Il sorbetto della regina/Parte prima/V

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Parte prima - V. La finestra si chiude, la porta si apre

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CAPITOLO V.


La finestra si chiude, la porta si apre.


Bruto era rientrato in casa vivamente preoccupato. Quelle poche frasi scucite del burattinaio erano state come una chiave che avesse aperto uno scompartimento ignoto della sua anima; qualche cosa rivelavasi in lui. Una delle forze del suo spirito si risvegliava. L’intensità di questa forza importava poco; che essa fosse o no predominante, la quistione non era lì.

È certo che quella educazione disordinata, informe, che toccava a tutto, si sottraeva ad ogni analisi, non seria, ma quasi enciclopedica quella educazione da commesso viaggiatore d’un veterano che aveva verificata la geografia mediante le battaglie, che aveva esaminato monumenti a forza di puntarvi contro il cannone, che aveva imparato le lingue europee nei bivacchi e nelle osterie; in una parola quella educazione così mescolata, così bizzarra, che Bruto aveva ricevuto dal sergente, aveva [p. 43 modifica]deposto e nutrito nel suo spirito un lievito di poesia, di cui egli non aveva neppur coscienza.

Al primo tocco, ciò scoppia fuori. E ciò getta l’anima del giovine in un mondo sconosciuto che l’agita e la confonde. La poesia è luce. Al primo colpo d’ala, Bruto aveva veduto il burattinaio quasi trasformato; al riverbero di quella luce, egli si sentiva zampillare dal petto un getto di vita novella. Il contadino sciocco, insipido, balordo, lo stupido provinciale d’ieri rompeva il guscio e gettava le scaglie.

Un’ora ancora, ancora un soffio, una corrente di questa fiamma, che lo avvolge, ed egli è artista — cioè l’espressione la più ridente, la più profumata dell’aristocrazia del pensiero.

Ritornando a casa, per la prima volta Bruto s’accorse che il bugigattolo di suo zio era infetto; che le bestie, alle quali il sagrestano dava ospitalità, ne assorbivano metà dell’aria respirabile e ne raddoppiavano i miasmi.... Non so come quel malfattore si adoperasse per nascondere i suoi assassinii a don Noè e a Tartaruga.

Il fatto sta che, due giorni dopo la visita a don Gabriele, i conigli dei sagrestano cuocevano lentamente a stufato nella casseruola di Tartaruga, la gabbia ove brulicavano i sorci d’India, era stata aperta dal gatto, che li aveva divorati; e poi alla sua volta, per timore forse d’una punizione severa, il gatto era scomparso; i due cani di Tartaruga erano andati in cerca del mariuolo e non erano più tornati; i pollastri non cantavano più, stavano rannicchiati, [p. 44 modifica]tremavano come se avessero la febbre, sicchè la serva, vedendoli sul punto di crepare, prese la risoluzione di torcer loro il collo.

La gabbia dei canarini e dei merli era vuota; la gazza, la cornacchia e la civetta, prese da vertigini, si erano precipitate in istrada ad ora indebita, e Dio sa dove erano andate a far gazzarra; il pappagallo querulo, ostinato, petulante, bestemmiatore, che rispondeva amen alle preghiere di don Noè, ed ora pro nobis alle litanie di Tartaruga, quel pappagallo testereccio, per un miracolo inesplicabile, s’era arrampicato sulla punta della croce della chiesa, come una banderuola, e a don Noè, che lo chiamava Titi per farlo rientrare nel suo domicilio, rispondeva col famoso giuramento di Benedetto XVI; poi alla sua volta Titi disparve e non se n’ebbe mai più notizia — malgrado l’onesta ricompensa offerta da don Noè.

