Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/In un'isola

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In un’isola

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Frontespizio II L'ultimo anno ad Altarana
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IL ROMANZO D’UN MAESTRO

II.



IN UN’ISOLA.


Uscito dall’uffizio del provveditore, non avendo più tempo di ritornare ad Altarana in giornata, il maestro decise di rimanere a Torino fino alla mattina seguente, e subito si diresse verso corso Palestro per andare a visitare il suo artigianello. Ma un incontro inaspettato gli fece ritardare la visita.

Sboccato appena da via della Cernaia sul corso, vide uscire dalla porta dell’istituto e venir verso di lui una signora, la quale, alla distanza d’un trenta passi, fece l’atto di riconoscerlo e affrettò il passo, sorridendo.

Il giovane non la riconobbe che quando le fu vicinissima: era sua cugina. Era più bella di quando l’aveva vista a Pilona, benchè fosse ancora dimagrata. Aveva un vestimento un po’ strano, una camicietta rosea, delle penne di bersagliere sul cappello; e con quelle penne e con quel colore e con la vivacità allegra di tutta la persona pareva l’immagine vivente del bel tempo primaverile che brillava tutt’intorno.

A tutti e due scappò ad un tempo la stessa domanda: — Come sei qui?

La cugina stava a Moncalieri in casa d’una sua antica compagna della Scuola normale: era venuta a Torino per la morte d’una parente lontana, e aveva approfittato dell’occasione per andar a vedere i due piccoli cugini; dei quali diede al maestro buone notizie.

— Ma tu come sei qui? — gli ripetè; e al vedere [p. 4 modifica]i segni di commozione e di stanchezza ch’egli aveva sul viso, sospettando che uscisse da un convegno amoroso, fu punta un poco da quel sentimento di dispetto geloso che prende più vivamente le donne che gli uomini in simili casi, forse per la maggior prontezza e vivezza con cui la loro immaginazione si rappresenta la cosa. E tornò a domandargli, fissandolo: — Che cos’hai? di dove vieni?

Il giovane disse mezza la verità, di mala voglia. Quello strano incontro, che veniva quasi a rompere la sua commozione e il suo raccoglimento, lo sturbava, benchè la cugina gli piacesse. Questa se n’accorse, e gli domandò in tono risentito se lo seccava; ma il sorriso ch’egli fece vedendola mutar modi così a un tratto, la rabbonì. — Mi pareva, — disse, e tornò allegra. Non credette però alla storia del provveditore, ed eccitata da una punta di gelosia, sbrigliò una parlantina febbrile.

Non avendo più avuto notizie sue dopo una lettera ch’essa gli aveva scritto da Pilona a Piazzena, il giovane credeva che fosse rimasta in quella borgata di montagna fino all’anno innanzi.

— Ma che Pilona! — esclamò essa. — Io ho varcati i mari. — Era stata due anni in Sardegna, n’era tornata appena da quindici giorni, con una licenza straordinaria, per una cura che doveva fare. Oh! due anni beati. Un paradiso terrestre. Era nella città di ***, in un orfanotrofio tenuto dalle suore di carità, al quale era annessa una scuola cittadina: essa insegnava alle alunne esterne: cinquanta ragazze dai sei ai quattordici anni. Stavano in un convento vastissimo, che aveva dei corridoi grandi come strade, in cui risonavano i passi e le voci come nelle gallerie d’un palazzo reale; e c’era un vecchio torrione, con una terrazza sulla cima, di dove si vedeva da un lato la pianura verde d’oliveti e i monti rocciosi e bruni, e dall’altro il mare, il suo amore. — E tu, — domandò al giovane, — come ti trovi ad Altarana? — Ma non aspettò la risposta. Quella era la natura che piaceva a lei, la natura rigogliosa e solitaria della Sardegna: piante di fichi d’India alte come case, selve d’aranci, campi coperti di cavolfiori e di carciofi enormi, dove poteva passeggiar per dell’ore senza incontrar nessuno, come in un orto immenso che le appartenesse. C’era accanto al convento [p. 5 modifica]un giardino pien di mistero; un frutteto miracoloso, dove i fiori e le melagrane che cadevan dagli alberi, grosse come teste, coprivan l’acqua delle peschiere. E muschio da tutte le parti, un profumo che empiva l’aria e inebbriava come un liquore. E pareva che ne risentisse ancora gli effetti, tanto ne parlava caldamente, con un gesto concitato, che attirava lo sguardo dei passanti.

