Istoria del Concilio tridentino/Libro ottavo/Capitolo V

Da Wikisource.
Libro ottavo - Capitolo V (16 luglio-16 agosto 1563)

../Capitolo IV ../Capitolo VI IncludiIntestazione 21 dicembre 2021 75% Da definire

Libro ottavo - Capitolo IV Libro ottavo - Capitolo VI

[p. 271 modifica]

CAPITOLO V

(16 luglio -16 agosto 1563).

[Si propongono i canoni del matrimonio. — Ricevimento del vescovo di Cortona, nuovo ambasciatore mediceo. — Congregazioni sul matrimonio: i francesi propugnano l’annullamento dei matrimoni clandestini. — Esame degli impedimenti del matrimonio. Discussione sull’autoritá dei principi e dei parenti a impedirlo od imporlo. — Disaccordo fra il concilio e l’inquisizione spagnola sull’ortodossia dell’arcivescovo di Toledo. — I legati comunicano gli articoli di riforma agli ambasciatori, che presentano le proprie osservazioni e richieste. — Nuove difficoltá create dal conte di Luna, mentre il Lorena finisce per accordarsi coi legati. — Congregazioni sui canoni riformati. Ancora sui matrimoni clandestini.— Su richiesta dei veneziani si corregge il canone del divorzio per adulterio. — Disputa sul potere della Chiesa nei matrimoni e sulla necessaria presenza del sacerdote.]

Mentre questi vari pareri andavano attorno sopra quelle materie riservate per ultime, deliberarono li legati di espedir quella del matrimonio, con disegno di abbreviar il tempo della sessione e tenerla al piú longo ai 19 d’agosto. Il che anco piaceva molto al Cardinal di Lorena, il quale, avendo avuto risposta di Francia che dovesse satisfar al pontefice coll’andar a Roma, aveva risoluto di farlo in fine del mese, quando però la sessione fosse celebrata. Egli per il vero era costretto a restringersi col pontefice e con li suoi, non solo per gli ordini di Francia ricevuti, ma ancora perché li imperiali e spagnoli erano entrati in qualche diffidenzia di lui, per le cose successe nel trattar la materia della precedente sessione.

Il dí 22 luglio furono dati fuori li anatematismi, poco differenti dal modo con che infine restarono poi stabiliti. La maggior varietá fu che sino allora non si era pensato a quello che [p. 272 modifica] è quinto in numero, e danna li divorzi concessi nel codice giustiniano; il qual anatematismo fu aggionto ad instanzia del Cardinal di Lorena, per opponer alli calvinisti e dannar la loro opinione: fu però facilmente ricevuto, per esser conforme alla dottrina scolastica e decreti pontifici. Ma in quello dove si tratta del divorzio per causa d’adulterio, s’avevano astenuto li formatori dei canoni d’usar la voce d’anatema, avendo rispetto di dannar quell’opinione, la qual fu di sant’Ambrosio e di molti Padri della chiesa greca. Con tutto ciò, avendo altri opinione che quello fosse un articolo di fede, e a questo contendendo quasi tutti li voti dei padri, fu riformato il canone coll’aggionta dell’anatema, dannando chi dicesse che per l’adulterio si dissolva il vincolo, e che l’un coniugato, vivendo l’altro, possi contraer un altro matrimonio: il qual canone ricevette poi un’altra mutazione, come a suo luoco si dirá.

Nelle congregazioni seguenti si spedirono facilmente quanto alle cose proposte, ma quasi tutti li prelati trapassavano da quelle a parlar dei clandestini, se ben non era ancora né il luoco né il tempo. E giá incominciava a scoprirsi la differenzia d’opinioni in quella materia.

Nella congregazione dei 24, la mattina, fu ricevuto il vescovo di Cortona, ambasciatore del duca di Fiorenza. Egli fece un breve ragionamento della devozione del suo principe verso la sede apostolica e offeri obedienzia e favore alla sinodo; e li fu risposto con rendimento di grazie. Nella congregazione della sera li ambasciatori francesi fecero legger una richiesta a nome del loro re: che dalli figli di famiglia senza consenso de’ genitori non possi esser contratto matrimonio o sponsali; la qual cosa se dalli figli fosse tentata, restasse in potestá delli maggiori irritar o vero convalidar il contratto, secondo che a loro fosse piaciuto. E quell’istesso giorno furono avvisati li padri di dar in nota alli deputati gli abusi osservati da loro in quella materia del matrimonio.

