L'ombra del passato/Parte I/Capitolo VII
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VII.
La zia Elena s’affacciò alla porta, guardò il cielo biancastro e disse:
Per San Benedett
la rondanina la ven al tett,
e s’l’è mia ’gnida,
u ch’l’è morta u ch’l’è frida.
Sì, era il ventuno marzo, San Benedetto, e le rondinelle non erano ancora venute. L’inverno continuava, rigido e implacabile; il cielo prometteva ancora la neve.
Anche Pirloccia s’avvicinò alla porta: era brutto, scarno e nero più del solito: sembrava un piccolo diavolo. Egli guardò il cielo e tossì: al di là della siepe a destra s’udì la tosse del zolfanellajo, una piccola tosse stanca, e al di là della siepe a sinistra la tosse rabbiosa e forte di Sison. Anche il bambino di Carissima tossiva: tutti tossivano. A un tratto Adone apparve nell’andito, col suo mantello, il suo berretto, i suoi zoccoli: e passando tra la zia Elena e il Pirloccia urtò alquanto quest’ultimo.
— Ecco uno che s’infischia dell’inverno, — disse l’uomo, guardando con dispetto il fanciullo. — Lui non è mai malato, e non si preoccupa di nulla! La sua malattia è l’appetito.
Adone filò dritto senza rispondere.
Pirloccia tossi ancora, sputò, gridò:
— Lascia venire il bel tempo! Almeno a pascolar le vacche andrai, fannullone!
Tognina, per consiglio del fratello, che oramai era il padrone in casa, aveva comprato un paio di enormi vacche. Adone ammirava le due grandi bestie monumentali, ma l’idea di condurle al pascolo non gli riusciva gradita.
— Io vado a scuola, — gridò, voltandosi. — Le vacche le pascolerete voi.
— Ah, sì, proprio? Vedremo.
— Vedremo!
L’uomo continuò a brontolare: Adone andò via senza più voltarsi, senza più rispondere. Ma la tristezza e l’umiliazione lo avvolgevano, gli pesavano come il suo brutto mantello. Le persecuzioni del Pirloccia e dèi suoi figliuoli cominciavano ad avvilirlo, ed egli si domandava sempre il perchè di questa grande ingiustizia. Che faceva di male, per essere maltrattato e avvilito così? Perchè Pirloccia era così cattivo? Tutti erano buoni, al paese. Lo zolfanellajo era un santo; il fabbro, il falegname, il tabaccajo, tutti erano buoni. Anche Sison, nonostante i suoi continui brontolii, era buono, amantissimo della sua famiglia.
Anche la mamma era tanto buona: era una martire, una vittima della povertà. A misura che cresceva, Adone sentiva di amare intensamente la sua povera mamma, e soffriva perchè non poteva subito aiutarla. Tognina invece non era buona. Non era cattiva, ma neppure buona. Egli però ne sapeva il perchè: glielo aveva detto la zolfanellaja. Tognina era ricca e i ricchi non sono mai buoni: amano troppo il loro denaro per poter amare il prossimo. Ma verrà un giorno... Verrà un giorno in cui i poveri saran ricchi e i ricchi poveri! Allora... Allora questi sapranno quanto è triste non essere amati.
— Ma io vorrò bene a tutti, anche se diventerò ricco, — prometteva Adone a sè stesso. — Come si fa a non voler bene a tutti?
Però al Pirloccia sentiva che non avrebbe mai potuto voler bene: l’ometto lo perseguitava troppo, era troppo cattivo. Perchè era così? Forse perchè girava il mondo. Sì, una volta il maestro aveva detto: «Fanciulli, amate i campi, la sacra natura: l’uomo dei campi è l’essere che più s’avvicina alla perfezione: egli non conosce le corruzioni e le ipocrisie del mondo, e conserva la sua anima semplice e pura».
Che cosa fossero le corruzioni e le ipocrisie del mondo Adone ancora non sapeva: sapeva però che Pirloccia aveva veduto molte città, molte nazioni, e che era diverso dagli altri abitanti di Casalino. Sì, ma anche Davide viveva in una grande città, e non era cattivo! Perchè dunque? Perchè dunque? Pareva che il piccolo uomo nero avesse una ragione occulta per maltrattare Adone; e anche Tognina, e anche i figli del Pirloccia parevano animati contro di lui da un astio segreto. Non volevano che egli vivesse senza lavorare, e sognasse una posizione migliore della loro. Altra ragione la mente dello scolaretto non trovava: ma il suo cuoricino sensibile presentiva altre ragioni, delle quali non sapeva spiegarsi il mistero. Specialmente l'indifferenza e l’astio della Tognina gli parevano mostruosi. Perchè la zia non lo trattava almeno come gli altri nipoti, o non lo amava almeno come amava le cose che le appartenevano? No, per lei egli contava meno d’una sedia, di una cassa, di un barattolo di conserva.
