Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/In monastero

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In monastero

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L'ultimo anno ad Altarana - IX Camina
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IN MONASTERO.


Era da oltre a un mese ad ***, in casa dei Goli, dove aveva trovato la sorella cresciuta e imbellita, quando una sera, poco prima di desinare, mentre stava pensando per chi potesse essere il quinto coperto che era stato aggiunto ai quattro soliti, venne il padrone ad annunziargli con un sorriso: — Ratti, una vecchia amicizia! — ed egli vide entrare impetuosamente una signora alta e bruna, che senza lasciargli il tempo di riconoscerla, gli prese tutt’e due le mani e gli diede due baci sulle guance. Era sua cugina, arrivata fresca d’allora, ancora tutta fremente d’aver ricuperato la sua libertà dopo quaranta giorni di vita claustrale, come fece capir subito con un: — Sentirai! — e un sospirone, che parevan la promessa della narrazione d’una fuga dalle cellulari. Il maestro la trovò cambiata anche questa volta: smagrita ancora e come annerita da un viaggietto in Africa; ma più ritta sulla vita, e anche più nervosamente vivace di mosse o di parola, come soglion diventare le ragazze verso la trentina, quando la gioventù grida più forte e s’impazienta perchè non ha più tempo da perdere. Levato che s’ebbe il cappellino, mentre si passava le mani in fretta sui capelli, il maestro osservò la sua bella capigliatura nera un po’ in disordine, che non aveva più visto dopo la gita a Pilona, e riconobbe le mani robuste che avevano [p. 69 modifica]scalcato la gallina così alla lesta sotto quel tal capanno della casetta alpestre.

— Ebbene — gli domandò bruscamente la ragazza, — cos’hai fatto quest’anno? Hai preso moglie? Chi me l’ha detto?... No? Sei ancora a Altarana? T’ho visto con un corto viso a Torino! Come van gli affari? Dimmi tutto in cinque minuti.

Il signore e la signora Goli, che erano una quieta coppia borghese, vicini alla cinquantina, e un poco insonniti da una vita senza varietà e senza pensieri, si divertirono infinitamente a sentir la conversazione calda di quei due giovani, nella quale si mescolavano la scuola, lo Stato, l’amore, l’amministrazione e la chiesa; e i due conlocutori alla loro volta, animati dalla curiosità dei loro ospiti, dal fresco che spirava sulla terrazza dove desinavano, e dalla vista delle montagne e della pianura piene di ricordi della loro infanzia, infervorandosi a mano a mano, finirono, come sempre segue, a provar piacere anche nel racconto dei loro casi più tristi.

— Tutto sommato — esclamò a un certo punto la cugina — non sono scontenta della professione: se non altro si conosce il mondo, e si vive! — Essa era stata nell’Italia meridionale, fra le Alpi, in un’isola, sulla riviera ligure; poteva dire d’aver viaggiato quanto una gran signora. Non ne aveva abbastanza, però. Il suo ideale era sempre Tunisi o l’Oriente.... Ma prima voleva andare in America. Sperava di ottenere un posto nelle scuole della colonia italiana del Plata; era già in trattative e aveva incominciato a studiar lo spagnuolo col metodo Ollendorff. Quei quaranta giorni di monastero le avevano riaccesa più che mai la voglia di spiccare un volo di qualche migliaio di miglia a traverso agli oceani. Ah! quei quaranta giorni! Ella ne avrebbe serbata l’impressione per tutta la vita: erano stati per lei come una corsa a traverso a un mondo sconosciuto, un sogno di sei settimane, da cui non le pareva ancor vero di essersi svegliata; e non avrebbe dato il ricordo di quel sogno per quello d’un’ascensione alla luna. E dire che aveva titubato, quando alla fine del suo anno scolastico a Brilla, le eran venuti a proporre d’andar a fare un corso di ginnastica alle monache! Eran monache claustrali, che [p. 70 modifica]tenevano un educandato, al quale essendo annesse le scuole comunali del paese, l’ispettore governativo aveva imposto la ginnastica obbligatoria anche a loro; il perchè, dopo aver recalcitrato un pezzo, s’eran dovute rassegnare a far venire una maestra laica a prepararle agli esami di patente; col permesso del vescovo, ben inteso. Che strano, che indimenticabile senso le aveva fatto l’entrare in quel luogo, benchè avesse pattuito di poter uscire qualche volta con una donna di servizio! Il convento era bello, peraltro; aveva delle grandi finestre sul mare, un gran giardino con palme e alberi da frutto. Ma la cella che avevano assegnata a lei, piccola e nuda come quella delle monache, le era parsa una tomba, al primo entrarvi. E poi quel silenzio, quelle monache che al suon della campanella sparivano come ombre, quel modo di camminare che avevan tutte, che non si sentivano, e le apparivan sempre davanti all’improvviso, come se uscissero di sotto terra, quel continuo parlar sotto voce, come se dietro a ogni muro ci fosse un moribondo, che tristezza! Erano trenta monache, delle quali dieci maestre; eppure le pareva alle volte d’esser sola in quel vasto edifizio, e le pigliava un affanno, una smania di scappare o di gridar soccorso, come se tutte fossero fuggite di nascosto e avessero murato le porte per farla morir di terrore e di fame.