Finiti li voti sopra li anatematismi, furono proposti due articoli: uno, se era ispediente promover persone maritate alli ordini sacri; l’altro, la irritazione dei matrimoni clandestini. [p. 273 modifica] Fu dato il voto brevemente da tutti li padri sopra il primo articolo concordemente alla negativa, senza metterci alcuna difficoltá; e l’arcivescovo di Praga e il vescovo di Cinquechiese, che procuravano il parlarne piú pensatamente, a pena furono uditi. Non cosí passò la materia dei clandestini, ma furono centotrentasei che approvarono l’annullazione, cinquantasette che contradissero, e dieci che non volsero dechiararsi. Secondo l’opinione della maggior parte fu formato il decreto: che se ben li matrimoni clandestini sono stati veri matrimoni, mentre la Chiesa non li ha irritati (e però la sinodo condanna di anatema chi sente in contrario), nondimeno la Chiesa li ha sempre detestati: ora, vedendo gli inconvenienti, determina che tutte le persone che per l’avvenire contraeranno matrimonio o sponsali senza la presenza di tre testimoni almeno, siano inabili a contraerli, e però l’azione fatta da loro sia irrita e nulla. E dopo quello seguiva un altro decreto, dove erano comandate le denoncie, con conclusione che, essendo necessitá di tralasciarle, il matrimonio si potesse fare, ma in presenzia del parroco e di cinque testimoni almeno, pubblicando le denoncie doppoi, con pena di scomunica a chi contraesse altramente. Ma quel gran numero che voleva annullar li clandestini era diviso in due parti, seguendo l’una l’opinione di quei teologi che concedono alla Chiesa potestá d’inabilitar le persone, e l’altra quelli dell’irritar il contratto. Nelli medesimi legati vi era differenzia d’opinione. Morone si contentava d’ogni deliberazione, purché si espedisse; varmiense era d’opinione che la Chiesa non avesse potestá alcuna sopra di questo, e che si dovessero aver tutti li matrimoni, col consenso de’ contraenti in qualonque modo celebrati, per validi; Simonetta diceva che quel distinguer il contratto dal matrimonio e dar potestá alla Chiesa sopra di quello non sopra di questo, li pareva distinzion sofistica e fabbrica chimerica; e inclinava assai al non far novitá.

Sopra li abusi del matrimonio da molti prelati fu messo in considerazione che le cause d’impedir li matrimoni e averli per nulli, eziandio contratti, erano tante e cosí spesso [p. 274 modifica] occorrenti, che rari matrimoni erano non soggetti ad alcuno di questi difetti; e quello che piú importava, le persone ignorantemente, o non sapendo la proibizione, o ignari del fatto, o per oblivione, contraevano; nelli quali dopo, risaputa la veritá, nascevano innumerabili perturbazioni e scropoli, e anco liti e contenzioni sopra la legittimitá della prole e le doti ancora. Era allegato particolarmente l’impedimento della cognazione, che nel battesmo si contrae, per abuso grandissimo; poiché in alcuni luochi erano invitati venti e trenta uomini per compadri, e altrettante donne per commadri, tra qual tutti per la constituzione ecclesiastica nasce spiritual cognazione; e ben spesso non conoscendosi tra loro, occorreva poi che si congiongessero in matrimonio. Molti erano di parere che quest’impedimento onninamente si levasse, non perché da principio non fosse stato con buone ragioni instituito, ma perché essendo cessata in tutto e per tutto la causa dell’instituzione, doveva per ottima ragione cessar l’effetto. Consideravano che allora quando quelli che presentavano li fanciulli al battesmo e gli levavano dal fonte erano fideiussori appresso alla Chiesa della loro fede futura, e però ubbligati ad instituirli, conveniva che per catechizzarli, secondo divenivano capaci, conversassero frequentemente e familiarmente con la creatura battezzata, con li genitori di lei e tra loro fideiussori ancora; laonde nasceva tra loro certa relazione, la qual era giusta cosa che fosse avuta in riverenza e proibisse la congionzione coniugale, come tutte le altre a quali si debbe riverenzia portare. Ma nelli seguenti tempi, quando totalmente l’uso aveva abolito tutto quello che era di reale, e il padrino non vedeva mai la creatura sua né teneva minima cura dell’instituzione di quella, cessata la causa della riverenza, la relazione non doveva aver luoco.

Similmente l’impedimento d’affinitá per causa di fornicazione, annullando li matrimoni sino al quarto grado, essendo che in secreto nasce, era causa d’illaquear molti, quali, dopo il contratto avvisati da chi era stato in causa, s’empivano di perturbazioni. Alla parentela ancora, cosí di consaguinitá come di affinitá, era opposto che, non tenendone le persone conto, [p. 275 modifica] come altre volte si soleva (al presente appena nelle persone grandi si ha memoria del quarto grado), quello si poteva tralasciare. Sopra di che furono assai dispute, essendo opinione di alcuni che, sí come per tanti centenara d’anni quelli impedimenti erano stati osservati sino al settimo grado, e Innocenzo III ne levò tre in una volta, restringendo l’impedimento al quarto (allegando due ragioni assai comuni, che quattro sono gli elementi e quattro gli umori del corpo umano), cosí adesso, vedendosi che li quattro non si possono osservare senza molti inconvenienti, per piú giusta ragione si potevano restringere al terzo. A che contradicevano altri, con dire che da questo si sarebbe facilmente passato a maggior restrizione, e finalmente venuto a quella del Levitico; che sarebbe stato un fomentar l’opinione de’ luterani; concludendo che l’innovare fosse pericoloso. E questo parere dopo molto esamine prevalse. Erano alcuni di parere che l’impedimento per fornicazione, essendo secreto, fosse levato totalmente; e questo ancora non potè prevalere, vedendosi l’inconveniente, perché molte cose prima secrete si palesano dopo.