E non potersi liberare, non poter vivere con la sua mamma, coi suoi fratellini! Perchè mai la sua mamma era così povera? Ah, certo, egli avrebbe preferito vagare per il mondo, elemosinando, piuttosto che andar a mangiare il pane già scarso della sua mamma e dei suoi fratellini. Ah, egli ricordava sempre che Ottavio e Reno l’avevano guardato con invidia mentre mangiava la focaccia, al ritorno da Viadana, il primo giorno di scuola.
Ed ecco, ora, il Pirloccia minacciava di mandarlo a pascolar le vacche!
Era uomo da farlo. Ma egli era ragazzo da ribellarsi, anche! Sì, ma come? Era facile pensarlo; ma dal dire al fare. — insegnava il maestro, — c’è in mezzo il mare.
Ah, ecco, egli camminava, camminava in fretta, come al solito, e sentiva sulle sue piccole spalle il peso del suo destino; e sentiva nel cuore la disperazione della sua debolezza, della sua miseria. Come liberarsene? Il suo destino era come il suo mantello: brutto ma comodo. Liberarsene significava morir di freddo.
Verrà un giorno, però!... Il freddo passerà bene; il sole tornerà a scaldare la terra, l’erba, la cara erba buona, crescerà lungo l’argine e nei viottoli.
Via il mantellaccio, allora; via gli zoccoli: l’uccello uscirà dalla sua gabbia e sarà padrone del cielo.
E così nell’avvenire, così nella vita.
Dio, Dio, che gioia! Egli palpitava al solo pensiero dell’avvenire: l’incontro con Marco, la tappa da Belluss, il calore della fiammata, la dolcezza delle castagne secche, finivano col rasserenarlo e inebriarlo di gioia.
Eppoi il tempo non era così triste e rigido come pretendeva quell’anima chiusa di Pirloccia. Faceva ancora freddo, sì; ma con la sua squisita sensibilità Adone sentiva che l’inverno era già finito. La terra palpitava timidamente, come un fanciullo innamorato, e si copriva di peluria verde: qua e là si sentiva il lieve profumo di qualche violetta, e su gli alberi scoppiavano le gemme verdoline. E il fiume si gonfiava, giallo e azzurro, e qualche molino palpitava di nuovo, a intervalli, come svegliandosi dal lungo sonno invernale.
A scuola Adone faceva progressi: il maestro gli voleva bene e scherzava con lui, e un giorno gli regalò un libriccino illustrato che per qualche tempo formò la sua felicità e il suo spasimo.
Era la storia di Robinson Crusoè! La fantasia di Adone non aveva mai immaginato una storia più bella. Per qualche tempo egli non pensò ad altro; lesse e rilesse il libriccino, lo imparò a memoria, e pur sapendolo parola per parola lo rileggeva ancora. Se cercava di leggerne solo qualche pagina, qua e là, non poteva: aveva bisogno di ricominciare da principio e rileggerne tutte le pagine di seguito, come i bimbi che, pur sapendo a memoria la fiaba prediletta, desiderano sentirla a raccontare di nuovo, dal principio alla fine.
Di notte egli sognava l’isola di Robinson; di giorno, passando sull’argine, ricordava la sera in cui Pigoss l’aveva abbandonato solo nell’isoletta dello stagno.
— Perchè non potrei vivere anch’io come Robinson, in un luogo deserto? — si domandava. Mi farei una capanna: vivrei di pesci e di uccelli. Così starei tranquillo per tutta la vita!
Un giorno egli fu ripreso dalla smania di fuggire. Era d’aprile, dopo Pasqua, una domenica avanti la festa di£S. Marco. Egli stava nel portico, e ascoltava le chiacchiere dello zia Elena e di Carissima quando rientrò il Pirloccia. L’ometto era vestito a nuovo, con un abito di panno durissimo, e aveva un cappellaccio color cenere e una cravatta turchina svolazzante. Doveva aver be-vulo perchè inciampò contro lo scalino della porta e per poco non cadde. Adone ricordò sempre questi particolari.