Vedendo che il giovane l’ascoltava con aria distratta, s’eccitò anche di più. Magnificò la sua scolaresca. Le sue cinquanta alunne appartenevano alle prime famiglie del paese, al fiore dell’aristocrazia e della ricchezza. Certo, essa non era di quelle che fanno gran caso.... Ma la scuola era bella per l’educazione squisita delle ragazze, per la cortesia principesca dei parenti; tanto più per lei, che era stata tre anni in mezzo alle caprare di Pilona. Bisognava vedere nella stanza d’entrata, c’era pieno di mantellette di velluto, di casacchine di seta, di pelliccie delle più fini. E i vestimenti d’estate! La scolaresca pareva un’aiuola di fiori. C’era all’entrata e all’uscita un rimescolìo di signore, di cameriere, di servitori in livrea, e i giorni di pioggia, carrozze dietro carrozze. Le parenti delle alunne, patronesse dell’orfanotrofio, le regalavano dei nastri di seta, delle spille, dei pettini di tartaruga; venivano la sera a farle visita nella sua camera, dopo che le suore erano andate a letto, e la trattavano come un’amica, ma con una delicatezza di maniere, con una cordialità così nobile.... E prese a far l’elenco dei nomi e dei titoli, con dei gesti larghi e cerimoniosi.

Al maestro venne in mente la favola del topo di città che racconta le sue splendidezze al topo di campagna. Quei discorsi, in fondo, rivelavano molta ingenuità, una di quelle nature calde e facili che pigliano l’impronta del mondo in cui vivono, come certe piante, il colore del concio; nature che, senza violentarsi, si fanno umili coi poverelli, e, senza corrompersi, invaniscono tra i signori. Semplice e modesta tra le montagne, per effetto dell’esperienza recente della sventura, sua cugina usciva un po’ fatua e affettata da due anni di lieta vita in mezzo alla società signorile; non mutata, però, che a fior di pelle, e sempre buona di cuore. Ma accade che certi caratteri amabili dispiacciono a chi ha pratica d’altri più eletti, come certi buoni sapori [p. 6 modifica]gustati dopo altri più fini, con cui non s’accordano; e così spiaceva ora la cugina al maestro, poichè la raffrontava a ogni parola e a ogni gesto con la sua amica d’Altarana. E per levarla di dentro a quel fumo di grandezza le domandò con insistenza: — Ma la scuola?

La scuola! Era uno spettacolo, un’esposizione di bellezze. Le prime volte essa aveva quasi sentito suggezione davanti a tutti quegli occhi neri e pensierosi. Eran tutte ragazze brune, coi capelli nerissimi, con dei grandi archi neri sopra gli occhi neri. E anche quello strano dialetto che parlavan tra loro, del quale non capiva una parola neppure la superiora, dopo nove anni ch’era là, gliele faceva parere creature quasi misteriose. Infatti, eran tanto diverse dalle nostre! Ma lei, già, era innamorata della Sardegna, non si poteva più patire nell’Italia Subalpina. Qui le ragazze eran troppo chiuse, fredde, e poi le bambine così bambine.... Là, invece, a otto anni, eran già caratteri scolpiti; le pareva d’aver da fare con delle piccole donne. Buone o cattive che fossero, si palesavano dai primi giorni, in modo da non lasciar dubbio nessuno. Alla buon’ora! L’ufficio di educatrice era semplificato. E che forza di sentimento! Quella era una razza che le piaceva, che aveva dei nervi e del sangue. Ci aveva delle ragazze che le volevan tanto bene, che arrossivano quando essa entrava in scuola, e le esprimevano il loro affetto ogni volta che potevano, anche di sfuggita, con poche parole, ma così sentite e vibranti, che le restavano come confitte nell’anima. E come nell’amore, eran nell’odio. Oh! lei lo confessava. Ce n’era di quelle che non la potevan vedere, che l’odiavano, senza un perchè al mondo, per antipatia d’istinto, a segno tale ch’essa non riusciva a cavarne nulla nemmeno negli studi. Ma c’era questo di buono: non le nascondevano l’animo loro, non l’adulavano in viso per lacerarla di dietro: le facevano una guerra aperta. Meno male. Essa amava i caratteri fatti così, i franchi odiatori, come diceva il ministro Bismarck. E così usavan fra di loro: c’eran delle coppie d’amiche che avrebbero data la vita l’una per l’altra, delle nemiche che si sarebbero fatte strozzare piuttosto che toccarsi la mano. E anche tra le più piccole: bimbe di sei anni che davano in smanie quando una loro compagna era punita; ed altre, della stessa [p. 7 modifica]età, che per una parola si mettevan le mani agli occhi e s’addentavano come piccole belve, in un canto, senza far rumore, e quella che rimaneva malconcia, non rifiatava. — Ecco delle creature viventi! — concluse. — E tu che gente hai trovato a Altarana?