Molti sentivano che in queste proibizioni non si facesse novitá alcuna, ma ben che fosse concessa ai vescovi la facoltá di dispensare; e defendevano che quella stava meglio commessa a loro che alla corte, poiché essi, sopra il fatto avendo piú chiara cognizione dei meriti e delle cause, potevano esercitar piú giusta distributiva; che la corte di Roma dá le dispense a persone non conosciute, e che spesso anco le impetrano con inganno, e non vi può metter diligenza per la lontananza dei paesi; senza che, ricevendo il mondo scandalo per l’opinione che non siano date se non a chi ha denari, sarebbe levata quell’infamia. Li spagnoli e li francesi s’affaticavano con grand’efficacia per questo; ma li italiani dicevano che da loro era ciò procurato per volersi far tutti papi, e per non voler riconoscer la sede apostolica; e che era utile la difficoltá del mandar a Roma e negoziar l’espedizione con qualche fatica e spesa, perché a questo modo pochi matrimoni erano contratti in gradi proibiti. Ma quando col conceder la potestá [p. 276 modifica] ai vescovi si fosse facilitato, in brevissimo tempo le proibizioni sarebbono andate in niente, e li luterani averebbono guadagnata la loro opinione; anzi per questa causa fu inclinazione quasi comune di decretare che nessun fosse dispensato dalle proibizioni, se non per urgentissima causa; nel qual parere entrarono anco quelli che non avevano ottenuto facoltá per li vescovi, parendoli esser piú decoro episcopale, se quello che a loro era vietato non fosse ad altri concesso. In fine di molti discorsi nelle congregazioni fu risoluto di ristringere la parentela spirituale, l’affinitá per li sponsali e per la fornicazione, e regolare anco le dispense tra li termini che si dirá recitando li decreti.

Ebbe un poco di contrasto il nono capo, dove è proibito alli superiori di costringere li sudditi con minacce e pene a contraer matrimoni, il qual comprendeva anco specificatamente l’imperatore e li re. Fu opposto da Guielmo Cassador, vescovo di Barcellona, che non era da presupporre nelli principi grandi che s’intromettessero in matrimoni se non per gravissime cause e per ben pubblico; che le minacce e pene allora sono cattive, quando si adoperano contra l’ordine della legge, ma li precetti penali alla legge conformi esser giusti e non potersi riprendere. Se caso alcuno vi è, diceva egli, nel quale il superiore possa comandar un matrimonio giustamente, può anco constringer con mandato penale a celebrarlo: esser cosa decisa anco dai teologi che il timor giusto non causa azione involontaria. Voleva egli che le cause legittime fossero eccettuate, e che il decreto fosse formato sí che comprendesse solamente quelli che constringono contra il giusto e contra l’ordine della legge: poter occorrere molti casi in quali la necessitá del ben pubblico ricerchi che un matrimonio sia contratto, in quali sarebbe contra le leggi divine e umane dire che il principe non potesse e comandarlo e constringere a contraerlo. A questa ragione aggionse per esempio che del 1556 a’ 2 gennaro Paulo IV fece intimar un monitorio a donna Gioanna d’Aragona, moglie di Ascanio Colonna, che non maritasse alcuna delle figliuole senza licenza sua; e se altrimenti facesse, il [p. 277 modifica] matrimonio fosse nullo, se ben fosse anco dopo consumato: che da quel papa intelligentissimo e di provata bontá non sarebbe stato fatto, quando li principi non avessero facoltá, per rispetto del ben pubblico, di maritar li sudditi.

Nel ponto del non far menzione dei principi fu seguito da molti, e si levò il nome de imperatore, re e principi; ma del rimanente ebbe grandissima repugnanzia, con questa sola ragione, che il matrimonio è cosa sacra, e che la potestá secolare non può avervi sopra autoritá; e che quando pur vi sia causa legittima per quale alcuno possi esser constretto a matrimonio, questo non può esser fatto se non con la potestá ecclesiastica. Ma la narrazione del monitorio di Paulo eccitò gran susurro nella congregazione, e dopo diede materia a discorsi vari. Altri dicevano che ciò fu fatto dal papa non come principe, ma come papa; e che aveva ragione di farlo, essendo Ascanio Colonna suo rebelle, e non volendo che con li matrimoni delle figlie acquistasse nove aderenze, col favor de’ quali si confirmasse nella contumacia. Altri dicevano che il papa, come vicario di Cristo, non ha rebelli per cause temporali, e che non sarebbe ben fondata opinione di chi pensasse che il papa per autoritá apostolica possi annullar matrimoni altrimenti che per via di leggi o canoni universali, ma non sopra persone particolari; che di ciò non si addurrá mai ragione, né se ne trovarebbe altro esempio. Erano anco di quelli che negavano potersi far fondamento sopra simil azioni de’ papi, le qual piú tosto mostrano sin dove si può giongere con l’abuso della potestá, che dove si estenda l’uso legittimo di quella.