Appena entrato, il Pirloccia lo guardò e gli fece cenno di alzarsi.
— Su!
— Che volete?
— Su, andiamo! Conduci le vacche a pascolare.
Il ragazzetto palpitò, ma non si mosse.
— Ohe, a chi dico? Al muro? — gridò l’uomo, spalancando gli occhi, minaccioso. — Dico a le, pelandrone! È tempo di finirla: oramai sei alto e grosso e mangi per tre. Alzati.
— Io non vado... io non voglio andare... mormorò Adone. — E poi è anche domenica...
— Sì, andrà domani... comincerà da domani — disse timidamente Tognina.
Ma l’uomo cominciò a saltare di qua e di là, poi si battè i pugni contro i fianchi: pareva l’avesse morsicato una vipera.
— Ah, domani? Ah, domani? Ah, sì, domani? Sentitela, la scema! Lo avvezzi bene, il tuo merlo: lascialo un altro momentino e vedrai come ti caverà gli occhi! Oggi bisogna andare, oggi! Cammina, pelandrone, o ti prendo per le orecchie! Ti dico che è tempo di finirla: ora mi ci voglio mettere sul serio. Su, cammina. Ti manderò anche a fare il boassin1.
Lo prese per il braccio, lo tirò su, lo spinse. Adone guardava disperatamente la zia, ma la zia s’era fatta pallida più del solito e non fiatava più. Anche le altre donne tacevano. Sopratutto l’ultima minaccia del Pirloccia atterriva il ragazzo: era l’estrema degradazione.
A spintoni Pirloccia lo condusse nella stalla, che dava sul cortiletto dietro la casa. Le due grandi vacche giallognole volsero lentamente il capo.
Spinto dall’ometto Adone andò a sbattere contro il fianco d’una vacca. La bestia trasalì: era più alta di lui, era grande, era enorme, calda e ruminante: egli ne ebbe paura, sentì un impeto d’odio contro le due vacche: avrebbe voluto ammazzarle: era deciso a tutto fuorchè a condurle al pascolo. Ma Pirloccia insisteva, minaccioso. Slegò le vacche, mise in mano al ragazzo l’estremità delle cordicelle.
Adone non parlava, non piangeva, ma il suo risetto di solito acceso era diventato verdastro. Egli lasciò cadere le corde: Pirloccia gli diede uno, due, molti ceffoni, urlando. Allora egli vide tutto rosso: una fiamma gli avvolse la testa; e udì un rumore sordo entro le orecchie, e sentì un impulso bestiale di mordere, di spezzare qualche cosa di vivo coi suoi dentini forti. Gli urli di Pirloccia gli arrivavano come di lontano: ed egli ebbe l’impressione di correre, di andare verso questa voce odiosa e di gettarsi contro un muro, graffiando e mordendo le pietre come un gatto arrabbiato. Ma le pietre erano molli: il sangue sprizzò, gli bagnò le labbra, ed egli ne sentì il sapore acidulo. Gli urli dell’ometto raddoppiavano, non sembravano più umani. Adone ritornò alla realtà e si accorse di aver graffiato e morsicalo a sangue il suo persecutore, del quale intravide il viso nerastro che nella sofferenza e nell’ira pareva ridesse di un riso diabolico. Si sentì perduto; e non seppe mai come riuscì a scappare dalla stalla, dal cortiletto, ed a gettarsi disperatamente attraverso i campi. Corse, volò: gli pareva di sentir sempre, alle sue spalle, il grido cattivo del piccolo uomo nero. Probabilmente il Pirloccia lo rincorse davvero: ma fosse stato pure il diavolo in persona non sarebbe mai riuscito a raggiungere il ragazzo, tanto questi volava. Finalmente egli si fermò, ansante, palpitante: si guardò attorno smarrito: si vide in salvo, per il momento, e si gettò a terra piangendo, convulso, con un dolore senza nome. Fu una delle più tristi ore della sua vita. Egli piangeva di rabbia, di dolore fisico, di impotenza: ma sopratutto piangeva perchè sentiva di aver fatto del male.