— Questo non fu che i primi giorni, — disse; — l’insegnamento mi distrasse subito. — C’era la messa alle quattro della mattina, poi le preghiere, la colazione, e dopo la colazione, la ginnastica. Ma quante difficoltà ci eran state prima di avviar le lezioni! Le monache, giusta il regolamento dell’istituto, non si potevano toccare: lei stessa, il secondo giorno, avendone presa una a braccetto in giardino, era stata solennemente avvertita dalla Madre che non lo facesse mai più, poichè non si poteva toccare una monaca se non nel caso che cascasse, per aiutarla a rialzarsi. Per questo, alla prima lezione di ginnastica in cui si sarebbero dovute toccare, le monache ricusavano di eseguire i movimenti, e ci volle il comando del confessore, il quale minacciò di non dare più l’assoluzione a quelle che non avessero obbedito, e l’intromissione della Madre, che le persuase ch’era lecito il contatto in quel caso, per cagion di forza maggiore. Vennero poi i passi [p. 71 modifica]ritmici, nei quali bisognava mostrare le gambe, e lì nacquero nuove contestazioni. Poi altri movimenti, che perevano immodesti, e che furono sottoposti l’un dopo l’altro al giudizio del confessore, il quale rimase in dubbio per due giorni. C’era una monaca di ventisette anni, un donnone, un po’ bizzarra, che non voleva pigliare a nessun costo certi atteggiamenti, e impallidiva dallo sdegno. E infatti era una cosa che destava insieme il riso e la compassione il veder quelle monache saltare con la corona del rosario alla cintura e inciampare nelle tonache bianche, tenendo il capo basso per non incontrare lo sguardo di lei. Ma imparavano, nondimeno. Dopo la lezione, si radunavano fra loro, e ripassavano gli esercizi, comandando per turno, ma con un filo di voce, come se avessero pronunziato delle parole proibite, e fatto una cosa scandalosa. E tutto il giorno ci ripensavano. Ogni momento glie n’entrava una nella cella a farsi chiarire un dubbio. — Signora, in quanti tempi si fa la flessione delle braccia? Signora, in che modo si fa il piegamento del busto?

— E lei — interruppe il Goli — maestra di questi scandali, sarà parsa a tutte un’anima perduta?