Ma nemmeno questa volta lo lasciò rispondere, e tirò innanzi. Ah! i piemontesi, fiori d’inverno! Non ce n’era neanche l’idea fra di loro della espansione affettuosa ch’essa aveva trovato laggiù.... Ed era stata fortunata in tutto. S’era fatta un’amica, fra le altre, una suora francese, sotto maestra, che insegnava il francese alle esterne, una creatura unica al mondo, un angelo.... che aveva l’idea fissa d’andar con le missioni in China a riscattare i bambini per la Santa Infanzia, ed era così accesa in quell’idea, che quando ne parlava, le pigliava un tremito e mutava viso, e ne parlava perfino in sogno, chiamando quei bambini ad alta voce, come se li vedesse. Era stata sui campi di battaglia nella guerra del settanta, aveva soccorso dei moribondi, di cui ripeteva le ultime parole, aveva visto amputazioni e agonie orrende, e udito poi continuamente, per delle giornate intere, le grida dei soldati che le eran morti fra le mani, come se l’eco gliele ripetesse da tutte le parti; e con tutto questo, aveva conservato tanta delicatezza di sentimento che per una sbucciatura che si facesse una bimba ad un dito accorreva col cuore in affanno, e di qualunque dolore, anche di gente sconosciuta, soffriva, come se ella stessa ne fosse stata la causa, senza volere. Oh la divina creatura! Tutto quello che le usciva dalla bocca pareva una preghiera. Si sentiva il soffio d’un’altra vita, a udir la sua voce.

Il maestro la guardò: era commossa; non pareva più quella di poc’anzi. — Sei stata felice, dunque, — le domandò il giovane, — non hai avuto nessun dispiacere? nessun contrasto?

— Nessun contrasto, — rispose, — nessun dispiacere. Son stati due anni di pace immensa. — Tutto era pace, nel convento e di fuori. Perfino quegli uomini dai capelli lunghi, coi calzoni bianchi e le ghette nere, ch’essa vedeva dalla finestra sdraiati per ore ed ore sulla piazza, od occupati a giocare a castelletto con le noci, come bambini, e che desinavano con un [p. 8 modifica]cesto di lattuga che tenevan sotto il braccio, gli davan l’idea d’un popolo antico, semplice ed amabile. Le notizie delle guerre e delle vendette sanguinose tra famiglia e famiglia non arrivavano al convento che come voci d’un mondo lontano.... Non accadeva nulla, intorno a lei, che turbasse la sua quiete. Ed era libera. Mangiava sola in un grande refettorio, ed era trattata come una gran signora. Dormiva in una camera appartata, grandissima. Usciva quando voleva, non accompagnata che da un’orfanella, che le faceva da cameriera. Ma non aveva bisogno d’uscire. Veniva tanta gente a trovarla in casa! Il convento era come una reggia per lei. E poi.... la suora francese l’aveva ricondotta alla fede. Alle volte, la sera, stando tutt’e due alla finestra, al lume della luna, dopo aver discorso di molte cose, la suora le diceva: — Preghiamo, — e giungeva le mani, e allora essa pure, guardando quelle montagne e quella distesa immensa d’oliveti, pregava, essa pure col cuore, come non aveva più pregato da bambina.

