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L'ombra del passato/Parte I/Capitolo VIII

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Capitolo VIII

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Parte I - Capitolo VII Parte I - Capitolo IX

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VIII.

Albeggiava appena quando egli attraversò Casalmaggiore. Il chiarore della luna al tramonto si fondeva con la luce azzurrognola dell’alba, e un velo leggerissimo di nebbia fluttuava sulla città addormentata. Adone credeva di aver già fatto un buon tratto di strada verso Milano, e nonostante il dolore d’aver abbandonato il paese natìo senza neppure salutare la mamma e il fratello malato, si sentiva vispo come un uccello.

Non aveva fretta: era certo che Pirloccia e la zia non avrebbero mandato a cercarlo.

Egli mi ha detto fin da ieri di andarmene via: sì, me ne vado. Appena arriverò scriverò una lettera alla mia mamma.

Egli s’inteneriva pensando a questa lettera. Povera mamma! Ella piangerà, ora, ma più tardi darà ragione al suo disgraziato figliuolino, quando egli, diventato grande e forte, ritornerà in paese e farà il maestro di scuola e guadagnerà molti denari.

Cammina, cammina: nella strada che conduce a San Giovanni in Croce, egli vide avanzarsi [p. 130 modifica]rapidamente un calessino guidato da un negoziante di grano, molto amico del Pirloccia: e avrebbe voluto nascondersi, ma non era più in tempo. L’uomo l’aveva già veduto, e senza fermare il calesse gridò:

— Dove vai? — ma tirò dritto senza aspettar la risposta che Adone non pensava a dargli.

Il fuggitivo proseguì la sua strada. Nonostante le sue preoccupazioni e la stanchezza che dopo la notte insonne e i pugni ricevuti cominciava a sentire, egli aveva fame.

Ma questa volta egli aveva provveduto: nel suo fagottino, oltre i soldi, c’era qualche fetta di polenta, burro, formaggio, uova. Sedette su un mucchio di ghiaja umida, e svolse il fagottino. Il sole spuntava in fondo alla lunga e dritta strada, allora tutta fiancheggiata d’alberi d’alto fusto. Le foglie giovani, l’erba tenera, sparse di rugiada, scintillavano come foglie e steli di cristallo: gli uccelli cantavano, ancora un po’ freddolosi e timidi.

Adone pensava sempre a Robinson, e mangiando la sua polenta fredda trovava qualche rassomiglianza fra lui e il prediletto eroe. Ma una bicicletta passò, scintillando, volando; poi passò un carrettino, entro il quale, mi una sedia, stava seduta una signorina in capello: egli capì che il suo paragone era assurdo. Ma egli aveva bisogno di pensare a Robinson per pensare a qualche cosa di bello, di fantastico, che lo distraesse dai suoi tristi pensieri. Il ricordo dell’orribile scena della notte lo colmava di terrore. [p. 131 modifica]

Rimettendosi in cammino pensò:

— Stanotte voglio dormire all’aperto e accendere il fuoco in qualche cantuccio, sotto un albero. I fiammiferi li ho. Allora, sì, mi parrà di essere lui.

Cammina, cammina. La bellissima strada si slanciava attraverso i campi dal verde tenero e variato, verso una lontananza infinita... Il cielo, là davanti, nello sfondo lontano, era d’un azzurro denso e luminoso: laggiù, laggiù, era il mistero del mondo.

Ma prima di arrivare a San Giovanni, Adone sentì il bisogno di riposarsi ancora: aveva sonno, le idee gli si confondevano nella mente.

Aprile, dolce dormire...

Doveva essere mezzogiorno circa. A quell’ora egli pensava sempre con nostalgia a una tavola apparecchiata, a un bel piatto di tagliatelle fumanti... Non tutti i giorni egli, dopo che frequentava la scuola, si trovava a casa a mezzogiorno; ma ricordava sempre i bei tempi quando era vivo lo zio: e spesso sognava che potessero tornare.

