L'Asino e il Caronte/Il Caronte/Scena II

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Scena II.

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Giovanni Pontano - L'Asino e il Caronte (1491/1507)
Traduzione dal latino di Marcello Campodonico (1918)
Scena II.
Il Caronte - Scena I Il Caronte - Scena III
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Scena II.


Caronte e i precedenti.


Car.(da sè) Eh sì sì! anche questa è una prova che la condizione degli uomini è triste: vivono tutti di speranza... Ma che cosa c’è di più vano delle loro speranze?

Min. — Che cosa borbotti fra te, Caronte?

Car. — Chi parla?... Oh chi vedo laggiù!... Vi saluto, o giustissimi giudici delle anime. Ma, per lo Stige! come mai non avete nulla da fare nel vostro tribunale?

Min. — Per la stessa ragione per cui anche tu stai in ozio: sai bene che da tre giorni non hai traghettato anima alcuna!

Car. — Ma! di questo appunto mi maravigliavo; e mi sdegnavo anzi di non aver potuto collocare a frutto nell’erario di Plutone, in questi tre giorni, neppure un soldino. E se così inganna me la mia speranza, che si dirà degli uomini in mezzo a tante vicissitudini, sempre delusi dalla speranza?

E pensare che essi mettono fra le dee la Speranza, che è soltanto l’ancella della Fortuna! Meretrice varia, incostante, ingannatrice e piena di [p. 86 modifica]raggiri sia pel bene che pel male... Ce lo ha pur dimostrato che non è molto quel tiranno, il quale, ingannato nella sua speranza di giungere al regno, è riuscito a stento a giungere a questa riva nudo, zoppicante, piangente, con passo senile ed incerto, portando seco di tante ricchezze male acquistate soltanto un anello.

Eaco. — Come ti sei fatto dotto, nocchiero! E, per l’Erebo, tu discorri da buon filosofo.

Car. — Per forza si diventa filosofi! Son tanti anni che ascolto i discorsi di uomini dottissimi, i quali, per non essere stati sepolti, devono rimaner sull’altra riva! Quando non c’è lavoro, mi diletto assai di starli ad ascoltare; e non solo ci prendo piacere, ma anche c’imparo. È vero che ce ne sono di quelli che fanno rabbia, e sono ridicoli, insopportabili, capziosi e fallaci, e vuoti, e in parte anche lubrici... come quel sofista di Parigi, che or non è molto se l’ha presa con me. E con che audacia mi gridava: «Morirai, Caronte! Morirai.» — «Ma come!» dico io, «se non sono mortale?» — «Morirai» ti ripeto — e poi, con un gran corrugar di sopracciglia, mi dice: «Charo es; omnia autem caro morti est obnoxia, morieris igitur». Bel sillogismo! C’è mancato poco che non lo buttassi dentro il fiume! — E un altro, più sciocco ancora, allora dice: «Remo fu fratello di Romolo; tu hai qui molti remi, dunque Romolo ebbe molti fratelli!...» Da scoppiar dalle risa! E allora lui ci piglia gusto, e ne dice un’altra più marchiana: «Palus est quam navigas, palus autem lignum est, dunque tu navighi non l’acqua ma il legno».

Eaco. — E lo dicono sul serio? Buffoni!

Car. — Aveva appena finito, che salta su un quarto e dice: «Tu hai tre mani...» «Come mai?» dico io — E lui: «Non si chiama palma anche la [p. 87 modifica]pala del tuo remo? Dunque, quando adoperi il remo ti servi di tre mani...» Sciocchezze da bambini! E invece sono vecchi e vogliono discutere della natura di Dio!... Ma ditemi: è possibile che i morti risorgano, come mi ha detto recentemente un tale, a cui avevo chiesto che cosa di nuovo recasse dal mondo? Io so che non ne ho mai riportato indietro nessuna di queste anime. O a voi n’è mancata forse qualcuna?

Eaco. — Lascia stare... lascia che lo credano! Ci sono tante cose misteriose che noi non sappiamo, nel mondo! Così si accresce la religione...

Car. — E allora non ne parliamo più. Ma io vorrei sapere come mai quel perfido tiranno, di cui parlavate pocanzi, non lo avete condannato a soffrire fra gli scellerati, e invece lo avete relegato solo, sull’altra riva.

Eaco. — Te lo dirà Minosse, che è quello che lo ha condannato.

Min. — Devi sapere che quel tiranno era stato in vita perfido, finto, crudele e rapace; e lo ha confessato da sè, senza bisogno di tortura. E giorno e notte non pensava ad altro che a seminare litigi, suscitare tumulti, far nascere guerre, o prolungare all’infinito quelle già sorte... E allora io ho avuto paura che venisse a metterci la discordia e la ribellione anche qui fra i Mani; e perciò credetti utile alla cosa pubblica, tenerlo lontano da tutto quanto il territorio che è cinto dal Lete; e l’ho relegato là fra le ombre erranti degli insepolti. Ma perchè anche là non seminasse litigi, ho fatto un editto che nessuno se gli possa accostare a dieci miglia.

Car. — Ben fatto, Minosse! Ma è poi vero che ogni sette giorni si cambia in rospo? e che dopo aver gracidato tutto il giorno, la sera viene un’idra [p. 88 modifica]che se lo mangia?... e poi il mattino dopo ridiventa ombra?

Min. — Gli vien reso quello che ha fatto: fu solito divorare gli altri, ora è divorato a sua volta.

Car. — È la pena del contrappasso... E così fossero noti ai mortali questi supplizi, sì che diventassero meno violenti e ambiziosi e rapaci!