Infine le tortorelle caddero sopra le ginocchia della bella cucitrice che stava là di faccia, ad uno stender di braccio. E, miracolo ancora più grande, in mezzo a questo cataclisma, a questo sbaraglio nel domicilio del sagrestano, vedesi Tartaruga che, un bel mattino, colla granata alla mano, ripulisce, raschia, spazza e arriva fino a lavare i mattoni del pavimento; la finestra è aperta a due battenti; il sole, un bel sole dorato del mese d’agosto, inonda in pien meriggio le due stanzette.

Due giorni erano bastati a questa metamorfosi, preceduta da un Waterloo. Chi l’aveva operata? Bruto — quel Bruto, che si era rivelato sotto la parola del burattinaio, che gli aveva [p. 45 modifica]detto: “Farò un dramma,„ a cui egli aveva risposto: “Ho un’idea ancor migliore.„

— Un’idea migliore! corbezzoli! bisogna trovarla, giovinotto.

Bruto non s’era recato a scuola. Andò girandolando sulla riva del mare, alla Villa Reale, sulle colline, al chiaro di luna; perchè aveva sentito dire che le idee poetiche non fioriscono che là e che altrove non germogliano.

Il fatto è che questa idea promessa, non l’aveva trovata. Aveva fantasticato d’una Giuseppina idiota per introdurla in un dramma e aveva finito col pensare al sergente e che sarebbe stato felice di potergli scrivere un giorno: “Vieni, sergente, la tua Giuseppina è duchessa... o serva di un notaio,„ non monta.

Non avendo trovato l’idea al chiaro di luna della Villa Reale, Bruto restò in letto il giorno dopo, nella speranza che essa venisse alla luce del giorno più comodamente sul suo magro lettuccio. Bruto si alzò e, mentre Tartaruga sgusciava i piselli, passeggiò per la stanza colla finestra aperta. Faceva le viste di tener gli occhi volti al cielo, come se cercasse una rima. In realtà rimirava quella bella giovinetta che lavorava rimpetto a lui, così vicino, che, quantunque fosse dall’altra parte del vicolo, l’udiva respirare. Pertanto restava silenzioso.

Tutto ad un tratto, Bruto vede la testa della ragazza volgersi vivamente verso il fondo della stanza e sente il rumore d’una porta che si apre e si chiude e una voce che brontola; in pari tempo vede cadere sulle ginocchia della fanciulla un involto di biancheria. [p. 46 modifica]

— Ebbene, mamma! domandò questa con ansietà.

— Nulla, rispose una voce dall’interno.

— Come nulla? replica la ragazza disfacendo l’involto.

— Nulla, nulla! che Dio la castighi, quella pettegola che non ha viscere di cristiano! sclamò la voce.

— Ma insomma, perchè mi riporti questa biancheria?

— Perchè? perchè quella beghina mi ha detto, gettandomela dietro, che i Riut Lamada sono conti e che tu hai ricamato su queste pezzuole e su queste camicie una corona di barone. Hai capito ora?

— Ma il modello?

— Oh! il modello? ebbene il modello era di una pezzuola data dalla Regina. Ora, i Riut Lamada, mi ha detto la cameriera, sono baroni alla corte e conti in città. Ecco un nuovo modello. Bisogna ricominciar da capo.

— E non ti hanno pagata?

— Pagato? Che Dio mandi loro la miseria. Ho dovuto supplicare piangendo per ottenere ancora del lavoro. E tu devi scucire, poi ricamare di nuovo una corona come quella che vedi su questo pezzo di carta. Capisci?

— Ed intanto?...

— Ah! hai fame? bene, roditi i gomiti. Intanto... chiedi?... Sì sì, tu credi che quella gente comprenda che vi sono dei poveri che hanno fame! Ma i loro gatti, i loro cani stessi non mangiano più pane. Quelle bestie aristocratiche non conoscono la fame. E vi sarebbero due [p. 47 modifica]povere donne che da trentasei ore non hanno mangiato che due soldi di pane? Baie! non è possibile, non è verisimile: la è un’impostura da mendicanti! E crepa. E, sopratutto, lavora. Hanno fretta.