Non minor difficoltá fu, perché quel decreto si estendeva ancora alli padri, madri e altri superiori domestici che constringessero li figli e altri loro creati, e le femmine massime, a contraer matrimonio; ed era considerato che il venir a scomunica in casi di questa sorte era cosa molto ardua. E tuttavia non mancavano d’insister in contrario quelli che per l’inanzi avevano defeso li figliuoli esser ubbligati a seguir il voler dei padri in questo particolare. Fu proposto temperamento che, [p. 278 modifica] dopo l’aver comandato sotto scomunica ai superiori politici, s’aggiongesse che li domestici fossero ammoniti a non constringere li figli e figlie contra il loro volere. Ma repugnando tuttavia li medesimi, che dicevano non esser giusto levar ai padri la potestá che Dio li ha dato, in fine si deliberò di levar questa parte a fatto, non restando il vescovo di Barcellona, e alcuni pochi della medesma opinione, di dire che, sí come s’aveva per chiaro, o almeno non si metteva in dubbio l’autoritá paterna e de’ superiori domestici sopra li matrimoni, per il che erano venuti in parere di non parlarne, si dovesse aver la medesima considerazione all’autoritá delli superiori politici.

Finite le congregazioni sopra ciò (che l’ultima fu il 31 luglio), si cominciò a parlar privatamente del clandestino. E perseverando nella propria opinione l’una e l’altra parte, uscirono alcuni con un novo parere, dicendo che quella difficoltá presuppone dogma de fide, e però non si poteva determinare, essendo contradetto da numero notabile; la qual opinione partoriva gran travaglio in quelli che desideravano l’irritazione, parendo che fosse serrata totalmente la porta a poterla ottenere.

Nacque in questi giorni una difficoltá, se ben privata, assai contenziosa; perché avendo li padri deputati sopra l’Indice dato di veder l’opera di Bartolomeo Carranza, arcivescovo di Toledo, ad alcuni teologi, e quelli avendo referto che nel libro non si trovava cosa alcuna degna di censura, la congregazione l’approvò, e a petizione dell’agente di quell’arcivescovo ne fece una pubblica fede. Ma perché quel libro e l’autore erano sotto la censura dell’inquisizione di Spagna, il secretario Gastelún diede avviso e fece querela col conte di Luna, il quale si dolse con li padri di quella congregazione e ne ricercò retrattazione. Né inclinando essi a rivocar il decreto fatto, avendolo per giusto, il vescovo di Lerida, o mosso dal conte o per altra causa, si diede a parlar contra quel decreto e biasmarlo, portando luochi del libro che, con sinistra interpretazione, parevano degni di censura, e, quello che piú importava, toccando anco il giudicio e la conscienzia di quei vescovi. L’arcivescovo di Praga, come primo di quella [p. 279 modifica] congregazione, per difesa propria e delli colleghi fece querela con li legati, ricercando che facessero demostrazione, e protestando di non intervenire in atto pubblico sinché la congregazione non avesse la debita sodisfazione. Il Cardinal Morone s’interpose e conciliò concordia con queste condizioni: che della fede fatta non se ne dasse altra copia; che Lerida dasse sodisfazione di parole alla congregazione e in particolare a Praga, e che si mettesse da ambe le parti il fatto in silenzio. E il conte di Luna con preghiere, a quali non si poteva ripugnare, ebbe in mano dall’agente di Toledo la fede, e in questa maniera fu sedato il romore.

Diedero li legati fuori agli ambasciatori li capi della riforma, li quali erano in numero trentotto (e furono poi divisi una parte nella sessione immediate seguente, e il rimanente nell’altra, per le ragioni che si diranno), acciò mettessero in considerazione quello che pareva loro, prima che fossero dati alli padri per parlarne sopra. Il conte di Luna andò praticando gli altri ambasciatori a dimandar che fossero eletti deputati per ciascuna nazione, li quali considerassero sopra che s’avesse a riformare, imperocché la modula data dalli legati, come fatta secondo gl’interessi romani, non si poteva accomodar agli altri paesi: in che il Cardinal di Lorena, li ambasciatori francesi e quel di Portogallo contradissero, allegando che poteva ciascuno dir il parer suo sopra li capi proposti, e proponerne altri, occorrendo; onde non faceva bisogno dar questo disgusto al pontefice e alli legati, che non potevano sentir a parlar in concilio di nazioni. Al qual parer accostandosi anco li imperiali, il conte si ritirò, dicendo però che sopra le proposte aveva da far diverse considerazioni.

Il Cardinal di Lorena consigliò li legati a facilitar quel negozio e levar via tutti quei capi che si vedesse non poter passar senza molta contrarietá, aggiongendo che quanto meno cose fossero trattate, tanto meglio era. Del che mostrando di restar con ammirazione il Cardinal varmiense, Lorena, accortosi di quello che era, lo interpellò se si maravigliava perché non vedeva in lui quel calore e desiderio di riforma che aveva [p. 280 modifica] mostrato altre volte; e soggionse nondimeno il desiderio esser il medesimo e l’istessa disposizione dell’animo ad adoperarsi con ogni vigore; ma l’esperienza averli insegnato che non solo non si può far in concilio cosa né perfetta né mediocre, ma che anco ogni tentativo in quella materia sia per tornar in male. S’adoperò anco il medesimo cardinale col conte di Luna, acciocché non cercasse di differir la riforma totalmente, ma, essendovi cosa di non intiera sua sodisfazione, si lasciasse intendere del particolare, che egli s’averebbe adoperato per far che fosse compiaciuto.

