L'aes grave del Museo Kircheriano/Utilità che ritraggonsi dal peso e dalle impronte dell'aes grave

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Utilità che ritraggonsi dal peso e dalle impronte dell'aes grave
Delle impronte dell'aes grave Tavola Geografica

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UTILITA' CHE RITRAGGONSI DAL PESO E DALLE IMPRONTE DELL' AES GRAVE


Le prime indicazioni di quel qualunque metodo geografico e cronologico, a cui ci siamo attenuti nella publicazione di queste monete, ci sono state poste innanzi dallo studio e dal confronto cosi del vario loro peso, come dell’ordine vario delle loro impronte. Diam quivi un cenno di questo doppio magistero sì per giustificazione di noi medesimi, sì per istruzione di chi trovasi lungi dalla presenza de’ monumenti.

La corta nostra veduta nella varietà de’ pesi che incontrasi nell’aes grave, non ha saputo renderci persuasi della ragione di quella serie progressiva d’anni e di secoli, ch’era sì altamente fissa nell’animo a quel dotto archeologo, che fu Giovan Battista Passeri, e che in quest’ultimi tempi fu presa per inconcusso fondamento cronologico da Melchiorre Delfico. Nel peso maggiore o minore noi altresì riconosciamo un solido argomento di maggiore o minore antichità sì tra le monete diverse d’una medesima città, sì tra quelle di città e provincie diverse. Ma dov’eglino non distinguono il peso della libra cisapennina o tirrenica dall’adriatica, noi dalla evidenza del fatto costretti siamo a distinguerlo: e dov’essi credono di potere stabilire epoche certe, noi non possiamo travedere che una incerta successione di tempi. Spiegandoci con migliore chiarezza, diremo, essere irrepugnabile, ma indeterminata questa ragione cronologica; come irrepugnabile, ma indeterminato rispetto agli anni, è il fatto delle monete fuse e coniate in bronzo nella età dei re e ne’ secoli primi della republica in questa Roma. Queste chiaramente nel più e nel meno de’ loro pesi ci avvisano la maggiore o minore lontananza della loro origine, ma nulla poi ci rivelano, neppure approssimativamente, intorno al preciso tempo di tale origine.

Tenendo pertanto noi dietro a questa qualsiasi guida, e insieme alle osservazioni locali che da parecchi anni non cessiamo di fare, abbiamo creduto, che non sarebbe stato un trarre oltre i giusti confini la forza di quest’argomento, dando per la ragione de’ pesi alle monete dell’Italia adriatica un luogo distinto da quelle della tirrenica; e in questa medesima Italia tirrenica concedendo la prima gloria e il primo tempo a’ padroni delle monete fatte disegnare nelle tavole della prima classe, perchè queste sono del peso massimo; attribuendo a quelle della seconda classe il secondo tempo, perché sono d’un peso medio; collocando nel tempo e luogo ultimo la terza classe, perchè nel confronto queste monete sono del peso minimo. Fino a questo termine ci siamo inoltrati senza tema di errare: il dare un passo più oltre ci avrebbe fuor di dubbio condotti in qualche errore anche grave. [p. 8 modifica]Che se il diverso peso dell’aes grave ne è stato giovevole per una parte a stabilire in generale una certa progressione indeterminata di tempo, ed una divisione tra le diverse nostre provincie; nulla meno per l’altra ne ha giovato lo studio delle sue impronte a distribuirlo tra le città e i popoli diversi di queste medesime provincie. Un buon numero di monete si ordinava in serie quasi da se stesso, senza il bisogno della nostra mano; ed erano appunto quelle monete che mantengono costante l’impronta ora del diritto, ora del rovescio, ora del diritto e del rovescio insieme, come altresì quelle che portano i monogrammi o le epigrafi , , ΗΑΤ. Queste serie, nel cui ordinamento noi non avevamo alcuna parte, ci mostravano troppo palese, ch’erano sei le monete bastevoli a costituirle, e che sono fuori de’ primitivi loro confini i decussi, i quinipondj, i tripondj, i dupondj e le semoncie, che ad alcune di loro in tempi posteriori pajono aggiunte: come altresì ne davano chiaramente a conoscere, che le impronte adoperate la prima volta, si mantennero da loro immutabilmente, finché non venne la potenza di Roma a farle discomparire.