— Ma no — rispose la maestra; — mi si affezionarono. Come conoscon male le monache loro uomini! Il bisogno d’affezione, in quelle ragazze, è più forte d’ogni altro sentimento. Una mattina, mentre facevo la lezione, mi prese tutt’a un tratto la malinconia, e mi misi a piangere: mi corsero tutte intorno con gran premura: — Ma che cos’ha? Ma che cosa le abbiamo fatto? — e lì a colmarmi di parole affettuose. — Alcune, la sera, cercavano di persuaderla a farsi monaca, ma sinceramente, si capiva, e con sicurissima coscienza di consigliarle il suo bene. Ce n’era pure delle materialone, che non pensavano che a mangiare, e sopportavano quella vita dura di mal animo; e queste ispiravano una viva avversione a quell’altre, erano il loro scandalo e il loro tormento. Ce n’era parecchie, le quali per far penitenza si dimezzavano anche quel poco cibo, consistente il più delle volte in una insalata di zucche bollite, e spingevano le privazioni tant’oltre, che la Madre, per farle mangiare, doveva ricorrere al confessore che fissasse loro un tanto di pane con l’ordine di finirlo nella giornata. Ce n’erano che andavano a sceglier per sè le [p. 72 modifica]frutta più scadenti, prima che si buttassero via; che pregavano quasi tutto il tempo del pasto, e mangiavan poi quel poco in furia, al momento d’alzarsi, per non sentire il sapore; ce n’era che avevano il viso tutto butterato dalle zanzare, perchè non tendevan la zanzariera di notte, per soffrire. E con tutto questo, studiavano tutte, non solo con un impegno che l’aveva maravigliata, ma con un’ambizione di distinguersi, ch’ella non capiva come potesse andar d’accordo col disprezzo delle vanità umane che la religione comanda, con quello stesso sentimento d’umiltà che in ogni altra cosa esse mostravano. La Madre medesima, già vicina ai cinquant’anni, una donna di forme statuarie, con due occhi bellissimi, che s’imponeva le penitenze più aspre, e ne soffriva a segno da cader qualche volta a terra convulsa ed urlante, non riusciva a nasconder l’ambizione d’essere ammirata per il suo ingegno e per la sua cultura. E non solamente per questo. Ella non avrebbe giurato che non c’entrasse un certo studio nelle pieghe artistiche della sua tonaca e negli atteggiamenti sempre nobili in cui si mostrava. Povera Madre! E questa pure le si era affezionata, e faceva spesso con lei, passeggiando, delle lunghe conversazioni, e anche le dava il braccio; ma dicendole a bassa voce: — Si tenga alla manica.

— Insomma — disse il Ratti — ti ci sei divertita.

— Ah non lo dire! — rispose la cugina. — Ero triste. — Quasi tutte eran tristi. Anche le più sinceramente religiose dicevan troppo spesso ch’eran contente, da potersi credere che dicessero la verità. Avevano sette ore al giorno di preghiera obbligatoria, e il venerdì pregavano con le braccia aperte in croce. Molte eran malaticce, e per guarire mettevano nella minestra delle piccolissime fotografie del cuore di Gesù, che inghiottivano. La monotonia di quella vita le logorava, tanto che, vinte le prime ripugnanze, finiron con benedire anche la ginnastica che variava un poco la loro giornata. Eran ridotte a tal punto di noia, che aspettavano ogni anno con grande impazienza gli esercizi spirituali, perchè ogni volta veniva di fuori un sacerdote nuovo a confessarle, e fin da tre mesi prima non parlavan d’altro, illuminandosi in viso, come se aspettasseroFonte/commento: errore anche in ed. 1890 la discesa d’un dio. Il più grande avvenimento [p. 73 modifica]di cui parlassero da anni era quello d’un prete che, accomiatandosi dalla madre, le aveva baciato il velo. Tutte, in quella vita chiusa e come soffocata che menavano, avevan l’immaginazione stranamente eccitata, come se la gioventù compressa nel loro cuore zampillasse alto in immagini, non si potendo sfogare in altra forma; e in molte, col temperamento fisico, s’era visibilmente alterata anche l’indole dell’animo e la ragione. Ce n’era una che ogni tanto, per la minima cosa, si ribellava alla madre, strepitando, e allora era messa in castigo, come una scolaretta, tra l’uscio e il muro, dove rimaneva per delle ore immobile, piangendo, con le mani sul viso. Un’altra, di natura affettuosissima, malata, che aveva ottenuto il privilegio di ricreazioni straordinarie, correva avanti e indietro pel giardino, come una pazza, per delle mezze giornate, e la notte teneva sveglie tutte con una tosse terribile, che risonava da cima a fondo del monastero, come il ruggito d’una fiera. La notte, in quel luogo di pace, c’era meno pace che durante il giorno. La maestra aveva nella cella accanto una giovane bellissima, la quale chiamava in sogno la mamma, ch’era in America, trenta, cinquanta volte di seguito, con una voce d’una tenerezza e d’una tristezza che straziava il cuore. Oh! come se le sarebbe ricordate tutte per tutta la vita! Ma una sopra l’altre, una monachella che ogni mattina le portava il caffè a letto, con un viso bianco come il suo velo, con certe manine di bimba, dicendo sempre con lo stesso tuono di voce soave: — Deo gratia. Era giovanissima e delicata, aveva due occhi celesti che esprimevano un bisogno immenso d’amore, — e la guardava sempre, e pareva volesse dirle mille cose e non le diceva mai nulla. Costei un giorno, che le parea che la maestra dormisse, entrò in punta di piedi nella sua cella, le diede un bacio sulla fronte e scappò; e per quindici giorni non osò più di guardarla nel viso.

