando un uccello raro e minuscolo, la cui gabbia era posta su d’uu carro tirato da quattro cavalli. Follie, insomma, follie del [p. 143 modifica] diritto feudale, su cui ci sarebbe da scrivere un libro intiero, se già non se ne fossero scritti parecchi.

Rainerio aveva dunque ragione, quando prometteva alla bianca Getruda ch’egli avrebbe immaginato ben altro, per vincere la ritrosia del padre di lei.

Il giorno stesso che quel dialogo era occorso tra lui e la fanciulla, Rainerio partiva sollecito, con buona scorta d’uomini armati, alla volta d’Acqui, recando al conte Anselmo un bel sacchetto di cuoio, pieno d’oboli d’oro. Le visite a mani vuote non sogliono piacer troppo ai padroni; ed è bene andare con le offerte quando si ha qualche cosa da ottenere.

Il castellano, del resto, non offriva niente del suo; solamente portava un mese prima del solito quella parte degli annui tributi che gli aldioni e i censuarii della contea pagavano sempre in arretrato, dopo fatte le ultimo vendite delle provviste invernali; delle castagne, per esempio, delle legna e del carbone, che erano il reddito più forte e più sicuro di quelle montuose regioni. [p. 144 modifica]

Cinque giorni dopo, alla metà d’un bel mattino di festa, sulla piazza dalla chiesuola di San Donato, mentre la gente dei dintorni esciva dai divini ufizi, fu veduto comparire il naso rosso e bitorzoluto di Scarrone, banditore della Camera comitale.

Era a cavallo, il magnifico uomo, e pareva Sileno, educatore di Bacco. E lo seguiva ad onore una compagnia di dieci scherani, o masnadieri, nei quali vi è permesso di riconoscere, da scara e da masnada, antichissime voci, i servi di un conte, ammessi per grazia sua al servizio militare, da cui per regola generale tutti gli uomini di condizione servile erano in principio respinti.

Scarioni, o capi di scara, di schiera, di squadra, erano i servi maggiori, preposti al manipolo.

— Un bando! — gridarono i villici, turbati da quella vista inattesa. — Un bando del nostro signore, che Dio guardi! Che sarà? Una nuova taglia, forse? —

Scarone spinse il cavallo nel mezzo della folla, e impugnata la tromba che portava ad [p. 145 modifica] armacollo, insieme con la spada, diede i tre squilli di rito; poi, in mezzo ad un religioso silenzio, più religioso che non fosse stato quello degli uflzi divini, incominciò a leggere nella sua pergamena.

Era letterato, il banditore Scarrone; letterato per la necessità della sua professione, che lo avvicinava agli scabini, o giudici ordinarli, e ai notai del sacro Palazzo; laddove erano spesso illetterati i conti, che pure intervenivano ai placiti, ossia nei giudizi, e dovevano ben conoscer le leggi.

Maravigliosi giudici, i quali, propter ignorantiam litterarum, facevano un segno di croce!

Or dunque, per non indugiarci in chiacchiere, eccovi ciò che lesse ad alta ed intelligibil voce, e facendo diventar rosso dell’altro il suo naso, quella perla dei banditori:

— “In nomine sanctæ et individuæ trinitatis. Anselmo, per divina clemenza e per favore di Ottone III felicemente imperante, conte e marchese delle terre tra la Bormida e il mare, a tutti voi, buoni uomini, censuarii, aldioni e servi di Croceferrea, di Cairo, di [p. 146 modifica] Ferrania, di Brania e delle corti finitime, il buon giorno e il buon anno. Essendo venuto a mia cognizione che il vecchio e mio buon servo Dodone di Croceferrea ha una fanciulla da marito, nominata Ingetruda, ò animo mio che la detta figliuola di Dodone, da quella savia e costumata fanciulla ch’ essa è, non indugi più oltre a congiungersi in giuste nozze con alcuno dei nostri aldioni, libera di scegliere lo sposo anche fuori della regione dov’è nata, con che detto sposo sia valido al lavoro dei campi, per servizio nostro, e in aiuto del predetto Dodone; della qual cosa egli abbia data prova chiarissima, alla presenza di Rainerio, milite e castellano nostro per le terre di Cairo et ultra verso Appennino, in ciò assistito da due scabini e da un notaio del sacro Palazzo, come si costuma nei placiti nostri.