Si sdrajò all’ombra della siepe, sull’orlo della strada, e cominciò a sonnecchiare e sognare. Sì, l’illusione tornava: invece che sul confine d’un prato sconosciuto egli si trovava sul confine del prato dello zio, sull’orlo della strada di Casalino... [p. 132 modifica]

Ecco, nel un tratto, un’ombra s’allungava sull’erta, un uomo veniva. Era lo zio. «Su, sgambirlotto, andiamo a mangiare: la zia aspetta». E lo toccava lievemente col suo bastone. Egli balzava su in piedi, spaventato e felice. Come, lo zio non era morto? «Ma no, sciocchino, fingevo! Ho fatto un viaggio nell'altro mondo. Si può farlo benissimo, lo sai. Non ricordi ciò che il maestro dice, di un poeta che si chiamava Dante Alighieri? Su, su, andom!» Ma mentre sognava così, con gli occhi socchiusi, Adone sentiva che il suo sogno era assurdo. I morti non ritornano, egli lo sapeva bene. No, egli non aveva più zio, non aveva più casa; la sua casa era il mondo. Meglio pensare a Robinson; oppure figurarsi d'incontrare una vecchierella curva su due bastoni. La vecchierella s’avanza, guardando per terra, e par che cerchi un oggetto smarrito. «Che cercate, vecchia?» Ella non può sollevare il capo, ma solleva gli occhi azzurri infantili. «Niente, niente, puttino. Ma ho fame». Ecco, egli le porge il suo involtino: e allora la vecchietta ride, si raddrizza, diventa una bella donna che possiede una villa là dietro quegli alberi. «Andiamo, puttino; tu sei buono ed io li terrò sempre con me! Andavo giusto in cerca di un ragazzo buono!»

Nel silenzio intenso dei campi e della strada tutta gialla e nera di sole e d’ombra, risuonò un grido sottile. Adone spalancò gli occhi, e invece della vecchietta di cui sognava, vide una bambina di circa dieci anni, scalza, dai grossi piedi e le [p. 133 modifica]gambe nerastre mal coperte dagli orli lacerati d’un vestitino rosso a piselli neri.

— Ci fermiamo qui? — gridò la bambina.

— Più in là, più in là, — rispose una voce di donna, stanca e ansante.

— No, qui, mamma! C’è l’ombra! Ho caldo! Ho fame! Voglio da mangiare! Dammi da bere.

— Ti darò delle sculacciate, anche!

Adone scoppiò a ridere. La ragazzotta si volse, lo fissò con due piccoli occhi neri corruscanti, cattivi. Allora egli si accorse che ella rassomigliava stranamente alla sua sorellina Eva, con lo stesso visetto rotondo e roseo come una mela, circondato da una vera nuvoletta di capelli color d’oro. E diventò serio. La sconosciuta gli volse le spalle: una donna magrissima, vestita di nero e con un fazzoletto giallo in testa, s’avanzava spingendo un carrettino a mano coperto da una specie di mantice di tela cruda, intorno al quale penzolava una ghirlanda di piccoli cestini di vimini. Entro il carrettino c’erano due grossi fagotti e vari oggetti di cucina usati e sudici: fra le ruote stava attaccata una cesta che rasentava il suolo. Pareva impossibile che una donna così magra e pallida potesse spingere un tal carico: ella sembrava malata, e quando fermò il carrettino, spingendolo verso la siepe, sospirò forte, ansando, come uno il cui sospiro è rimasto lungo tempo sospeso.

— Ho fame, ho sete, — ripeteva la bambina, mettendosi a frugare nel carrettino.

La donna le diede uno spintone. [p. 134 modifica]

— Pazienza, Santo Dio! Lasciami respirare.

Si curvò, guardò nella cesta che ora sfiorava davvero il suolo, vi introdusse una mano: poi prese un fagottino dal carretto e s’avvicinò alla siepe. Vide Adone e subito gli domandò:

— Ci vuol molto per arrivare a Casale?

— Eh!... — egli rispose stendendo il braccio, come per dire: ce ne vuole, ancora!

— Santo Dio, Santo Dio! — sospirò la donna, sedendosi accanto al fanciullo. La bambina le si gettò addosso, inginocchiandosi sull’orlo delle vesti di lei, e stese le mani al fagottino.

Era affamata, si vedeva: per alcuni istanti non badò ad altro che al pezzo di pane che sua madre le diede: potevano offrirle un regno, non se ne sarebbe curata. Anche la donna cominciò a mangiare; prese il fagottino su una mano e lo porse al fanciullo:

— Vuoi partecipare?

Egli arrossì fino alle lagrime, intenerito per quest’attenzione. Dio! Come era affamata anche la donna: eppure come sembrava buona!

Egli si mise a sedere e disse, toccando il suo fagottino:

— Ho anch’io da mangiare, ecco. Ho già mangiato.

La bambina parve svegliarsi da un sogno.

— Che ci hai, lì? — domandò additando il fagottino.

Veramente a lui non piacque molto questa sfacciataggine: tuttavia slegò il fagottino e senza parlare fece vedere le sue provviste. La ragazzetta [p. 135 modifica]guardò avidamente, coi suoi occhietti neri brillanti, e senza smettere di mordere il suo pane cominciò ad esclamare:

— Ah, uova? Ah, formaggio? Ah, burro? Me ne dai?