A poco a poco si calmò, si alzò, girovagò pei campi. Che fare, ora? Se tornava a casa, Pirloccia lo accoppava di cerio: andare dalla sua mamma non voleva. Sentiva di aver torto e non voleva far dispiacere alla sua povera mamma. Girò due o tre volte intorno ai campi della zia, fermandosi e palpitando ogni volta che sentiva qualche rumore di passi. I campi della Tognina erano circondati da fossi larghi e profondi e da cavdagne erbose: egli ne conosceva naturalmente ogni albero, ogni filo d’erba: quello alto e poderoso era il ciliegio le cui foglioline delicate e lucenti riflettevano la rosea luce del sole al tramonto: quell'altro era il susino svelto, che pareva un figliolino del noce gigantesco. In fondo alla cavdagna centrale, che metteva nella strada alberata, due pioppi altissimi vigilavano i campi quel giorno silenziosi.
Il sole tramontava dietro questi pioppi, sul cielo d’un azzurro tenero e vellutato. Adone pensava agli altri ragazzi della sua età, che in quell’ora andavano a spasso o in chiesa ed erano l’orgoglio dei loro genitori. Egli invece era là, solo, desolato, e doveva nascondersi come uno che ha commesso un delitto. E tutto questo perchè era un poveretto.
Egli ricordava benissimo i bei giorni di festa, quando era vivo lo zio Giovanni: egli lo accompagnava in chiesa, e tutti si fermavano a salutarli e guardarli sorridendo. Allora egli era ricco: lo zio Giovanni lo conduceva per mano attraverso i campi e gli diceva:
— Vedi, tutto questo sarà tuo, se sarai buono.
Egli era stato buono sempre... tranne quel giorno! Ma lo zio era morto e non aveva tenuto le sue promesse, e aveva lasciato la sua roba agli altri.
— Zio, zio mio, — gemeva egli stringendosi le mani al petto — perchè hai fatto così? Perchè non mi hai lasciato qualche cosa? Almeno il ciliegio, o il noce, o i pioppi! Non sarei così poveretto, così disgraziato! Perchè tutto a loro, e a me niente?
Gira e rigira egli varcò la strada, saltò il fosso, si trovò in un altro campo, poi in un altro campo ancora, poi nella strada che conduceva alla casa della sua mamma. Qualche cosa di misterioso lo attirava, lo attirava laggiù.
— Ebbene, andrò, ma non le dirò nulla.
Andò: e fu stupito di non vedere la sua manmma scalza seduta sullo scalino della porta. Ottavio, ch’era diventato un trottolino grosso, rosso e sudicio, giocava vicino al pozzo con un usignolino morto, mettendolo su con le aiucce spiegate, e pretendendo di farlo volare.
— Chi te lo lui dato? — gridò Adone, pieno di pietà per l’uccellino morto.
— Trovato, io! — rispose Ottavio — El g’ha la bibì, guarda qui, sotto l’ala. Anche Checco ha la bibì, qui, al collo.
Francesco era il fratello maggiore, il quindicenne muratore di ponti, che aiutava col suo lavoro la povera mamma.
Col cuore pieno di tristezza Adone corse dentro la casetta, sali la piccola scala di legno, vide Francesco steso sul letto, col collo fasciato.
— Ha un ascesso sotto l’orecchio — disse la mamma che era assai impensierita perchè Francesco aveva la febbre e dolore alla testa.
Adone si spaventò. Egli non distingueva ancora le gravi dalle lievi malattie: la morte dello zio gli aveva però lasciato un ricordo funesto, un terrore misterioso dei mali fisici. Sì, sì, poteva morire da un momento all’altro, come era morto lo zio.
Egli stette un momento nella camera, poi tornò giù, sedette sull’orlo del pozzo e ricominciò a piangere. Ottavio credette ch’egli piangesse per l’uccellino morto, lo guardò fisso, e si mise a piangere anche lui.
La mamma scese giù di corsa, e domandò che cosa avevano. E Adone non potè resistere oltre: le si avvinghiò al collo come un bambino e le raccontò piangendo ogni cosa.
Al solito, la mamma gli diede torto; ma gli promise di accompagnarlo a casa e di chiedere perdono per lui. Egli si ribellava: perdono no, perdono no, non doveva nè voleva chiederne: ma la mamma gli disse con voce triste:
— Caro il mio omin, bisogna aver pazienza; si domanda perdono anche quando non c’è peccato: i poveri debbono sempre sottomettersi. Non addolorarmi oltre: vedi come tuo fratello sta male!
E perchè il fratello stava male e la mamma soffriva, egli si piegò: tornò a casa attaccato alle gonnelle di lei, e facendosi scudo di lei per ogni possibile pericolo. Pirloccia non c’era, e Tognina accolse il fanciullo e la donna con la sua solita indifferenza di persona malaticcia che pensa solo ai casi suoi.