— Oh! non è tanto per me, mamma, disse la fanciulla con voce commossa. Io non ho fame; non ci penso; vedi, io canto la Linda, la Sonnambula, ma... e tu?

— No, no, per la Vergine Santa, non la può continuare così. Lascia stare, una volta per tutte, gli scrupoli, i capricci, le ubbie che ti passano pel capo.

— Ma a che proposito mi dici queste cose, mamma?

— A proposito di che? Vediamo, Lena, finiamola. Questa vita di miserie non può durare. Finchè ho potuto darti di che vivere, nulla mi ha fatto indietreggiare, nè mi ha fatto paura. Ho fatto perfino la serva. Ora ho quarant’anni. Non sono più buona a nulla, coi miei sudici stracci, di cui non vorrebbe neppure il cenciaiuolo.... Pure non era attagliata per servire, io. Sta bene. Tocca a te ora a darmi da vivere. Hai diciott’anni.

— Ma, mamma, io non domando di meglio che di lavorare; di giorno, di notte, a tutte le ore, farò tutto.

— Sciocchezze! Il lavoro è il padre della fame, l’avo della miseria. Dio non ha creato la bellezza per lavorare, come non ha creato il fiore per farne la zuppa. La signora Terenzia Brocchi, che ho conosciuta ganza d’un calzolaio, è ora presidentessa e non mi conosce più. [p. 48 modifica]La signora Emilia Salvi, che nel 1824 era la moglie d’un tintore, ora gode la pensione di vedova d’un sotto-intendente. Io sola, la più bella, la più invidiata, sono caduta, e di caduta in caduta, mi sono sprofondata ove siamo ora. Aver fame, non è niente; aver freddo, non è nulla ancora; esser battuta, gettata in un canto come un rifiuto, non è nulla; domandar la carità, non è nulla ancora, nulla, nulla....

— Mamma!

— Non è nulla, ti dico: l’abitudine raddolcisce tutte le asprezze; si respira nel cielo come l’aquila, o nelle fogne come i sorci. Ma ciò che è implacabile gli è il ricordarsi d’esser stata bella, felice, rispettata come una Madonna, comprendere il bello, il buono, la virtù, l’onore, il lusso, l’amore e sapere che tutto questo è irrevocabilmente perduto. Oh! se avessi sedici anni!

— Ne ho diciotto, mamma, disse la ragazza, e soffro, mi rassegno e canto. Fa altrettanto anche tu.

— No, per Dio, no, Lena, ascoltami bene. Io ti aveva messa sulla via della fortuna e tu hai indietreggiato.

— Quale, mamma?

— Il teatro....

— Ah! corista a San Carlo.

— Corista a San Carlo non diventa chi vuole. Ma credi forse che io ti avessi cacciata colà per esser corista, per vederti questa sera duchessa, domani contadina, dopo domani strega, un altro giorno raggio di luna, ciabatta, ruggito di leone, coda di cavallo e che so io? Scioc[p. 49 modifica]chezze! Stravaganze! non mi basterebbe neppure che fossi seconda donna!

— Ma allora?

— Allora? il palco scenico per una bella ragazza come te, è come l’altare per la Madonna e le nuvole per gli angeli. Là si adora.

— Là si compra e si vende, mamma! sclamò la fanciulla indignata.

— Sciocca, vorresti dunque donarti tu!

— Mamma, è inutile ritornare sul passato, disse Lena dolcemente. Sono stata due mesi al San Carlo. Sai che cosa avvenne. Sai le persecuzioni infami che vi soffersi, gli attacchi, gli insulti, le offerte.... No; non vi ritornerò più. Ve ne sono di quelle che amano i diamanti, fossero pur falsi. Io preferisco la viola.