Cessammo però di rintracciare due assi nella serie di ΗΑΤ, due semissi in quella di , due trienti in quella della doppia ruota, due quadranti in quella della bipenne, due sestanti in quella della diota, due oncie in quella del cantaro e così dell’altre. Per tal modo la ragione ci convinceva, che tante adunque esser dovevano in questa Italia di mezzo le diverse città, che usato avevano dell’aes grave quante erano le serie o intere o dimezzate delle monete, che ora da noi si conoscono, o conoscere si potranno in appresso. Quest’argomento ne faceva forza ad abbandonare la vecchia usanza di publicare riuniti quasi in un fascio gli assi tutti da se, i semissi pure da se, e cosi le parti minori. Da quel metodo sterile e falso non avremmo giammai potuto trarre una scintilla di luce: per opposto speravamo, che nel collocare le monete nelle naturali loro serie, non pure avremmo data una bella mostra a quegli unici monumenti, che sappiamo indubitatamente appartenere a città e popoli, de’ quali l’avara storia ci ha serbato poco più che il nome; ma avremmo altresì messo un vivo eccitamento tra’ moderni abitatori di quelle terre, in cui v’ è sospetto che rimangano tuttavia sepolte alcune monete necessarie a dar compimento alle serie imperfette, acciocché col più sagace amor patrio le rintraccino e le raccolgano. Sono questi i generali ammaestramenti che ci è parato vederci additati dalla osservazione intorno a’ pesi e alle impronte dell’aes grave: nel decorso del nostro lavoro offeriremo alla saggezza de’ nostri lettori alcune particolari conseguenze che di qua ne derivano.

I pochi avvertimenti che abbiamo finora prodotti, e que’ di più che accenneremo in appresso, sarebbonsi per la maggior parte sottratti alle nostre investigazioni, se ci fossimo dati ciecamente a guidare a quegli antichi e moderni scrittori, che sono stati prima di noi gl’interpreti dell’ aes grave. [p. 9 modifica]Non furono essi pochi, nè sì poveri di rinomanza, che necessario sia tesserne qui il novero o lodarne i meriti. Verso tatti professiamo una giusta venerazione: confessiamo d’avere da tutti appresa una qualche buona lezione: aggiugniam anche, che i loro errori medesimi sono stati per noi non rade volte documenti opportunissimi ad iscoprire una qualche parte di vero. Dal qual ricordare che qui facciamo gli altrui falli niuno argomenti, che noi ci vogliamo arrogare il merito dell’impeccabilità. Andrem lontani anche noi più d’una volta dal vero, non perchè al vero nemici, ma perchè il difetto di scienza e di critica non ci permetterà in ogni luogo di ravvisarlo e raggiungerlo. Tuttavia assicuriamo il publico, che non ci mostreremo restii ad accostarci alle sentenze di chi sa e ragiona meglio di noi. Ma prima che altri venga a farci manifesti i nostri errori, ci si conceda il recare qui una sola pruova degli altrui; perchè anche di qua ognuno vegga con quali accorgimenti ci siamo studiati di percorrere quest’arduo cammino.

Plinio in quell’ampio e svariato tesoro che è la sua Storia Naturale, ha voluto lasciarci una memoria qualsiasi della introduzione dell’ aes grave figurato nel commercio di questa Roma. Egli è per noi un debito quello di mettere la narrazione di lui ad un esame quanto per noi si possa giudizioso perchè speriamo, che ciò solo basti a scoprire la cagione che ha fatto traviare tutti quasi i numismatici, che ci hanno preceduti in questo difficile argomento; e perchè si vegga la necessità in che noi eravamo di affidarci ad una guida meno mal sicura, affin di giungere ad un termine meglio accertato che non è il pliniano.

Temeremmo, che audace potesse appellarsi l’impresa del recare in questione la testimonianza d’un tanto autore, se potessimo persuaderci, che vi fosse in questo nostro secolo un qualcuno, il qual facesse minor conto della verità che del nome di Plinio. D’altronde a questa discussione ci provocano tre gravi ommissioni che non avremmo volute mai incontrare in quel racconto. Imperocché s’è egli daprima dimentico di quel suo pudet a graecis Italiae rationem mutuari: ha dipoi preteso di darci la storia dell’aes grave romano, senza accennare neppur da lungi alla storia dell’aes grave italico, con cui il romano era indivisibilmente congiunto: ne ha per ultimo lasciato vedere troppo scopertamente, ch’egli scriveva di questi monumenti, senza forse averli avuti mai innanzi agli occhi. Ma veniamo al testo, lasciandolo, com’è, diviso nelle sue tre parti riguardanti l’origine, le impronte e il peso dì queste monete.