Li ambasciatori imperiali primi di tutti, il 31 luglio, diedero in scritto la risposta loro: nella quale primieramente dissero che, desiderando universal riforma nel capo e nei membri, e avendo letto gli articoli esibiti, avevano alcune cose aggionte e altre notate, e facevano instanzia che secondo quelle fossero corretti e proposti alla discussione dei padri. E perché Cesare con li ambasciatori di molti principi di Germania teneva dieta in Vienna per trattar anco molte cose spettanti al concilio, fossero contenti di ricever in bene se, avuto novo mandato da Sua Maestá, all’avvenire li presentassero ancora altre considerazioni. Che per allora agli articoli da loro proposti ne aggiongevano otto: che sia fatta riforma del conclavi in concilio seria e durabile; sia proibita l’alienazione de’ beni ecclesiastici senza libero e fermo consenso del capitolo, e questo principalmente nella chiesa romana; che siano levate le commende e coadiutorie con futura successione; che siano reformate le scole e universitá; che sia ordinato alli concili provinciali di emendar li statuti di tutti li capitoli; e parimente li sia dato autoritá di reformar li messali, breviari, agende e graduali, desiderando reforma non tanto delli romani, ma di quelli di tutte le Chiese; che li laici non siano citati a Roma in prima instanzia; che le cause non siano avocate dal fòro secolare all’ecclesiastico sotto pretesto di denegata giustizia, senza informarsi prima della veritá della supplica; che nelle cause profane non siano dati conservatori. E sopra li capitoli dalli legati esibiti notarono molte cose, parte delle quali, [p. 281 modifica] essendo di poco momento, è ben tralasciare. Le importanti furono: che li cardinali fossero scelti di tutte le regioni, acciò il pontefice universale venghi creato da elettori di tutte le nazioni; che le provvisioni sopra le pensioni, reservazioni e regressi abbraccino non solo le future, ma si estendino anco alle passate; che il bacio dell’evangelio nella messa non sia levato all’imperator e re, che debbono defenderlo: che sia dichiarato quali siano li negozi secolari proibiti agli ecclesiastici, per non contradire a quello che giá è deliberato nel decreto della residenzia; che al capo di non aggravar gli ecclesiastici si eccettui la causa del sussidio contra li turchi e altri infedeli.

Non fu tanto molesta alli legati questa proposizione (quantonque contenesse cose di dura digestione), quanto il dubbio posto a campo, che dalla dieta di Vienna li dovesse esser fatta qualche straordinaria dimanda intorno la mutazione dei riti ricevuti dalla chiesa romana e relassazione dei precetti de iure positivo.

Il 3 d’agosto diedero li francesi le loro osservazioni, delle quali le essenziali furono: che il numero de’ cardinali non ecceda ventiquattro, e non siano creati novi, sinché il presente numero non è ridotto a quella paucitá. Siano assonti di tutti li regni e provincie. Non possino esser dui d’una medesima diocesi, né piú di otto d’una nazione. Non siano minori di trent’anni. Non possi esser assonto fratello o nepote del pontefice o d’alcun cardinale vivente. Non possino aver vescovati, acciò assistino sempre al pontefice; ed essendo la dignitá di tutti uguale, abbiano anco un’ugual entrata. Quanto alla pluralitá de’ benefici, nessun possi averne piú di uno, levata la differenzia, incognita alli buoni secoli, de semplici e curati, compatibili e incompatibili; e chi al presente ne tiene molti, ne elegga un solo fra breve tempo. Che sia levato a fatto la resignazione in favore. Che non si debbi proibir il conferir benefici a soli quelli che hanno la lingua, perché le leggi di Francia senza alcuna eccezione proibiscono ad ogni sorte di esteri aver uffici né benefici nel regno. Le cause criminali dei vescovi non possino esser in alcun modo giudicate fuori del [p. 282 modifica] regno, essendo antichissimo privilegio della Francia che nessuno né volontario né sforzato può esser giudicato fuori del regno. Che alli vescovi sia restituita la facoltá di assolver da tutti li casi senza alcuna eccezione. Che per levar le liti beneficiali siano levate le prevenzioni, resignazioni in favore, mandati, espettative e altri modi illegittimi d’ottenir benefici. La proibizione che li chierici non s’intromettino in negozi secolari sia esplicata, sí che debbino astenersi sempre da tutte le fonzioni che non sono sacre, o vero ecclesiastiche e proprie al loro ordine. Quanto alle pensioni, siano levate e abrogate le giá imposte. Che nelle cause de iuspatronati in Francia non si parti dall’antico instituto di giudicar in possessorio per quello che è in ultima possessione, e nel petitorio per quello che ha legittimo titolo o possessione longa. Intorno a tutte le cause ecclesiastiche non sia pregiudicato alle leggi di Francia che il possessorio sia giudicato da’ giudici regi, e il petitorio dagli ecclesiastici, ma non fuori del regno. Quanto alli canonici delle cattedrali, che niuno sia assonto inanzi venticinque anni. Che quanto al capo continente la reforma dei principi, prima sia riformato in questa sessione intieramente l’ordine ecclesiastico, e quello che appartiene alla dignitá e autoritá de’ re e principi sia rimesso ad un’altra sessione sussequente; e che allora circa ciò nessuna cosa sia decretata senza aver prima udito essi ambasciatori, che giá hanno dato conto al re di quelle e di altre cose che avevano da proponer. Ma con tutto che mettessero a campo cose cosí ardue, dicevano nondimeno indifferentemente a tutti, e affettatamente acciò si pubblicasse, che essi non averebbono fatto molta instanzia, eccetto a quello che tocca le ragioni e materia secolare del loro regno. Li ambasciatori veneti proposero che il capo dei iuspatronati fosse accomodato in maniera che non dasse occasione di novitá intorno a quelli che sono di ragione della loro repubblica e principe. Li ambasciatori ancora di Savoia e di Toscana fecero le medesime instanze.