— Lena, vengo ora dalla signora Tessari, la potente regina del teatro dei Fiorentini. Questa eccellente donna m’ha detto che da questa sera tiene disponibile per te un posto nel suo teatro. M’ha detto anzi di più: offre d’istruirti, di affidarti delle piccole parti e poi... meglio ancora, se vuoi studiare a venticinque grane al giorno. Ella ti scrittura. Voleva una risposta avanti a mezzogiorno; gliel’ho portata alle dieci. Sei scritturata.

— Giammai.

— Oh! oh! giammai? Rifletti, figliuola mia. A diciott’anni, con quegli occhi, con quel corpo, con quei capelli, con quella carnagione, quella taglia, con tanta melodia nella voce, con quella bocca e quei denti, con quelle mani e quei piedi da regina, con quel raggio nella fisonomia che ti fa rassomigliare a Santa Cecilia, con [p. 50 modifica]quella flessuosità di tutta la persona... con tutte queste cose, quarantotto ore senza pane, lavorandone quaranta... rifletti.

— Giammai!

— Rifletti, figliuola, che ho promesso. Rifletti che Dio non vuole che si lasci morir di fame la propria madre quando si può darle più che del pane: l’opulenza, il lusso, più ancora: la vita, il sorriso, il trionfo, la tranquillità della coscienza, il paradiso. Rifletti, Lena. I diciotto anni passano. A vent’anni la rosa è interamente sbocciata. A trenta è avvizzita ed i petali cadono. Il tempo appartiene a Dio, il grande usuraio. Chi non traffica, fallisce e ne è punito. Tu hai orrore delle esibizioni: io sono stanca dei rifiuti. Tu hai paura delle porte che si aprono per lasciarti passare in carrozza; io cado affranta e martirizzata dinanzi a quelle che si chiudono. Una cecca, la cui cameriera racconta ogni fatta di cose, mi getta sulla faccia il tuo lavoro e mi scaccia. Ed io non mi conosco sapore di pane da trentasei ore! Misericordia di Dio! no, ciò non deve essere. Lena, questa sera tu esordirai ai Fiorentini. Nascerà quello che nascerà.

— Ti dico no, mamma, giammai!

— Ah! la prendi su questo tono? gridò la donna, avanzandosi verso la finestra ove stava sua figlia. Ebbene; a noi due allora!

Bruto, ritto dinanzi alla finestra, non aveva perduto una parola di quel dialogo. Lena, rivolta verso sua madre, non aveva pensato che vi potesse esser qualcuno che le ascoltasse: e la madre in fondo alla stanza non aveva scorto [p. 51 modifica]il giovanotto. Quando costei s’avanzò verso la figlia, i suoi sguardi e quelli di Bruto s’incontrarono, parvero le due scintille che compongono la folgore.

Bruto, che l’aveva non pertanto veduta spesso, non la riconosceva quasi più in quel momento. Quella megera, grande, gialla, gli occhi iniettati di sangue e di bile, le labbra grigie, con qualche ciocca di sucidi capelli in disordine, si avanzò, o piuttosto balzò, verso sua figlia, ghignando colle unghie protese in avanti, coi lineamenti sconvolti. Faceva orrore. Alla vista di Bruto indietreggiò, poi, di uno slancio, si abbattè sulla finestra e la chiuse.

Bruto rimase atterrito. Il sangue gli affluiva al cuore. Non respirava più.

Seguì un istante di silenzio. Poi egli udì un grido acuto. Nel punto stesso, la porta della sua stanza s’aprì e una voce insinuante domandò:

— Zia, avreste per caso una bragia per accender la pipa?

Bruto si voltò e vide don Gabriele che gli faceva dei segni.

Tartaruga gli diede la bragia e don Gabriele aggiunse:

— Grazie, la vecchia, e se ne andò.

Bruto restò un momento ancora ad ascoltare, poi lo seguì sul pianerottolo. Don Gabriele gli disse a bassa voce:

— I cani hanno trovato le traccie.

— Di chi?

— Zitto!