Qui il padron di casa mise un soffio, con certa ostentazione vanitosa, come per cacciare delle immagini che irritassero la sua virilità troppo sensitiva, e disse con affettata impazienza: — Torniamo alla ginnastica.

— Sì — rispose la maestra con un sorriso — torniamo alla ginnastica. Verso la fine del corso le [p. 74 modifica]monache cominciarono a impensierirsi seriamente dell’esame, non per la difficoltà, ma perchè doveva venire una commissione esaminatrice presieduta dal provveditore della provincia, ed esse avrebbero dovuto fare in presenza di uomini, di laici, forse di giovani, quegli stessi esercizi che da principio avevan provato tanta ripugnanza a fare in presenza d’una ragazza. L’idea dei passi ritmici, soprattutto, le faceva allibire. La Madre stessa era inquieta. Cominciò in refettorio, durante i pasti, a far dire preghiere più frequenti, con manifesta intenzione di espiare anticipatamente lo scandalo, che era costretta a tollerare nel convento. Varie monache andarono a confessarsi più spesso per chieder consiglio e coraggio. Durante le ricreazioni nel giardino, con la maestra, non parlavano più d’altro, la tempestavano di domande, se sapesse qualche cosa degli esaminatori, della loro età, delle maniere, se eran celibi o ammogliati, quanto sarebbe durato l’esame per ciascuna, se certi movimenti si sarebbe potuto scansarli, o accennarli appena, invece di compierli, come usavan con lei. Ed essa cercava in tutti i modi d’incoraggiarle. Ma con poco frutto. L’ultima notte, nessuna riposò; ed erano in tale stato d’agitazione, così tra il sonno e la veglia, con quell’idea fiammeggiante nel capo, che, essendo entrato a volo un colombo nella cella d’una, questa, atterrita, si mise a gridare al diavolo, e tutte, vestitesi in furia, si diedero a correre per gli anditi, urtandosi e strillando, fin che accorse la Madre coi lumi. Oh! che senso di pietà le avevan fatto tutte quelle ragazze in tonaca bianca, raggruppate in fondo a un corridoio, con quelle teste senza capelli, che parevan tanti giovinetti malati, vergognose, poverette, e tremanti dalla paura del diavolo e del provveditore!