“È anche piaciuto a noi che la prova consista nel taglio del fieno, per tutto il gran prato che si stende dalla cappella di San Donato infino al manso degli Arimanni, e dal piede della collina, ove corre la strada, infino alla riva sinistra della Burmia; prato che [p. 147 modifica] appartiene in legittimo possesso, come tutte le terre e persone di queste valli e monti circostanti, a me Anselmo, figlio d’Aleramo, conte e marchese; e chi il contrario asserisce o pensa, abbia ad essere giudicato e condannato per mendacio, fino ad essere impeso alla gran torre di Cairo.

“Or dunque, coloro che per ottenere in isposa la figliuola di Dodone, nominata Ingetruda, vorranno sottoporsi alla prova del taglio del fieno, si scrivano nello spazio di sette giorni, compreso il presente, nel registro che a tal uopo sarà indicato dal predetto nostro milite e castellano Rainerio, dichiarando in qual termine di giorni e d’ore si argomentino falciare il prato in discorso; e tra coloro che in minor termine dichiarino di far ciò, sia aperta la gara, che noi vogliamo stabilita per la vigilia di Pentecoste, giorno in cui discese lo Spirito Santo sugli Apostoli, cinquanta di dopo la risurrezione del Salvatore del mondo, e da quel giorno ebbe principio la pubblicazione della nuova legge, ossia la predicazione del Santo Evangelio, [p. 148 modifica] “Dei gareggianti sia tenuto vincitore quegli che nello spazio di una, o di mezza giornata, abbia compiuto tanto lavoro da dimostrare chiaramente che nel maggior termine stabilito avrebbe potuto falciare per intiero il campo predetto. E nel giorno di Pentecoste, susseguente alla gara, siano celebrate le nozze. Così sia e così vogliamo sia da tutti osservato. Signum Anselmi comitis marchionis. Ego Ragimberturs, concellarius, etc. Data anno dominicæ incarnationis nongentesimo nonagesimo, tertii Ottonis regnantis octavo, etc., etc.

La lettura della pagina comitale era stata ascoltata nel più religioso silenzio da quella turba di poveri coloni, aldioni e censuarii, in mezzo ai quali avreste cercati invano i boni homines, ossia gli uomini liberi e riconosciuti come tali dalla superiore autorità. I boni homines, per allora, bisognava andarli a trovare nelle città e nei borghi popolari, dove i conti, i marchesi, i vicari imperiali ed altri grandi personaggi non potevano sperare di assoggettarsi cosi facilmente, come facevano tra le popolazioni rurali, i vecchi avanzi del [p. 149 modifica] colonato romano e i superstiti collegi, o compagnie degli artieri.

E non si rise, ascoltando il banditore, sebbene il suo naso, che diventava via via più rosso e più tumido, ne mettesse voglia a più d’uno. Così, in mezzo al silenzio che v’ho detto, Scarrone finì la lettura con una mezza dozzina di eccetera; e appena ebbe finito, e arrotolata da capo la sua pergamena, per rimetterla nell’astuccio di cuoio che teneva alla cintola, si volse alla turba, domandando, con atto di gran degnazione:

— Avete capito tutti?

— Sì; — risposero d’ogni parte.

Ed egli allora, presa una fiaschetta che portava ad armacollo come la spada e la tromba, ne tracannò beatamente un sorso, levando al ciclo gli occhi cisposi e il naso bitorzoluto. La famigliarità benigna dell’atto diede animo ai più vicini, che strinsero il cerchio intorno al pettorale e alle staffe della cavalcatura.

— Ma come? — domandò uno. — Come bisognerà fare permettersi in gara?

