Istoria delle guerre persiane/Libro secondo/Capo X

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Capo X

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CAPO X.

Segni della rovina di Antiochia. — Riflessione sopra gli imperscrutabili consigli del Nume. — Tempj conservati. — Discorso degli ambasciadori imperiali a Cosroe. — Querele del re. — Conferenza intorno alla pace, e sua conchiusione.

I. Che tale sinistro poi minacciasse Antiochia l’onnipotente Iddio avevalo agli abitatori di lei annunziato con alcuni prodigj, essendosi vedute, tra gli altri, le militari bandiere da gran tempo confiscate nel suolo volte all’occaso girarsi ad un tratto, senza opera di braccio mortale, a sol nascente, e quindi riprendere l’antica lor posizione1. Del che avvedutisi con istupore alcuni soldati, appalesarono il miracolo non terminato ancora a molti colleghi, ed insieme a Taturio2 [p. 183 modifica]questore dell’esercito, uomo di grande prudenza, cui diede i natali Mopsuestia3; e fuvvi chi preconizzò, interpretandolo, che il governo della città passerebbe dal re occidentale a quello d’oriente, nè avervi mezzo umano, come di fatto accadde, per riparare a tanta sciagura.

II. Or io credendomi fuor d’obbligo, nell’esporre tai cose alle genti avvenire, d’intrattenermi sul perchè Iddio abbia talora voluto innalzare uomini e città per quindi permetterne l’abbassamento e la distruzione senz’appalessarne il motivo, lascio di qui indagare i suoi giudizj nel concedere ad un re scelleratissimo la rovina e lo sterminio di Antiochia, bella fuor di misura e vasta città4, come ne fanno certa pruova le stesse rovine, [p. 184 modifica]dovendo io credere fermamente ch’egli opera mai sempre con infallibile provvidenza.

III. Essendo la città in fiamme il presidio rimasovi attese con zelo, giusta l’ordine ricevuto, alla conservazione del tempio; il fuoco inoltre sparagnò molte fabbriche vicine al cosiddetto Cereteo, in grazia non già di qualche umano provvedimento ma della situazion loro, perocchè lontane dalle altre non si poterono da esso aggiungere. Fu similmente arso dai barbari quanto esisteva fuori delle porte, meno le sue mura, i palagi che ricettarono l’ambasceria e la chiesa di S. Giuliano.

IV. Gli ambasciadori tornati quindi nuovamente al cospetto di Cosroe gli diressero queste parole: «Se noi, o re, non fossimo alla tua presenza mai più crederemmo che il figliuol di Cavado abbia assalito le romane terre violando un ancor fresco giuramento, saldissimo, al creder nostro, ed estremo pegno di fede tra gli uomini, e rompendo quei trattati di pace in cui ripone ogni sua speranza chiunque non sa comportare senz’affanno i mali della guerra; nè di questo procedere è uopo altrove rintracciare la causa, che nell’avere l’uomo cangiato il tenore del viver suo con quello dei bruti. Imperciocchè se i combattenti non venissero mai ad amichevoli accordi, [p. 185 modifica]eterna addiverrebbe la guerra, e ferini i costumi di tutti coloro che v’hanno parte. Rispondiamo inoltre alle tue accuse contro l’imperator Giustiniano, aggravandolo di aver mancato il primo ai patti, che s’egli per nulla vi disobbedì a torto or tu ci guerreggi, se poi innocente nol credi, è forza che pur ti contenti della vendetta sin qui presane, e lasci una volta di fornire nuovi motivi ai nostri lamenti, palesandoti così migliore di lui; mercechè essere ne’ mali inferiore indica a buon diritto superiorità quando ragionar si voglia di beneficenza; quantunque siam certi che l’imperator nostro rispettò ognora i fatti accordi. Laonde cessa, te ne preghiamo, da queste ingiurie contro de’ Romani, disutili a fe’ nostra alle tue genti, ed a te stesso di venun profitto, salvo quello di manifestarti colla più abbominevole di tutte le perfidie soperchiatore de’ tuoi confederati».