„Servius rex primus signavit aes: antea rudi usos Romae Timaeus tradit„ (XXXIII. 13.). Ed altrove „Docuimus quamdiu populus romanus aere tantum signato usus sit: sed et alia vetustas aequalem urbi auctoritatem ejus declarat; a rege. Numa collegio tertio aerariorum fabrum instituto„ (XXXIV. 1.). Pare che i due luoghi divisi di questa storia si possano cosi riunire in un medesimo contesto. „Timeo racconta, che prima del regno [p. 10 modifica]di Servio non usavasi in Roma se non l’aes rude; e che quel re fu il primo che qui introdusse l’aes grave figurato. Ma che questa seconda forma di moneta fosse in Roma contemporanea alle origini della città, ne lo dichiara una istituzione più antica, qual è il terzo collegio de’ fabri, creato da Numa per il servigio dell’erario„. Queste parole ci rappresentano due testimonj di ben diverso genere posti dal medesimo storico a fronte l’uno dell’altro, perchè ci diano conto d’un medesimo fatto. Uno scrittor greco da un lato, una primitiva istituzione romana dall’altro. Plinio infra due non ricorda l’ignominia a cui va incontro, nel chiedere ad un greco informazioni intorno all’origine d’un’ arte tutta italiana, e mostrasi più che sodisfatto dell’avviso di Timeo. Ma poco dipoi si palesa quasi pentito di tanta fiducia, e vuole alle parole dello straniero scrittore sostituire la troppo migliore testimonianza del patrio istituto.

Faremo opera di restringere in poche e brevi osservazioni le lunghe chiose che qui si potrebbono tessere. Se il tesoro di Plinio fosse quella storia critica e giudiziosa, che in altre età è stata da molti creduta, né vedrebbonsi riportate in due luoghi sì diversi queste due sentenze, nè molto meno vedrebbesi trasandata la terza, la quale, se durava a’ tempi di Macrobio, tanto a que’ di Plinio posteriori, molto più fresca vita aver doveva nella età di costui. Ravvicinate le tre diverse opinioni in un medesimo luogo, avrebbe egli dovuto studiarsi di sceverare il vero da ciò che in esse vi debb’essere di falso; nel quale studio sarebbegli di presente venuta agli occhi la necessità di distinguere le origini non romane dell’arte, dalla introduzione dell’arte stessa in Roma. Tenendo dietro a questa prima distinzione, tra mezzo alla copia in che egli trovavasi di monumenti, di tradizioni, di antiche scritture, non sarebbegli per fermo stato difficile il fissare il tempo quasi preciso di que’ due fatti, la cui importanza era sì grave per la storia delle italiane arti.

Se non che pur troppo sovente scorgesi in Plinio quella parzialità medesima, che in altri scrittori di Roma; i quali appena mai degnansi d’avvisarci d’una qualche cosa italiana buona e grande, quando l’avviso non torni a gloria di quella loro orgogliosa padrona del mondo. Schivano il far menzione della civiltà e delle industrie de’ popoli non romani, perchè niuno mai entri in sospetto, che Roma abbia avuto bisogno d’apprender da loro il magistero delle buone arti. Pare che il loro amor proprio meno si offenda del dichiararsi discepolo di greco, che d’italiano maestro. E pure poteva Plinio di leggeri avvedersi, che i sottili indagatori delle prime età di questa metropoli, non si sarebbono forse mai lasciati persuadere, che o a’ tempi di Servio, o molto meno a que’ di Romolo avesse quivi potuto la moneta figurata avere il suo primo nascimento. Non è neppur verisimile che i romani di que’ due primi secoli attendessero a ritrovare e coltivare le arti belle, quando potevano a grande stento bastare alla incessante occupazione ch’era per [p. 11 modifica]essi la guerra. Né certo fra i trambusti delle battaglie sarebbono forse mai pervenuti allo studiato ritrovamento dell’aes grave signatum.