— Oh, per la croce di Dio! — gridò [p. 150 modifica] Scarronne, abbassando la sua fiaschetta e chiudendone diligentemente la bocca col suo turacciolo di sughero. — E vi ho domandato poc’anzi se avete capito tutti; e mi avete risposto di sì! Buona gente, bisogna andare dal castellano Rainerio, e dirgli; io mi sento di falciare il prato in tanti giorni, per ottenere la mano della bella Ingetruda. Perchè m’immagino che sarà bella. Io non la conosco, questa Ingetruda, per cui il nostro clemente signore conte Anselmo ha scritta una così lunga pagina e l’ha munita del suo sigillo comitale. E se non sarà bella, avrà un bel peculio da portare in dote allo sposo: non è vero? Dunque, io dico, chi si sente di falciare, si presenti al castellano. Bisogna essere scapoli, s’intende; gli ammogliati sono esclusi, o corrono il rischio di lavorare per la gloria. Tu, per esempio, che hai parlato, o Ferrario, non hai moglie e figliuoli?

— Io sì, — rispose Ferrario, — ma ci ho un fratello, che non è qui, stamane, e a cui potrebbe convenire la prova.

— E tu dunque dirai a tuo fratello che vada, [p. 151 modifica] e parli al castellano in questa guisa: Io mi sento di falciare il prato in sei giorni, in quattro, in due. Il castellano lo mette in lista; poi vede chi ha detto il più breve spazio di tempo; e allora li chiama tutti e dice loro; Sentite, il tale si ripromette di falciare il prato in tre giorni, in due, che so io? magari in uno. Chi di voi altri, che dicevate di non poterlo fare che in due, si sente di gareggiare con lui? Ed ecco, — soggiunse Scarrone, con aria trionfale, — come va stabilita la gara.

— E va benissimo! — rispose Ferrano. — Ma poniamo un esempio. Se sono otto o dieci a gareggiare per i due giorni, o per uno, e tutti si mettono a lavoro, come si fa? Prima che cada il sole il prato è bell’e falciato.

— È giusto; — disse il banditore. — Ma ci sono gli scabini per fare i conti in anticipazione. Essi vedono d’ora in ora chi abbia fornita la maggior quantità di lavoro, e vedono, in capo alla giornata, o alla mezza giornata, se quel tale, lavorando sempre così, avrebbe potuto falciare tutto il prato nel termine che aveva annunciato. [p. 152 modifica] — Ah! — esclamò Ferrario, acquietandosi.

— Ah! — ripetè il banditore. — E ci voleva tanto a capirla? Coloro che fanno la legge sanno bene da che piede ella zoppichi. Andate, ora, buona gente. Io debbo ancora recarmi a far la grida a Millesimo, davanti alla chiesa di San Pietro.

— Anche quei di Millesimo entreranno in gara?

— Se vogliono, perchè no? La pagina del conte dice chiaro che tutti gli uomini di queste valli possono concorrere. Ma voi altri, giovanotti di Croceferrea e di Brania, sareste davvero uomini di pan di castagna, se vi lasciaste rubare questa Ingetruda, o bella, o ricca che sia.

— È bella, — disse uno per tutti, — e suo padre è in voce di non essere il più povero di queste valli.

— Tanto meglio! Colui che la sposerà potrà dire d’esser nato vestito. E questa bellezza non è venuta oggi agli ufizi divini?

— Sì, c’era; ma alle prime parole che tu hai pronunziate, è fuggita. Capirai.... la vergogna.... [p. 153 modifica] — È naturale, ed io la scuso; — disse Searrone, ridendo. — La modestia torna bene al viso delle ragazze, come il buon vino alle labbra dell’uomo che ha lungamente parlato alle turbe. —

Ciò detto, il prode banditore ne bevve un altro sorso; poi diè di sprone al cavallo.

— Dio ti guardi dal male, o Scarrone!

— E voi, e voi, buona gente; — rispose il banditore. — A noi altri, ora! — soggiunse, volgendosi alla masnada. — Galoppiamo a Millesimo. —

I soldati si mossero, seguitando il cavallo di Scarrone; che veramente non galoppava, ma prendeva il trotterello delle bestie sode, che sanno di portare in arcione una persona di riguardo.