Min. — O ti sei già dimenticato di Pitagora? Eppure dovresti ricordartene, perchè (poveretto!) è venuto quaggiù con la faccia e i capegli bruciati e col naso e le orecchie strappate... E chi lo aveva conciato in tal modo? Dei giovinastri, che lo bruciarono vivo in casa sua, seccati ch’egli predicasse la moderazione ai mortali, e li ammonisse dei supplizi venturi.

Car. — Oh buon Plutone! donde mai tanta ingratitudine e crudeltà? È questo il premio di chi ammonisce ed insegna?!

Min. — Gli è che il genere umano è sfrenato quanto mai ed ingrato; e tutti quelli che han voluto ricondurlo sulla buona strada han finito male. Non furono i Poeti i primi ad insegnare il vero sulle cose dell’oltretomba? Guarda come tutti li disprezzano! E Socrate? l’uomo più saggio e più buono che sia mai esistito? Gli han fatto ber la cicuta. E che cosa poi non han fatto contro il Cristo?! Tu lo sai, chè abbiamo tutti voluto toccare le ferite del suo costato e dei piedi, non volendo quasi credere che gli uomini avessero osato commettere tanto delitto!

Car. — Eppure Egli insegnava la verità...

Min. — O Caronte! tu mostri d’ignorare che la Verità è sempre stata odiosa ai mortali. — Ed è appunto perchè il Cristo voleva ricondurla fra gli uomini dall’esilio dov’era stata bandita, che ha sofferto passione e morte!... [p. 89 modifica]

Car. — Ma tu che sei stato uomo e che hai regnato a lungo in Creta, tu lo sai donde provenga tanta malvagità degli uomini?

Min. — Di ciò fra poco. Ora considera prima una cosa, che varrà a mostrartela meglio, questa loro malvagità.

Car. — Parla, chè t’ascolto.

Min. — Odi che abbominazione! So che anche agli uomini ora sembra cosa abbominevole, che il Cristo sia stato crudelmente fatto morire da quegli stessi uomini coi quali aveva vissuto innocente per tanti anni, e ai quali aveva impartito i suoi insegnamenti; mentre noi, e queste turbe di anime che non lo conoscevano affatto, subito a prima vista lo venerammo e lo adorammo.

Car. — Non ne so capir la ragione.

Min. — La capirai se pensi alla filosofia; poichè chi vuol filosofare, deve avere anche buona memoria. Ti ricordi di quel giorno, memorabile nel regno dei Mani, in cui fu chiamato al nostro giudizio quello Stagirita che si faceva chiamare il Peripatetico? L’accusa era che fosse stato ingiusto ed ingrato verso il suo maestro. E lui, per difendersi, comincia a fare una dissertazione...

Eaco. — Lo ricordo bene...

Min. — ... che la natura dell’uomo è duplice: l’una razionale, l’altra priva di ragione. E che questa parte priva di ragione era duplice anch’essa: l’una del tutto opposta alla ragione, l’altra che alla ragione si avvicina e le obbedisce. Che perciò le passioni violente e gli appetiti disordinati e incapaci di freno solevano abbattere talmente quella parte che obbediva alla ragione, che questa non poteva dar nessun aiuto a mantenersi nella famosa via di mezzo: e di qui nascevano i vizi, le sedizioni, le guerre e gli altri malanni che si [p. 90 modifica]trovano fra i mortali. Perciò anche riusciva loro molesta la verità, sicchè non volevano nè dare ascolto a quelli che insegnano il giusto e l’onesto, nè sopportarli. Per questo, Pitagora perì nel fuoco, Socrate morì di veleno, Cristo fu crocifisso...1 E il genere umano, cieco e vinto e quasi furioso per le sue brutte passioni, non volle nè potè riconoscere quel Giusto che mandò a morte; mentre quei pochi che lo riconobbero, non poterono difenderlo essendo in pochi — perchè i buoni son sempre pochi. Invece i Mani, ossia le anime dei morti, non essendo più impacciati dal peso bruto dei corpi, lo riconobbero subito; e anzi quelli che ormai erano mondi del contatto del corpo e del tutto purificati, poterono seguirlo in cielo.

Car. — E con quanti applausi da tutti noi!... Ma dunque l’origine e la causa di tutti i mali viene dal corpo? E dall’anima, allora?...

Min. — L’origine nasce dal corpo; ma anche l’anima ci ha colpa, perchè, mentre dovrebbe comandare, si lascia vincere. Felice te, o Caronte, che fosti sempre libero e sciolto dai legami del corpo, e non ti turbarono mai le voluttà assillanti che lo signoreggiano, e non ti trassero a rovina le infinite e insaziabili cupidigie degli uomini!

Ma noi forse siamo un po’ troppo ciarlieri, e impediamo il tuo ufficio, che non soffre sosta nè riposo.

Car. — Come passa il tempo a discorrere di filosofia! Così avessi più tempo da dedicarci! Ma per quanto me lo permette il mio impreteribile ufficio, io me ne occupo: è dessa la consolatrice e [p. 91 modifica]la compagna delle mie fatiche! essa non mi lascia esser solo, pur segregandomi dalla vil moltitudine che mi sta sempre intorno.

Eaco. — Guarda bene, Minosse, là verso occidente... Non ti par di vedere quasi una nube che si fa sempre più densa?

Min. — ... E la precede un punto luminoso e scintillante?... Ho capito: riconosco i talari splendenti di Mercurio. Noi lo aspetteremo qui; tu, Caronte, spingi la tua barca all’altra riva.


Note

  1. Ma come Aristotile (lo Stagirita) potè conoscere Cristo? Il Pontano fa qui una gran mescolanza — direi contaminazione — delle idee cristiane con quelle pagane; che è però assai caratteristica e serve a darci un’idea del modo di ragionare e di pensare degli Umanisti.