Abbiamo già fatto cenno d’una terza sentenza pretermessa da Plinio, e da Macrobio riferita. Narra costui (Saturn. L. 7.) che non già Servio, né Romolo, ma Giano fosse il primo a segnare moneta, e che per riverenza e gratitudine verso Saturno, da cui molte ed utili dottrine aveva apparate, nel rovescio di essa vi effigiasse la prora di quella nave, su la quale il benefico ospite aveva approdato a’ vicini lidi. Non sappiamo ciò che v’abbia di storico e di vero in cosi fatto racconto. Ma se v’ ha pur qualche cosa da potersi quinci ad utile de’ nostri studj ricavare, si è, che rimontando quivi Macrobio a’ tempi di Saturno e di Giano, che di parecchi secoli precedettero la fondazione della città di Romolo, pare abbia con ciò voluto ricordare il primo ritrovamento della moneta, le cui origini per tal guisa andrebbono a confondersi con le origini della prima civiltà della nazione. Ma nella forma con che sono operati i nostri monumenti non sappiam noi trovare una conveniente ragione di risalire tant’alto. Oltredichè non vedendo noi la nave di Macrobio fuori della moneta romana, che è tutta segnata con quella impronta, siam costretti a dire, ch’egli favoleggia quando a Giano l’attribuisce. Una saggia critica con mettere le parole di Macrobio a confronto delle monete italiche a cui si riferiscono, e che qui da noi si publicano, ci potrà dire qual giudizio abbiasi a formare di loro.

Plinio dal suo canto con rimanersi incerto a quale delle due sentenze da se riferite possa con maggior sicurezza attenersi, pare che altra cosa non voglia significarci, se non che immemorabile era in Roma l’uso di quest’arte. E se a noi, posti a sì enorme distanza di tempi, conceduto fosse ciò ch’egli arrogar non si volle; il giudicare cioè tra l’autorità di Timeo e quella del collegio de’ fabri da Numa istituito, con troppo buon diritto rigetteremmo il racconto dello scrittore forastiero e greco, che da quanto appare su niun solido fondamento stabilisce quel fatto, e ci appiglieremmo alla validissima dimostrazione del collegio istituito dal secondo re di Roma. Plinio medesimo non avrebbe in un libro posteriore riferito questo fatto, quando non avesse voluto, se non ritrattare, almeno diminuir fede a ciò che raccontato avea nel libro precedente. Ma posciaché egli non vuole apertamente dichiararsi, neppure noi, che sforniti siamo d’ogni autorità, con tutto ciò che abbiamo detto intendiam di togliere la questione dal luogo ove la troviamo. Tuttavia ci facciamo lecito di conchiudere, che da Plinio non si potrà ricavare giammai una prova incontrastabile del preciso tempo della introduzione della moneta figurata in Roma, e molto meno un certo avviso della prima origine di quest’arte in Italia.

Trapassa quindi lo storico alle impronte della moneta romana, nella quale seconda parte di sua narrazione ne mette nell’animo, come accennavamo, il grave sospetto del non aver egli mai avuti innanzi agli occhi i [p. 12 modifica]monumenti che vuol descrivere. Le parole di lui son queste. „Aes signatum est nota pecudum, unde et pecunia dicta.„ E poco appresso: „Nota aeris fuit ex altera parte Ianus geminus, ex altera rostrum navis : in triente vero et quadrante rates„. Le parole in nostra favella suonano cosi. Si volle che l’aes grave avesse per sua impronta la pecora, dalla quale prese il nome di pecunia. O più veramente, le imagini dell’aes grave furono da una parte il Giano dalla doppia testa, dall’altra un rostro di nave, che nel triente e nel quadrante mutavasi in una zattera „.

In una sola cosa avrebbe forse Plinio errato, se si fosse ristretto al dirci, che l’effigie della pecora, o d’un qualsiasi altro de’ quadrupedi domestici, fu impressa su la prima moneta di Roma. Ma ben più grave torto fa egli quivi al suo senno, ponendosi quasi in contradizione con se medesimo, col sostituire poco dipoi alla pecora il Giano, e la zattera al rostro di nave. Non diremo già ch’egli tramutasse Giano in una pecora, o viceversa : ma non possiamo lasciar di rilevare, che il medesimo luogo ad un medesimo tempo non poteva essere occupato e dalla pecora e dal Giano.