La Commissione terribile, — continuò la maestra, — venne alle dieci della mattina. E, pur troppo, la figura del provveditore era tale, che pareva stata cercata apposta per dar corpo alle immaginazioni paurose delle povere monache: un capitano dei dragoni, coi capelli già brizzolati, ma con due grossi baffi neri, l’occhio truce, un gran naso, un vocione. C’era con lui un maestro di ginnastica, una faccia lignea che non diceva nulla, e, per fortuna, un ispettore [p. 75 modifica]simpatico, un grasso benevolo e rispettoso. L’esame fu dato in un camerone nudo, dove erano stati messi apposta due crocifissi. Il provveditore s’indispettì fin da principio, osservando il timore eccessivo delle monache, il viso agitato della Madre, che parea che camminasse sui triboli, come se lui fosse venuto là per contaminarle il convento. E cominciò a far le interrogazioni con un accento brusco, che raddoppiò la confusione delle esaminate, dicendo ogni tanto all’una o all’altra, coi denti stretti: — Non si sgomenti, Dio buono! Sono un uomo, non sono un orco. Che cosa le hanno dato ad intendere? — e tirava delle occhiate alla Madre. Ma il peggio fu agli esercizi. Quando vedeva le bacchette intralciarsi nelle corone dei rosari, la Madre fremeva come a una profanazione. Il provveditore insistè in ispecial modo sui passi ritmici, e mentre eseguivano l’esercizio, s’impazientiva perchè non mostravano i piedi. A un tratto, stizzito, esclamò: — Ma alzino un po’ più il vestito, ch’io possa vedere che cosa fanno! — La Madre disse con voce strozzata: — È un’indegnità! — Per fortuna egli non sentì. Ma, se non fosse stata la pena che facevan quelle povere monache così in affanno, sarebbe stato un incanto a vedere la grazia che dava ad alcune quella vergogna, e com’eran belle, rosse a quel modo e tremanti, sotto il velo bianco. Ma si vedevan tanto patire, che lo stesso ispettore voltava il viso da un’altra parte, per non accrescere col suo sguardo la loro tortura. A un certo punto il provveditore mi disse secco: — Interroghi sulla rotazione del busto! — A quelle parole la Madre scattò. — Mi perdoni — disse forte, impallidendo — questo non è che nella ginnastica maschile. — La rotazione del busto fu messa da parte. Ma quell’osservazione inasprì anche peggio il provveditore, al quale pure metteva dispetto il vedere in quella Madre e nelle sue monache tanta ripugnanza alla ginnastica, mentre appunto la maggior parte di esse mostravan nella persona patita e debole d’averne tanto bisogno. E lo disse un po’ aspro, andandosene: — Non abbia tanta paura, reverenda Madre, della ginnastica: non è mica una cosa disonesta: la ginnastica dà la salute; la consigli, la consigli alle sue figliuole, chè farà un’opera santa, e potrà dare ai poveri i soldi che risparmieranno dallo speziale. [p. 76 modifica]

— Ma la Madre era così felice di vedersi liberata da quel supplizio che non sentì la frecciata. E così le monache. Tanta fu la loro gioia, quando la Commissione andò via, che si sarebbero abbracciate e baciate, se non l’avesse proibito il regolamento. E lo stesso giorno si confessarono tutte.

— Che stranezze! — esclamò il signor Goli, che era stato a sentire con gli occhi lucidi. — Mi sarebbe piaciuto vedere i passi ritmici della monachella del bacio. — Ma alla signora Goli spiacque quella uscita, ed espresse di traverso il suo dispetto pigliandosela col Governo. Era davvero un’indegnità, come aveva detto la Madre. Almeno le monache dovevano esser rispettate. E soggiunse: — Il Governo è brutale!

In fine la maestra disse del rammarico che aveva provato al momento della separazione. Alcune le avevano messo un vero affetto. Rientrando nella sua cella essa vi trovava sempre delle bellissime frutta, che le venivano a metter sul tavolino di nascosto. Ce n’era alcune che, passeggiando la sera con lei nel giardino, si vedeva che soffrivano di non poterle almeno stringere il braccio, e si contentavano di farle di tanto in tanto l’atto d’una carezza sul viso, senza toccarla, ma mettendo in quell’atto e nello sguardo un’espressione di tenerezza indicibile. Il giorno prima della partenza, qualcuna le fece delle confidenze. Quella del bacio, fra l’altre, le disse in gran segretezza, asciugandosi le lacrime, che il vederla partire le dava un grande dolore, e che per mostrarle quanto le voleva bene, le avrebbe scritto una volta; che il confessore si sarebbe incaricato d’impostarle la lettera, di nascosto alla Madre; che serbasse poi quella lettera per sua memoria, come il ricordo d’una sorella morta. Il dì della partenza, poi, le si affollarono tutte intorno, le regalarono amuleti, rosari, medaglie, arance, confetti, e siccome le sue tasche non bastavano a contenere ogni cosa, glie ne fecero una apposta, grande, da attaccare sotto il vestito. E tutte piansero al momento dell’addio, e quando fu uscita, corsero tutte alle finestre che davan sulla via del paese. Le finestre, da quella parte, eran sempre chiuse; ma non importa: esse volevano sentire almeno il rumor della carrozza che s’allontanava, e il loro ultimo saluto fu un bisbiglio ch’ella udì di dietro alle [p. 77 modifica]persiane inchiodate, due o tre addii detti a voce bassa, che le arrivarono appena all’orecchio, come gemiti soffocati.