In questi giorni gli ambasciatori imperiali ebbero commissione dal suo principe di far ufficio, come fecero, con li [p. 283 modifica] legati che nella revisione dell’indice dei libri non si facesse menzione delli recessi delle diete di Germania, che furono giá proibiti da Paulo IV; e l’ordine dell’imperatore era con qualche acrimonia che, in luoco di trattar le cose ecclesiastiche, si volesse dar forma alla polizia di Germania e prestar occasione a quei popoli, che con tali leggi si governano, di alienarsi contra il loro volere dalla chiesa romana. All’ufficio fatto dagli ambasciatori fu risposto che esso vescovo di Praga, uno di loro che era capo della congregazione, poteva saper se se n’era parlato; il che se non era, la Maestá dell’imperator poteva riposare sopra l’ambasciator suo, il qual anco in tutte le cose concernenti li rispetti di Sua Maestá sarebbe favorito e da loro e dal pontefice.

Il dí 7 l’ambasciatore spagnolo presentò la sua scrittura, nella quale diceva restar sodisfattissimo di tutti li capi e non esser per dimandar cosa alcuna, ma solo raccordar la mutazione di qualche parole, o acciocché siano meglio dechiarate, o perché li paiono superflue e non necessarie. E toccò quasi tutte le cose che accrescevano l’autoritá alli vescovi, moderando le parole in maniera che pareva la mutazione non esser sostanziale, ma che in fatti piú tosto la restringesse che aumentasse. Fece anco instanza che si trattasse del conclave, dicendo che il re cattolico lo desiderava assai. Ricercò ancora che fosse differito ad un’altra sessione quella parte che tocca li principi secolari: e dopo esibita la scrittura, ricercò che, finito che fosse da dir li voti sopra i capi proposti dalli legati, volessero deputare per nazione padri che raccogliessero quello che paresse loro necessario per la riforma delle loro regioni, acciò potesse esser terminato con universal sodisfazione. Rispose Morone per nome di tutti che non potevano consentire di proceder in altra maniera che come sin allora nelle altre materie s’era fatto. Sopra di che essendo dall’una e l’altra parte molte cose dette, dal conte accennando che il concilio fosse in servitú, e dal cardinale in dimostrar la libertá, soggionse Morone che nessuno poteva dolersi di loro che gli fosse stata impedita la libertá del dire: e l’altro replicò che non poteva credere esser [p. 284 modifica] stata da loro fatta nessuna cosa indegna, ma né meno poteva lasciar star di dirli che nel concilio s’era mormorato assai delle congregazioni particolari fatte li giorni inanzi, e s’era presupposto che fossero fatte per cattar i voti. Dal che defendendosi essi, con dire esser loro ufficio nelle diversitá de opinioni intender la veritá e accomodar le differenze, acciò le materie trattate si statuiscano con unione, soggionse il conte che molto bene; ma esser stati chiamati tutti italiani, fuorché due o tre spagnoli e altrettanti francesi, che non sentivano con gli altri delle loro nazioni. Si defesero li legati che erano chiamati a proporzione, perché erano in concilio centocinquanta italiani, e tra tutte le altre nazioni non piú che sessanta. Di che mostrò restar sodisfatto il conte: e partito, disse alli suoi prelati che li legati, avendo principiato ragionamento per mostrare che non si doveva tenir conto di nazione, l’avevano concluso mostrando di averne tenuto sempre conto.

Il dí seguente fu consulta tra li legati e li doi cardinali per considerar gli avvertimenti degli ambasciatori, e per acconciare li capi di reforma in quel modo che si avevano da dar ai padri, e il modo che si doveva tenere nel parlarvi sopra. Nel che il Cardinal di Lorena, avendo avuto nuove lettere di Francia, con ordine che egli e li prelati francesi favorissero le cose del papa, tutto intento a sodisfar li legati, fu autore che si risolvesse di non lasciar votar sopra tanti capi in un tratto, ma riportarli in piú volte secondo le materie; e finita una parte, dir sopra l’altra; e accelerar la sessione, lasciando da parte le cose che si trovassero aver qualche difficoltá, e concludendo quelle sole in che o tutti o gran parte convenissero, e in particolare lasciar di proponer nel principio quelle dove li ambasciatori non convenivano.