Né varrebbe il dire, che l’una effigie non esclude l’altra, quando si vogliano collocare su diverse monete. Se questo stato fosse l’intendimento di Plinio, egli stesso fatta avrebbe questa distinzione, come rispetto al rostro della nave e alla zattera, ha saputo collocare questa nel triente e nel quadrante, lasciando quella forse all’asse, al semisse, al sestante e all’oncia. Ma ciò che v’ ha di peggio si è, che questa distinzione manca al tutto di fondamento. Nelle centotrenta monete romane di aes grave, che noi contiamo in questa collezione, e nelle altre molte che ci sono passate per le mani, non abbiamo trovata mai varietà ne’ rovesci. Quelle impronte differiscono nella grandezza, differiscono nell’arte con che sono modellate; ma o non ne rappresentano mai altro fuorché il rostro della nave, o non altro mai fuorché la zattera. Fermino per poco i nostri lettori l’occhio curioso su la serie ben lunga di tai monete che abbiam fatte disegnare nelle prime cinque tavole, e veggano, come torni giovevole il fidarsi anzi allo storico di tai monumenti, che a’ monumenti stessi.

Siccome poi questa nave nel rovescio delle monete romane è immanchevole, cosi immanchevoli sono nel diritto il bifronte, il Giove, la Minerva, l’Ercole, il Mercurio e la creduta Roma. Se per indiscreta venerazione verso uno scrittore troppo facile ad errare, noi volessimo tenere in conto di romane quell’altre monete, su cui v’ è scolpito il bue, il cavallo, il majale, a’ quali tre quadrupedi può per qualche buon titolo adattarsi il nota pecudum, ci troveremmo nella necessità di tornare col nostro aes grave al disordine antico, rinunziando agli evidenti vantaggi di quella classificazione, nella quale pressoché di per se le monete si sono distribuite, ed abbracciando un’ombra vana in luogo d’un corpo solido e reale.

Tuttavia non ne pare inesplicabile l’ errore di Plinio nel proposito della [p. 13 modifica]pecora. Avea egli forse veduto un di que’ cavalli, di que’ giovenchi, di que’ majali, che non sono rari ad incontrarsi sul’aes grave non romano, e studiando quelle monete come solevasi fare da’ numismatici de’ due secoli trascorsi, stimò forse che fosser di Roma quelle eziandio che appartenuto avevano a città da Roma distinte e lontane. Eppure se chiesto avesse consiglio ai fanciulli romani, che a que’ suoi tempi eziandio passavan la vita ne’ trastulli e ne’ giuochi, l’avrebbono eglino stessi distolto da questo intramischiamento di pecore con teste di divinità e navi. A’ tempi tardissimi di Macrobio continuavano cotesti fanciulli a contestare quale era stata la prima istituzione dell’aes grave romano. Facevano ciò in quel giuoco, in cui lanciando in alto loro monete si chiedevano a vicenda le teste degl’iddii o la nave, che nel cadere le monete avrebbono loro presentato. Non potrebbono all’uopo nostro essere più efficaci le parole di Macrobio. „ Ita fuisse signatum hodieque intelligitur in aleae lusu, quum pueri denarios in sublime jactantes capita aut navim, lusu teste vetustatis, exclamant „. Dove vorremmo si osservasse, che quel capita aut navim non può per qualsiasi sforzo di ragione non riferirsi all’aes grave primitivo. Macrobio parla di denari e di denari del suo secolo, ne’ quali per fermo le teste non si accompagnavano immutabilmente con le navi : talché quelle voci non avrebbono un senso vero, se non le riportassimo, com’ egli vuole, alla primissima età della moneta romana, lusu teste vetustatis. In que’ primi esordj nato era quel giuoco, e col giuoco quella disgiuntiva interrogazione : e si l’ uno come l’altra erano venati discendendo da secolo a secolo saiza punto alterarsi, a fronte delle molteplici trasformazioni che aveva incontrate in si lungo spazio la moneta romana.

Non ci tratterremo su le parole troppo conosciute d’ Ovidio: „ Sed cur navalis in aere Altera signata est, altera forma biceps „ ? Neppure toccheremo la solidità di che riman priva la pliniana etimologia della voce pecunia. Con queste minate disquisizioni la nostra scienza non progredirebbe, d^un solo passo.

Un qualche miglior pro ci possiamo ripromettere dal ragionare su ciò che v’ ha di erroneo nella terza parte della narrazione di Plinio. Parlasi in essa del peso in questi termini „ Librale pondus aeris imminutum bello punico primo, quum impensis respublica non sufficeret constitutumque ut asses sextantario pondere ferirentur. Ita quinque partes factae lucri, dissolutumque aes alienum „. E in lingua nostra» „ La moneta, ch’ era del peso d’una libra, fa diminuita all’occorrenza della prima guerra cartaginese, perché la republica non poteva sostenere que’ dispendj : talché allora si stabilì, che si coniassero gli assi di sole due oncie. Cosi si ebl)ero cinque parti di puro guadagno e ai pagò il debito „.