E ricadendo a un tratto nella mondanità, — Giusto, — disse, — ci ho qui una croce, — e la tirò fuori dall’abbottonatura della camicetta rosea; — una croce d’oro che mi regalò la marchesa Ortu; una marchesa che potrebbe esser regina. Quella è un’amica per me.... più che un’amica. Mi adorava. Voleva a ogni costo che io andassi istitutrice nella sua famiglia, che sarei stata tenuta come una principessa; ricorse perfino al confessore perchè mi persuadesse. Mi faceva andare a casa sua, e quando c’ero io non riceveva nessuno: una cosa, ti assicuro, da farmi insuperbire. Mi ha scritto due giorni dopo che son partita... una lettera! Non si scrive così che a una sorella. Quella è un’amicizia che serberò fino alla morte. Oh che buona, che dolce vita! È il mondo della cortesia e della grandezza!

— Vi ritornerai volentieri, — disse il maestro.

La cugina rispose sventatamente: — Non vi torno più. Mi son licenziata.

Il giovane restò con la bocca aperta. — Licenziata? E perchè mai? — E gli balenò il sospetto d’un amore andato a male, d’una persecuzione, della gelosia di qualche signora potente.

— Perchè mi son licenziata?... — domandò la [p. 9 modifica]ragazza alla sua volta, per pigliar tempo a rispondere, arrossendo leggermente. Poi disse con vivezza: — Oh bella! Perchè ci fa troppo caldo. Ah! tu non hai una idea di quell’estate! Dei calori da zona torrida, delle giornate che ti manca il respiro e ti va via la testa. E poi l’acqua cattiva. Del resto, tu sai, io ho bisogno di cambiare. Ed anche... ero troppo sola. Ma tu, come ti trovi a Altarana? — E, fissandolo, ripetè la domanda di prima: — E di dove vieni ora?

Il maestro le assicurò che aveva detto la verità, e tornò all’assalto, guardandola negli occhi, con un sorriso: — Ma ti sei proprio licenziata per il caldo?... Ci dev’essere sotto qualche cos’altro.

Di nuovo le sbocciarono due fiori rossi sulle sommità delle guancie; ma disparvero subito. — Non c’è sotto nulla, — rispose, col viso serio; — ma tu, come ti trovi ad Altarana?

E questa volta il maestro dovette e potè rispondere, e raccontò una parte della sua storia, seguitando a andare in su e in giù per il corso Palestro; seccato però, a quando a quando, dallo sguardo curioso dei passanti, nel quale appariva quel discernimento fine che ha la gente d’ogni età e d’ogni condizione a riconoscer per la via due giovani di sesso diverso non legati nè da matrimonio nè da parentela strettissima; forse da quell’ombra di suggezione che mostran sempre d’avere del pubblico, non foss’altro che pel sospetto d’esser sospettati. Ma ai passanti non badava la cugina, che stava tutta intenta alle sue parole, forse anche per correggere la impressione non tutta favorevole che le pareva d’avergli fatta col principio e con la fine del suo discorso. E per correggerla affatto mise nelle parole di commiato l’espressione schietta della sua natura. — Ricordati di me, — gli disse. — Sono un cervello un po’, come dicono, svolazzatoio.... forse perchè ho perduto troppo presto mia madre. Ma... son buona. E poi, sono la tua unica parente grande.... Ho un po’ di diritto a essere benvoluta. — E gli porse tutt’e due le mani, guardando all’intorno in atto di sfida.

Il maestro le domandò dove stava.

Rispose che stava da un’amica, e soggiunse con un bel sorriso, un po’ triste: — Tu sai... le maestre sono [p. 10 modifica]come le monache: trovan da alloggiare da per tutto senza andare all’albergo.

Quel sorriso ridestò nel giovane tutta l’antica simpatia. — Ed ora, — le domandò, — sei senza posto?

Ne aveva uno in vista, per il prossimo anno scolastico, a Brilla, sulla riviera ligure. — Ma sai, — soggiunse, — il mio pensiero è sempre lo stesso... l’Africa, l’Oriente.

E dicendo questo, era già discosta da lui di alcuni passi; e l’ultimo suo gesto, accompagnato da un sorriso malinconico, accennò un paese lontano.