V. Gli ambasciadori tacquero, e Cosroe proseguì a sostenere che il principio dei mali veniva da Giustiniano, ed annoverò eziandio alcuna delle cagioni di essi; cagioni per verità non tutte immeritevoli di confutazione, ma nella maggior parte ben frivole e da non volersi nullamente attendere. In ispecie erano per lui forte motivo di guerra le scritte imperiali ad Alamandaro ed agli altri Unni, di cui abbiamo già tenuto discorso5; non di meno si guardò dal proferire e dall’asseverare che uom romano avesse violato i confini della Persia, o trattatone ostilmente gli abitatori. [p. 186 modifica]

VI. L’ambasceria confutò parte delle accuse col dichiarare male interpetrate le imperiali parole, e del restante, assolvendone Giustiniano, versò tutta la colpa sopra taluno dei romani ministri. Il re da ultimo chiese molto danaro a comporre ogni controversia, e non per una sol volta, dicendo che le paci altrimenti compre cessano col finir dell’oro pagato al vincitore, ma che volendosi stabili era uopo farle sorgenti d’annuo censo, e così i Persiani custodirebbero volentieri le Porte Caspie, nè moverebbero più querele contro la città di Dara, perocchè di tempo in tempo risentirebbonne qualche profitto. E replicatogli dall’ambasceria che di tal guisa e’ mirava ad aver tributario l’imperatore, soggiunse: «Tutt’al contrario, ma bensì molti dei nostri soldati addiverranno servi dei Romani col farsi loro difensori: ed anche ora non accordate voi annualmente certa quantità d’oro agli Unni ed a parecchi Saraceni, senza ritenervi loro tributarj, acciò guardino i vostri confini?».

VII. Si convenne adunque, dopo assai dispute tra loro, che i Romani sborserebbero di subito a Cosroe la somma di cinquanta mila aurei ed altrettanti ad ogni anniversario di questi accordi6, acciocchè egli cessasse dal molestare l’imperio; ed a tali condizioni gli ambasciadori, promettendosi ambe le parti vicendevolmente la piena osservanza de’ trattati nel tempo avvenire, diedero gli ostaggi7.

Note

  1. Un simile portento e ben poco lunge da quivi narra Appiano essere a venuto a Crasso mentre guerreggiava il re de’ Parti Orode (Guerre coi Parti). Dione Cassio il riferisce anch’egli con qualche rilevante differenza. «Ma io, direbbe Polibio, a siffatte assersioni degli scrittori di memorie in tutto il corso della mia Opera non posso a meno di contraddire, e d’esserne intollerante; perciocchè mi sembrano cose al tutto puerili e non solo aliene da ogni ragione di probabilità, ma eziandio dalla possibilità remote.... Nelle cose pertanto che tendono a conservare la venerazione del volgo verso la Divinità e da perdonarsi a certi storici se cotali miracoli e fole inventano, ma il soverchio non è da compatirsi» (lib. xvi, § 12, traduz. del chiarissimo dott. Kohen).
  2. Il Cousin leggeva Taziano.
  3. Così nomata dal suo fondatore Mopso d’Argo (a non dal Tessalo come leggiamo in Ammiano Marcellino, lib. xiv), il quale dopo la caduta di Troia venuto con Anfiloco nella Cilicia, fabbricò sopra quella spiaggia e Mopsuestia, e Mallo ed altre città (V. Strab., lib. xiv, ed Euforione poeta presso lo scoliaste di Licofrone). Cicerone nel primo libro De Divinatione scrisse che: Amphilocus et Mopsus Argivorum reges fuerunt; sed iidem augures: iique urbes in ora maritima Ciliciae Graecas condiderunt. Il fiume Piramo la bagna e l’abbellisce.
  4. Non meno grande e magnifica ce la rappresenta Strabone con queste parole: «Antiochia è similmente tetrapoli, vo’ dire composta di quattro parti, ciascuna delle quali ha un muro proprio all’intorno, e tutte quindi vengono cinte da altro comune. La prima di esse parti è opera di Nicatore, il quale trasportovvi gli abitatori da Antigonia, non guari prima edificata in quelle vicinanze da Antigono figlio di Filippo; la seconda di una moltitudine di cittadini; la terza di Seleuco Callinico, e la quarta di Antioco Epifane. Questa città è la capitale della Siria, ed i comandanti la regione v’hanno la reggia loro. Di poco è a lei superiore Seleucia sul Tigri, ed Alessandria di Egitto..... V’hanno stadi quaranta di Seleucia (Pierea) alle foci dell’Oronte, e centoventi da Antiochia» (lib. xvi).
  5. V. il cap. i di questo libro.
  6. Il Cousin riduce la prima somma a cinque mila marchi d’oro, e l’annuale a cinquanta.
  7. Anno 9 dell’imperio di Giustiniano, e 536 dell’era volgare.