— Ed ora — esclamò la maestra, improvvisamente allegra, ma con gli occhi ancora umidi — andrò in America! Il mio ideale sarebbe d’avere una scuola mista in uno di quei villaggi delle colonie italiane della pianura, dove i ragazzi e le ragazze vengono a cavallo da grandi distanze, a gruppi di quattro o di sei, e prima d’entrare nella scuola, attaccano i cavalli alle inferriate delle finestre.... Che piacere dev’essere, finita la lezione, vederli partir di galoppo tutti insieme e sparpagliarsi in tutte le direzioni come uno stormo d’uccelli! Mi parrebbe come di veder portare il mio pensiero ai quattro angoli della terra da un drappello di messaggieri alati, e di animare il deserto con l’anima mia. — Ma no: essa avrebbe ancor preferito un’altra scuola: una scuola libera e mobile, che tenesse dietro all’avanzarsi della popolazione colonica nelle terre vergini, sui confini della regione degli Indiani. L’entusiasmava quell’idea di far seguire a passo a passo l’abbecedario all’aratro, e di poter dire: — Qui insegno a legger io per la prima dopo la creazione del mondo! — Eppure... c’era ancora un altro ideale più ardito. Essa aveva letto nel Diario de los maestros che dopo lo straripamento d’un grande fiume nell’Argentina, essendo stato allagato l’edifizio scolastico d’un villaggio, la scuola era stata installata per qualche tempo in un bastimento, dove anche avevano adattato un alloggio per la maestra, e che questa faceva lezione sopra coperta, all’ombra delle vele tese. — Io vorrei far scuola, — concluse, — in un bastimento come quello; ma che rimontasse il fiume fino in mezzo alle foreste dove si sentono ruggire i puma e gli iaguar, e far pregare le bambine inginocchiate sul cassero, al rumore delle cascate. Ah! che bei sogni! Chi sa che non se n’avveri qualcuno?

Dicendo questo, era eccitata, e pareva bella, e la sua voce aveva tutto il calore degli ultimi anni della giovinezza; i suoi ospiti la guardavano con la più viva simpatia.

— Niente di tutto questo! — disse a un tratto il padrone, con fare galante, — da un giorno all’altro salterà su un uomo di buon cuore e di buon gusto che [p. 78 modifica]la inchioderà in Europa, e le leverà dal capo l’America e le cascate.

— No, — rispose la ragazza ricomponendosi, con un leggero accento di tristezza, — il mio momento è passato. Del resto io sono una testa troppo stramba da fare una buona moglie. — E subito s’esilarò, a un ricordo. Aveva avuto due sole proposte serie di matrimonio, in vita sua. La prima le era stata fatta a Pilona, da un capraro, vedovo, che aveva una bambina che andava alla sua scuola. Era un uomo di quarant’anni passati. Le aveva fatto la corte un pezzo, e s’era servito d’un mezzo curioso per lanciarle le sue prime dichiarazioni. Faceva scrivere dalla sua bimba delle parole tenere per lei sui margini del quaderno, e ci scarabocchiava sotto il suo nome, appena leggibile. Quando poi essa aveva ordinato alla bimba di non più scrivere, egli aveva cercato di entrarle in grazia e in casa con questo bel pretesto: che voleva prendere delle lezioni di scrittura, nella quale diceva d’esser debole. E lei avendo rifiutato, egli aveva fatto allora la sua dichiarazione a viso aperto con una domanda di matrimonio in tutte le regole, ragionando tranquillamente intorno alla convenienza dell’unione, dimostrandole che egli con la sua mandra e lei col suo stipendio, mettendosi assieme, avrebbero fatto una comoda vita. E c’era voluto del buono a fargli accettare il rifiuto con rassegnazione: il pover’uomo se n’era afflitto davvero, e passava delle ore, durante le lezioni, seduto all’uscio della scuola, a fumare malinconicamente la pipa, ascoltando la sua voce; ed ogni volta ch’ella usciva, ripeteva con ostinazione la domanda, mettendosi una mano sul cuore. Povero capraro! Era forse il solo, di quanti glie l’avevano detto, che le avesse voluto bene sul serio.

— E l’altro pretendente? — domandarono i commensali.