Il dí 11 si cominciarono le congregazioni per stabilir li anatematismi e decreti del matrimonio. Fu trattato sopra la proposta dei francesi di dechiarar irriti li matrimoni contratti dai figli de famiglia senza il consenso de’ maggiori; e tra li primi voti vi fu differenzia d’opinioni. Il Cardinal di Lorena approvava, allegando li luochi della Scrittura i quali [p. 285 modifica] attribuiscono ai padri il maritar li figli, dando gli esempi delli matrimoni del li patriarchi Isach e Iacob, aggiongendovi le leggi imperiali del V Instituia e del Codice, fatte pur da principi cristiani e di laudatissima memoria; adducendo anco un canone sotto nome di Evaristo e un altro del concilio cartaginese, portati da Graziano. Fece narrazione d’inconvenienti che per questa causa nascono. E l’arcivescovo d’Otranto per l’altra parte tenne parer contrario, opponendo che era dar autoritá a’ laici sopra li sacramenti, e far creder loro che quell’autoritá d’irritar sia dependente dalla paterna, e non dalla ecclesiastica; oltre che sarebbe un decreto direttamente contrario alla Scrittura divina, la quale espressamente dice che «l’uomo lascierá il padre e la madre per congiongersi con la moglie sua». E quanto agl’inconvenienti, farne nascer di molto maggiori rimettendo li figliuoli, in quello che tocca alla conscienzia, all’arbitrio dei padri; e se un padre mai non acconsentisse al matrimonio del figliuolo, e che esso non avesse dono di continenzia, si troverebbe in grandissima perplessitá. Parlarono ventinove in quella congregazione, e venti furono di parere che si tralasciasse di trattar quella materia; degli altri, alcuni approvarono il decreto cosí universalmente, altri restringendolo quanto ai figli all’etá di venti anni, e quanto alle figliuole di diciotto.

In fine della congregazione li ambasciatori veneziani fecero legger una loro dimanda sopra l’anatematismo delli divorzi, la qual in sostanzia conteneva: che avendo la loro repubblica li regni di Cipro, Candia, Corfu, Zante e Cefalonia abitati da greci, li quali da antichissimo tempo costumano di ripudiar la moglie fornicaria e pigliarne un’altra (del qual rito, a tutta la Chiesa notissimo, non furono mai dannati né ripresi da alcun concilio), non era giusta cosa condannarli in assenzia e non essendo stati chiamati a questo concilio: però volessero li padri accomodar il canone che di quella materia parla, in modo che non facesse a loro pregiudicio. La qual avendo li legati ricevuto, fecero proporre senza esaminarla piú minutamente; per la qual causa si levò qualche susurro tra li padri, [p. 286 modifica] e nella congregazione seguente alcuni di essi toccarono il medesimo ponto, replicando l’istesso, che non era giusto dannar li greci non uditi e non citati. Contra che si levò l’arcivescovo di Praga, dicendo che questo non si doveva dire, e che con la citazione generale di tutti li cristiani s’intendevano essi ancora chiamati dal pontefice. A questo aggionse il Cardinal varmiense che il pontefice aveva ancora mandato specialmente al duca di Moscovia invitandolo; e se ben non sapeva che avesse chiamato altri greci in particolare, nondimeno si doveva presuppor che fosse invitata tutta la nazione, eziandio con special invito; oltre che bastava, come l’arcivescovo aveva detto, l’intimazione generale. Onde li legati ordinarono al secretario che dalla petizione delli suddetti ambasciatori si levasse quel particolare, cioè che li greci non sono stati chiamati: ma cosí per l’esposizione loro, come perché tornarono in campo quelli che, avendo risguardo all’opinione di sant’Ambrosio, non volevano usar la parola di anatema, fu trovato temperamento di non dannar quelli che dicono potersi scioglier il matrimonio per l’adulterio e contraerne un altro, come sant’Ambrosio e altri Padri greci dissero, e li orientali costumano; ma anatematizzar quelli che dicono la Chiesa fallare insegnando che per l’adulterio il legame matrimoniale non è sciolto né è lecito contraerne un altro, come dicono li luterani. E fu la formula approvata concordemente, lodandola molti con dire che il concilio non era congregato se non per dannar le opinioni de’ protestanti, e non per trattar quelle delle altre nazioni; restando però alcuni in dubbio come si potesse dannar chi dice la Chiesa fallare insegnando un articolo, senza dannar il contrario di quello. Però, vedendo che da tanti era inteso, se n’acquetarono.