Qui più che altrove rimane agevole il dimostrare l’ inganno di Plinio. Quelle parole, chi le interpreti senza studio di tirarle più ad un senso [p. 14 modifica]che ad un altro, escludono dall’ asse romano qualunque peso, che s’ intramezzi fra’ due estremi stabiliti delle dodici e delle due oncie. Ora pongasi una sì fatta testimonianza a confronto delle moltissime monete romane, a cui si riferisce. Senza mettere a calcolo le monete maggiori o minori dell’ asse, ecco in compendio lo stato metrico de’ nostri trentacinque assi romani. Sono cinque i pesantissimi, al pari forse di quanti se ne possano in altre mani rinvenire, e stanno sopra le dieci oncie romane, senza però che alcuno arrivi a toccare le undici: sedici salgono gradatamente dalle nove alle dieci: due soli tra le quattro e le cinque: dodici tra le due e le tre: gli ultimi due oltrepassano l’ oncia e mezzo senz’ arrivare alle due. Avvisiamo che nel raccogliere queste monete, appena mai noi abbiam tenuta ragione della varietà del peso: chi amasse adunare cotali varietà, riuscirebbe in poco tempo a mettere insieme molto più di ciò che noi abbiamo fatto. Avvisiamo eziandio, che la libra ed oncia romana dell’età nostra se non eguaglia a puntino, differisce di pochissimo dall’ antica.

Sappiamo non esservi mancato chi anche in questa parte ha voluto prendere le difese delle parole di Plinio. Ma né i sottili giuochi dell’ingegno, né i fervidi della fantasia oggidì la vinceranno contra la forza de’ monumenti. La numismatica si crea da se medesima la parte migliore della sua storia: e nulla sarebbe la nostra ragione, se nella discordanza degli scrittori o delle scritture, soggette a si svariate alterazioni, non avessimo il coraggio di porre la moneta al di sopra d’ogni altra autorità in cosa che alla moneta medesima s’appartiene. Conchiudiamo adunque, e diciamo, che Plinio, il quale sì solennemente ne ha significato di non conoscere né il preciso tempo della introduzione dell’ aes grave figurato in Roma, né le precise imagini che sopra vi furono scolpite, non è maraviglia, che qui ci dia l’altra prova d’ ignorare i pesi diversi che l’ aes grave ebbe in diversi tempi.

Questi sono i dettati di Plinio, su la norma de’ quali scrissero cose nullameno portentose molti tra que’, che ne’ moderni tempi vollero illustrare l’aes grave. E pure senza di essi il presente lavoro sarebbe incomparabilmente da meno di quel che è. Tutti ci hanno somministrati sicuri documenti o per iscoprire il vero, o per riconoscere il falso. Perciò in niun’ altra cosa siamo stati inesorabili, se non nel rifiutare qualsiasi loro nome ed autorità, quando non si accordava col testimonio che di se davaci la moneta. La povertà in che tuttora trovansi alcune parti del medagliere del Collegio Romano, l’impossibilità d’ istituire confronti con quelle monete, di cui finora non conosciamo che un esemplare, e quindi l’ arduità di risaperne la provenienza, la meschinità della erudizione, la debolezza dell’occhio e della mente non possono a meno di non aver condotti noi altresì in molti traviamenti. Per gli avvisi che cortesemente ci vengano dati non tarderemo ad emendarci in quelle appendici, che costretti saremo a publicare a mano a mano che scopriremo o che ci verranno indicati nuovi monumenti. [p. 15 modifica]Ma egli è oramai tempo di venire alla descrizione di questo aes grave secondo l’ordine che ha nelle nostre tavole. Preghiamo i dotti a perdonarci la prolissità di questa descrizione. Noi non intendiamo d’averla fatta per coloro, che con una occhiata che diano al monumento, ne leggono tutte le particolarità. Scriviamo nel volgar nostro e in una forma piutosto minuta, per istruzione singolarmente di quegl’italiani, che quantunque non si occupino delle più gravi ricerche archeologiche, si truovano spesse volte testimonj dello scoprimento de’ più vetusti e più pregiati monumenti della nostra nazione, tra i quali l’aes grave tiene un luogo sì nobile.