La zia Elena invece scuoteva la testa e sporgeva le labbra.
— L’ha fatta troppo grossa — diceva. — Chissà, chissà!
Tognina consigliò Adone di mangiare e andarsene subito a letto: egli obbedì, ma tardò a chiudere gli occhi. Nella sua grande stanzaccia, ove erano stati trasportati molti degli oggetti fuori d’uso che prima ingombravano la camera bassa ora tutta occupata dalle scope del Pirloccia, c’era freddo, e un cattivo odore, e un malinconico chiarore di luna e un rapido rincorrersi di topolini allegri. Adone aveva finito con l’affezionarsi a questi topolini, e spesso desiderava essere uno di loro, o almeno aver la facoltà di diventarlo.
Del resto, desiderava di diventare anche un uccello, una rana, una lucciola. Quella notte però i topolini gli davano fastidio: gli pareva che si rincorressero come Pirloccia aveva rincorso lui per i campi, dopo la scena della stalla. Dio, era possibile? Anche fra le bestie potevano succedere simili cose? No, non era possibile. Le bestie son tutte eguali, beate loro: non vi sono ricchi e poveri, fra le bestie: non è possibile che un topolino orfano venga preso in casa d’una sua zia e poi maltrattato così, come veniva maltrattato lui. Beati loro: ecco, egli non li amava più: li invidiava.
Piano piano si addormentò: e subito sognò un’isola tutta verde, circondata di pioppi: ma era un’isola coltivata: come nei campi della Tognina il frumento verdeggiava qua e là, e un popolo di pianticelle di granone s’affollava intorno ad un ciliegio fiorito. A un tratto Robinson apparve dietro la siepe, vestito di pelli, biondiccio, sorridente: conduceva due vacche al pascolo. Adone si mise a ridere: no, non era Robinson quello, era il maestro! Come era buffo, così, vestito di pelli, con le due vacche che pareva lo spingessero col loro soffio! Ma ecco, tutto ad un tratto, il sogno cambia, diventa orribile, così orribile che non si può raccontare. È sogno, è realtà? Per qualche istante Adone non sa spiegarselo. È proprio vero che Pirloccia lo bastona, sorprendendolo nel sonno?
— Così, vedi, così, vedi! Così non scappi, maledetto! Prendi, ecco, impara! Prendi.
Erano pugni alla testa, schiaffi, ceffoni. Sì, era vero! Il dolore era vero: la voce cattiva del piccolo uomo nero risuonava nel silenzio della stanzaccia illuminata dalla luna. I topolini non si udivano più: anch’essi avevano paura del terribile ometto.
Adone cominciò a gemere, a dibattersi, soffocato da un dolore mostruoso. No, nulla di quanto aveva finora sofferto, nulla poteva paragonarsi al dolore che provava ora. Gli pareva di morire.
Finalmente l’uomo lo lasciò e se ne andò. Per qualche momento ancora Adone si contorse sul lettuccio, con l’impressione che l’ometto continuasse a percuoterlo. Poi s’alzò, nudo sul giaciglio, e cominciò a urlare. La sua voce disperata riempì per qualche momento la desolazione della stanzaccia, sul cui pavimento i vecchi oggetti si delineavano immobili come cose morte. E gli parve che il suo urlo di protesta angosciosa riempisse tutto il mondo: ma nessuno l’udì, nessuno si mosse: il mondo, per lui, era pieno di anime morte, più insensibili dei vecchi oggetti sparsi sul pavimento della stanzaccia. Egli solo udiva il suo grido disperato, la sua accusa contro l’ingiustizia e la prepotenza mostruosa dell’ometto nero che pareva la personificazione di un crudele destino: ed egli solo ebbe pietà di sè stesso. Si ripiegò, si accoccolò sul lettuccio, tacque. E non pianse più, e invece di pensare a sua madre, o a qualunque altra parente ohe avrebbe potuto difenderlo, pensò a Davide.
— Questa volta scappo davvero! — pensò. Vado a Milano, vado da lui. So la strada: è la strada di San Giovanni in Croce, che va dritta a Milano. Vado proprio da lui: Via Santa Radegonda, trentadue... Vado.
Cautamente s’alzò, si vestì, frugò nel cestino in cerca dei suoi tesori. Gli pareva che da Casalino a Milano il viaggio fosse facile come da Casalino a Viadana.
Sì, bisognava andare. In qualche punto del mondo doveva esistere una persona, almeno una, che gli rendesse giustizia.
- ↑ Raccoglitore di concime.