E perché la proposta dei figli di famiglia introduceva il quesito in generale se la Chiesa poteva irritar matrimoni, si voltarono tutti li voti a parlar di questo novamente, quantonque se n’avesse parlato e li voti fossero stati raccolti. E fu letto il decreto formato sopra di quelli, come di sopra s’è detto. Il Cardinal Madruccio nel voto suo tenne che non si [p. 287 modifica] potessero irritare: portò molte ragioni e argomenti per defender il parer suo, lasciandosi intendere che si sarebbe opposto anco nella sessione; il che era anco detto da varmiense e Simonetta. E maggior confusione generò che il Lainez, general dei gesuiti, mandò attorno una scrittura reprobando l’irritazione, la qual diede occasione a molti di fermarsi piú animosamente in quell’opinione. E nelle congregazioni s’incominciò a risponder alle ragioni l’uno dell’altro con tanta longhezza, che li legati furono quasi d’opinione di tralasciar quel capo per non impedir la sessione, massime perché il vescovo di Sulmona primo di tutti introdusse a trattare in pubblica congregazione se quella materia dell’irritazione era spettante a dogma o a riforma. E il vescovo di Segovia dopo lui fece longhissimo discorso in mostrare che non si poteva ridur a dogma; e però, avendo la maggior parte approvato l’irritazione, si poteva aver per stabilito il decreto. Il vescovo di Modena seguí il medesimo parere, aggiongendo che il trattar quella materia per via di dogma non sarebbe altro se non chiuder la via al far qualsivoglia reforma, perciocché in tutti gli articoli s’averia potuto suscitare la medesima difficoltá, se la Chiesa ha o non ha autoritá sopra quel particolare di che si trattasse; il che sarebbe un por le arme in mano agli eretici e levar alla Chiesa l’autoritá tutta, non essendo giusto metter mano in quello che è dubbio se la potestá propria si vi estenda. Si dolse che fosse messa in campo quella questione da chi doveva averla per chiara e decisa. Piacque questo parere a molti, che dicevano non doversi mai metter in disputa se la Chiesa può o non può alcuna cosa, ma aver per deciso che, sí come a Cristo è data ogni potestá in cielo e in terra, cosí altrettanta ne ha il pontefice romano suo vicario; la qual autoritá essendo comunicata da lui al concilio generale, convien tener per fermo che non li manchi potestá di far tutto quello che è utile, senza metter in disputa se presupponga dogma o no. Piacque ancora a quelli che desideravano l’espedizione del concilio, vedendo che la difficoltá promossa portava grand’impedimento al fine di quello e causava scandolo: onde dalli legati e dalli principali [p. 288 modifica] italiani fu fatto ufficio a parte che non se ne parlasse, non occorrendo trattarne né con francesi né con spagnoli, per esser tutti essi in opinione che li matrimoni clandestini si dovessero irritare. E furono fatte molte adunanze di prelati, e tra loro e con li legati a quest’effetto, e deliberato che non solo non fosse posto il decreto insieme con la dottrina, acciò che non paresse dogma, ma ancora che non fosse separatamente posto in un capo proprio, sí che potesse venir mai in difficoltá se per tale fosse stato tenuto, ma si mettesse inserto con li capi di riforma. E per rimover maggiormente ogni difficoltá, fu anco deliberato di formar il decreto in maniera che non paresse trattarsi professatamente di quella irritazione, ma meschiandolo insieme col primo capo degli abusi, il qual era una provvisione di restituire le denonciazioni ordinate da Innocenzo III, che erano intermesse; e nel decretare cosí queste come tutte le altre condizioni appropriate per dar al matrimonio pubblica forma, si soggiongesse con doi sole parole, quasi incidentalmente, che si annullavano li contratti fatti altramente; e passarla senza maggior longhezza. E a questo senso fu il capo formato e riformato piú volte, e sempre molto intricatamente e con maggior difficoltá posteriormente che per l’inanzi.

In queste reforme, tra le altre alterazioni fu mutato il ponto particolare giá stabilito, come s’è detto, che la presenza di tre testimoni fosse sufficiente per intiera validitá; e in vece d’un testimonio fu sustituito che senza la presenza del prete ogni matrimonio fosse nullo: cosa di somma esaltazione dell’ordine ecclesiastico, poiché un’azione tanto principale nell’amministrazione politica ed economica, che sino a quel tempo era stata in sola mano di chi toccava, veniva tutta sottoposta al clero, non rimanendo via né modo come far matrimonio, se doi preti, cioè il parroco e il vescovo, per qualche rispetti interessati, ricuseranno di prestar la presenza. Non ho trovato nelle memorie chi fosse autore di tanto vantaggio, come anco molti altri importanti particolari mi sono restati nascosti, che ne farei menzione; sí come non debbo fraudare del debito onore Francesco Beaucaire vescovo di Metz, il quale, parendo [p. 289 modifica] impossibile ridur in forma che sodisfacesse pensieri tanto vari e rappresentarli con le riserve e risguardi cosí sottili, diede la forma che si vede: la quale, sí come pare soggetta a diverse interpretazioni, cosí s’accomoda a diverse opinioni. E proposta in congregazione, ebbe voti in favore centotrentatré, e cinquantasei che la contradissero espressamente. Di tutto questo li legati diedero conto al pontefice, dimandando ordine di quello che si doveva fare, e se con contradizione cosí numerosa, quando non s’avesse potuto con gli uffici vincerla, dovessero o non dovessero stabilir il decreto.