Istoria delle guerre gottiche/Libro primo/Capo XXIX

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CAPO XXIX

Vitige anima i Gotti alla battaglia. — Da principio i Romani vincitori. — Quindi sconfitti.

I. Dell’antedetta guisa i Romani apprestaronsi al combattimento. Vitige poi comandato ai Gotti di armarsi, lasciando nelle trincee i soli cagionevoli, impose alle truppe di Marcia che si rimanessero nel campo di Nerone, e custodissero con diligenza il ponte per non venire da quella parte molestati; raccolti quindi gli altri a parlamento profferiva loro tali o simiglianti parole: «Avvi per ventura tra voi chi opina paventar io del regno, e per siffatto motivo essermi fin qui mostrato d’una singolare umanità, ed esortarvi ora con lusinghiere parole ad entrare pieni di coraggio in questo aringo; né tal foggia di pensare in fe mia si disconviene alle umane menti, accostumati essendo i codardi a mostrarsi piacevoli ed affabili verso coloro dei quali hanno mestieri, sebbene di molto più umile condizione, ed a trattare orgogliosamente chi non ha mezzo di giovarli. Io in cambio considero un vero nulla la perdita della vita e del regno, contentissimo di spogliare oggi medesimo questa porpora quando altri de’ Gotti abbia da ornarsene; e reputo più che beata la morte di Teodato, il quale spento dai proprj sudditi lasciò loro in pari tempo e vita e reame; conciossiaché all’uomo sano di mente è di qualche conforto nelle domestiche sciagure il non intramettervi le genti sue. Ed appena volgomi col pensiero [p. 136 modifica]all’eccidio de’ Vandali congiunto con la triste fine di Gelimero, presentasi alla mia imaginazione un quadro pur troppo assai lagrimevole, sembrandomi vedere in esso i Gotti colla prole trascinati in ischiavitù, le nostre mogli costrette a soggiacere alle più turpi libidini d’infestissime genti, me stesso ed il nipote per linea femminile di Teuderico menati ovunque piacerà a coloro contro cui guerreggiamo. Ma vorrei che pur voi temeste l’avverarsi di tali cose, e di continuo paventandole tenzonaste con chi vi fa contro; mentre allora preferirete anzi cader morti sul campo che sopravvivere alla strage de’ vostri compagni; e per vero il ridurre la propria esistenza al di sotto della condizione de’ nemici è il solo avvenimento in cui gli uomini magnanimi ripongono il colmo della sciagura. Alla fin fine la morte in ispecie sì pronta rende sempre beati coloro ver cui da prima la fortuna dichiarossi poco propizia. Se dunque con tali sentimenti vi esporrete ora a far prova del vostro coraggio, non v’ha dubbio che di leggieri uscirete vittoriosi di pochi avversarii ed il più grecanici o di simil genia, e farete sommariamente le vendette delle ingiurie colle quali noi fummo provocati. Nè a torto andiamo gloriosi di superarli nel valore, nel numero, ed in che che altro mai si voglia, quantunque ora e’ tronfii per le sciagure nostre e non appoggiati a verun presidio, eccetto lo stolido dispregio in cui ne hanno, contro di noi inviperiscano, pascendosi l’insolenza loro del felice successo testè senza merito al mondo ottenuto.» Vitige avvalorato di questo modo [p. 137 modifica]l’esercito poselo in ordinanza collocando nel centro le coorti de’ fanti e ne’ due corpi i cavalieri; nè tenne lo schieramento lontano dagli steccati; ma quanto più vicino potè, bramando che volto appena in fuga il nemico i suoi avessero tutto l’agio di annientarlo seguendone le vestigia dappresso per lungo tratto di paese, nella ferma lusinga che non incontrerebbero, mercè della grandissima disparità di forze tra le due armi, neppure un istante di resistenza dalla parte romana se a piedi pari si fosse battagliato.