— L’altro pretendente, — rispose la maestra ridendo, — era molto più giovane. — Era un alunno della sua scuola mista di Brilla, un ragazzo di sette anni e mezzo, ambiziosissimo d’esser premiato, il quale le aveva messo nel cassetto del tavolino una lettera scritta in grossi caratteri, con cui le diceva che, se lei gli avesse dato il premio in fin d’anno, o lui o suo fratello, quando fossero stati grandi, l’avrebbero sposata. [p. 79 modifica]

Tutti risero; ma il signor Goli non era soddisfatto di quelle confessioni. — La maestra non confessa tutto, — disse, — c’è qualchedun altro.

— Sì, — rispose la maestra scherzando, — c’è il sindaco di Brilla, che mi fece una dichiarazione in un sonetto, a cui risposi, mandandolo a spasso con le stesse rime.

— No, — ripetè il Goli con aria maliziosa, — non si tratta d’amministrazione comunale, ma del regio esercito.

La maestra arrossì, e parve che provasse dispiacere di quell’accenno. L’anno prima, in un momento d’espansione, aveva raccontato alla signora d’un fatto occorso a Torino, quando essa faceva il corso autunnale di ginnastica alla Palestra, con molte altre maestre. Gli ufficiali d’una caserma vicina avevan preso l’abitudine di venirle a aspettare all’uscita, con tutt’altra intenzione che di condurle al municipio, e il provveditore, risaputolo, era ricorso al generale di Divisione, dietro una paroletta del quale gli ufficiali non s’eran più fatti vedere. Ma uno di essi, un bellissimo giovane, che pareva particolarmente inclinato a lei, e che, per uno strano caso, le rassomigliava tanto (in meglio, ella diceva) da parer suo fratello, le aveva fatto nel cuore una leggiera incisione, di cui non era ancora al tutto guarita.

Accortosi d’aver toccato un tasto troppo delicato, il signor Goli sviò prontamente il discorso. — Insomma, cara signorina, — ripetè in tuon di celia, — lei non andrà in America, o io non ho due occhi nel capo. Tempo un anno, e non farà più scuola.

— No, — rispose la ragazza con accento di mestizia, — la scuola è il mio destino. Solo non vorrei viver tanto da non poter più fare la maestra. Ma di questo non ho timore. Andrò diritta dalla scuola al camposanto. — E levandosi da sedere, eccitata da capo: — Ed ho anche il mio ideale, — soggiunse, — per dopo l’ultimo giorno! — E lo disse: trovarsi in un villaggio dell’Italia meridionale, o della riviera ligure, e che splendesse un bel sole: essere accompagnata da tutte le sue bambine, ma che fossero tutte allegre, con dei mazzetti di fiori, e cantassero una poesia del primo libro di lettura, insegnata da lei; esser sepolta col pacco [p. 80 modifica]dei loro ultimi componimenti tra le mani, ed aver per iscrizione sulla lapide quello che aveva detto Valentino Friedland prima di morire: — Sono chiamata, bambine mie, in un’altra scuola.

Ma dopo quelle parole le entrò in cuore una viva e schietta allegria, che le durò per tutta la strada, mentre i coniugi Goli e il maestro l’accompagnavano alla strada ferrata, dovendo essa partire per Torino. Si soffermava alle cantonate, al lume dei lampioni, a segnare con l’ombrellino i manifesti delle Società di Navigazione, su cui era disegnato un piroscafo, e indicava il posto a poppa dove avrebbe passato le sue serate. Recitò il sonetto del sindaco di Brilla e la sua risposta. Rifece la pronunzia ligure delle sue alunne quando recitavan la lezione. Poi disse l’astuzia che usava nei villaggi per smentire le voci calunniose: appena sapeva che l’accusavano di farsi corteggiare da qualcuno, si metteva subito a dirlo anche lei con ostentazione, e aveva notato che la calunnia cessava subito per mutarsi in un’accusa di vanterìa prima e di menzogna poi, che le era facile di far cadere quando volesse. — Oh! — esclamò, — sono una politicona!

E dal finestrino del vagone disse ancora agli amici commossi, ridendo con le lacrime agli occhi: — Guardatemi bene, sapete? perchè al mio ritorno dall’America non mi riconoscerete più. Sarò molto più nera, parlerò spagnuolo e avrò una cameriera indiana. Oh! vedrete che farò fortuna. Sposerò qualche grande estanciero, fonderemo delle scuole modello per i gauchos. Buenas noches, signori!