II. Del mattino fatto principio alla pugna e Gotti e Romani vengono alle prese, dagli omeri avendo Vitige e Belisario tutti intenti ad esortarli ed incoraggiare. La fortuna sulle prime arrise agli imperiali, ma sebbene molti barbari cadessero vittime delle frecce nemiche non piegò tuttavia la battaglia loro, potendo eglino, d’immenso numero, supplire prontissimamente i feriti con nuova truppa, di qualità che la strage non colpiva lo sguardo. A’ Romani poi, scarsissimi in vero, sembrava fatto assai combattendo sino allora valorosamente, e spingendo la tenzone con gravissima strage a pochi passi dall’entrata de’ gottici steccati; quindi è che venuto il dì al meriggio divisarono tornare in Roma, profittando a tal uopo della prima buona occasione. In questa giornata tre personaggi dell’esercito imperiale segnalaronsi a preferenza d’ogni altro; Atenodoro, intendomi, di schiatta isaurica e famosa lancia del condottier supremo, Teudorito e Giorgio lance di Martino ed originarj della Cappadocia; i quali postisi alla fronte dell’ordinanza con frequenti corse [p. 138 modifica]uccisero d’asta molti barbari: da qui procedevano di questo modo le cose. Nel campo di Nerone lunga pezza stettersi ambe le fazioni rimirando; intrattanto i Maurusii del continuo molestavano i Gotti dardeggiandoli con frequenti schermugi, nè gli assaliti ardivano farsi loro addosso, per tema non le turbe della romana plebe, collocate a breve distanza e presupposte schiere di fanti, rimanessersi colà di piè fermo a macchinare insidie, e ad attendere l’ora d’inseguirli dalle spalle, per distruggere quanti ne avessero intercettati con sorpresa di schiena e di fronte. Era il meriggio quando l’esercito romano scagliossi di subito contro dei barbari, i quali sopraffatti dall’urto improvviso ed inopinatamente messi in fuga, nè potendo riparare nelle proprie trincee, ascesero le vette dei colli vicini. Qui per verità erano abbondantissime le genti di Belisario, ma non tutte esperte delle armi, anzi il più di esse ciurmaglia; imperciocchè nell’assenza del supremo duce molti nocchieri e bagaglioni alla coda dell’esercito, bramosi di prender parte nel combattimento, eransi mescolati con le truppe, e pur costoro, siccome scrivea, riuscirono a fugare i Gotti fuori di sè per quella inaspettata moltitudine. Se non che presto la confusione mandò in rovina le cose imperiali, avendosi perduto ogni vestigio d’ordine in causa appunto della prefata mescolanza, ne più le genti udivano la voce di Valeriano, che di tutta possa cercava incoraggiarli; così senza uccidere uom de’ nemici lasciavanli su pe’ colli quieti e tranquilli osservatori di quanto accadeva nella pianura. Non sorvenne tampoco alle menti loro il [p. 139 modifica]taglio del vicino ponte a fine d’impedire che Roma, tolta a’ barbari la opportunità di trincerarsi di qua dal fiume Tevere, fosse di poi dall’una e dall’altra parte assediata. Neppure valicato il ponte pigliarono dalle spalle coloro che sull’opposto lido pugnavano contro Belisario: nè v’ha dubbio, a parer mio, che sì adoperando, i Gotti non sarebbonsi ostinati a resistere, ma, come meglio ognuno avesse avuto il destro, in un subito dati a precipitosa fuga. I Romani, che è peggio, addivenuti padroni del campo nemico volsero ogni loro premura al saccheggio, ed a portarne via le suppellettili di argento ed altre ricchezze di copia grande. I barbari in quel parapiglia di cose stettero fermi qualche tempo a rimirarli di su le alture; ma venuti alla per fine d’un solo pensiero scagliansi indragati con alte grida sopra que’ predatori, arrestano il tumultuosissimo depredamento delle robe loro, uccidonne molti e discacciano il resto. Chiunque incappovvi, se non ebbe all’istante morte, di buon grado gittato a terra il fardello abbandonossi alla fuga.

III. Al succedere di tali faccende nel campo di Nerone altro gottico esercito in vicinanza de’ suoi steccati e protetto dagli scudi ributtava coraggiosamente il nemico, e facevagli enorme strage d’uomini, enormissima poi di cavalli. Costretti pertanto ad abbandonare l’ordinanza ed i Romani feriti e quelli rimasi privi del cavallo, manifestossi nello schieramento loro, sin da prima ristretto, lo scarso numero de’ soldati, e la rilevantissima maggioranza delle gottiche forze. Laonde osservatala i barbari cavalieri del corno destro a furia corrono ad [p. 140 modifica]assaltarlo, ed atterritolo colle aste loro costringonlo a riparare nella schiera pedestre. Se non che rotti con eguale impeto i fanti voltarono pur questi le spalle in gran numero, traendo seco i fuggitivi cavalieri. Qui principiò tutto l’esercito romano a piegare, molestato ognor più da’ suoi avversarii, ed appresso dal numero a dar la volta. Ora è uopo rammentare che Principio e Termuto colla piccola schiera de’ fantaccini comportaronsi da animi veramente coraggiosi; di guisa che la maggior parte dei barbari arrivata ad essi fermi nel combattere e nel rifiutarsi alla fuga, piena di maraviglia si tenne immobile, dando così agli altri pedoni ed a moltissimi cavalieri agio di sottrarsi più sicuramente dal pericolo. Principio nondimeno lacero dappertutto il corpo, e veduti a sè dintorno morti quarantadue guerrieri quivi stesso spirò. Termuto invece armatesi ambe le mani con due isaurici dardi, non facendo mai tregua al ferire di punta ora questi ora quelli degli assalitori, sentivasi già venir meno il coraggio per le ferite; ma confortato dall’arrivo del fratello Enne con parecchi cavalieri tornò ad animarsi, e tutto coperto com’era di trafitte e di sangue, e con seco ognora i suoi dardi corse veloce alle mura, e dalla prestezza del suo andare, velocissimo di piede, ebbe salvezza, quantunque sì malconcio del corpo. Tocca non di meno la soglia della porta Pinciana cadde, e supposto morto da’ suoi fu condotto in Roma sopra uno scudo, ove dopo due giorni, lasciando in fra gl’Isauri e tutto l’esercito grandissima rinomanza, più non vivea. I Romani avviliti pe’ sofferti disastri e solo intenti alla difesa della città, serrate [p. 141 modifica]con grande tumulto le porte, negavano d’accogliere i fuggitivi, per tema non il nemico ad uno penetrassevi entro. Quanti adunque rimasero al di fuori, valicata la fossa, teneansi tutti trepidanti cogli omeri appoggiati alle mura, più non sapendo che si fosse valore: nè sebbene lo avessero voluto potean respignere i loro avversarj inoltrantisi e pronti a guadagnare l’opposta sponda del fossato, mancando molti tra essi d’aste, infrante nella battaglia e nella fuga, tutti poi sì affastellavansi gli uni cogli altri che non aveavi assolutamente mezzo di trattare l’arco. I Gotti dapprincipio animati dallo scarso numero di guerrieri su’ merli proseguivan la pugna nella speranza di uccidere quanti escludevan dalla città, e di fugare l’interno presidio: ma vedute in appresso cinte le mura da una folta corona di soldati e di cittadini caddero di cuore, e profferite mille imprecazioni contro il nemico voltarono le spalle: la battaglia pertanto appiccata agli accampamenti loro ebbe termine al fossato ed alle porte di Roma.