— Ti dò un ceffone, sfacciata, — gridò la donna, respingendola.

Adone rise ancora: anche la bimba rideva, avvoltolandosi sull’erba.

La cestaja si mise a discorrere con Adone come con un grande.

— Sì, — diceva legando il suo fagotto, — io sono della provincia di Cremona; mio marito era di Casale, era scalpellino ed è morto in Prussia, quest’inverno. Questa puttina era figlia sua e di un’altra donna. Ecco l’eredità ch’egli m’ha lasciato. Fosse almeno buona, questa puttina: ma no, è cattiva come un diavoletto...

— Ah, no! Ah, no! Non lo farò più, mamma! — gridò appassionatamente la bambina, strofinandosi addosso alla donna e baciandola forte. Era così bellina, così carezzevole, che la vedova la guardò sorridendo con adorazione.

— Va là, sta quieta, Caterina! Su, lasciami.

E continuò a raccontare la sua storia dolorosa. Ella intesseva cestini durante l’inverno e andava a venderli nella bella stagione: qualche volta anche durante la cattiva. Aveva seguito il marito fino in Prussia e nell’Ungheria. Lì, sì, fa freddo, cari i miei puttini! Vien voglia di attaccare fuoco al proprio carrettino. [p. 136 modifica]

Ma dopo la morte del marito anche lei s’era ammalata; non poteva più mandare avanti il suo carretto.

A Casale vivevano ancora i parenti del marito, fra gli altri un tintore molto ricco, e una vecchia, Barberina Bignami detta la Suppèi, che aveva un figlio in America.

— Li conosco, io! — esclamò Adone. — Eh, sono miei amici! Marco Bignami viene a scuola con me: ha sempre le calze nuove.

Questo particolare interessante colpì la vedova.

— Son ricchi davvero?

— Altro che son ricchi, — disse Adone, soffiando. — Hanno una stanza tutta piena di tele dipinte. Le inventa lui, il tintore: ne ho veduta una, bella, verde, con tanti pisellini come questi.

Egli indicò la veste di Caterina, la bimba, inginocchiata sull’erba, ascoltava a bocca aperta: nel sentire che il parente tintore aveva una tela verde a pisellini neri, provò tale gioia che balzò in piedi e fece un molinello. Forse sperava che il tintore le regalasse un vestitino: quello che aveva, intanto, si aprì di qua e di là, mentre ella saltava, e lasciò vedere due ginocchia così magre e sporche che parevano di legno. Adone le vide e arrossì. Non sapeva perchè, quella ragazzetta gli piaceva e lo disgustava. Era diversa dalle altre bimbe che egli conosceva. Per oltre un’ora egli, la vedova e la bimba rimasero assieme sull’orlo della strada, all’ombra della siepe. Egli accennò ai casi suoi, ma non disse che era scappato da casa sua. La donna [p. 137 modifica]non lo interrogò: era sofferente; sbadigliava e tossiva, e pareva non avesse più forza di muoversi. Caterina invece rideva e gridava, perfettamente inconscia del passato, ignara dell’avvenire. Era tanto allegra! E Adone si lasciava suggestionare da questa gioia spensierata di uccellino sazio, e diventava anch’egli spensierato come nei suoi giorni più felici. Ah! che volete? La sua coscienza, appena svegliatasi e ancora informe e direi quasi embrionale come il feto nell’alvo materno, era così piccola, così debole ancora! Bastava un niente per riaddormentarla e respingerla ancora nel suo nido oscuro. Egli si alzò e si mise a giuocare con Caterina. E finchè la cestaja e la bimba rimasero lì, egli non pensò a riprendere il suo cammino.

S’avvicinò al carretto e toccò tutti i cestini, domandandone il prezzo. Due lire il più grande; due soldi il più piccolino, un grazioso cestinetto giallo, rosso e verde, che egli staccò e guardò a lungo con piacere. Fu tentato di comprarlo. Di che non era tentato lui! Ma due soldi son due soldi: passato il tempo in cui egli non conosceva il valore del denaro! Riattaccò il cestino e si curvò a guardare nella cesta, sotto il carretto. E vide che dentro, su uno strato d’erba, c’erano due vilissimi pulcini, di pochi giorni, due battutoli di seta, uno tutto giallo, con gli occhietti neri neri, e l’altro tutto nero col solo becco giallognolo.

Dio, Dio, come son belli! — disse con tenerezza. E si mise a sorridere ai pulcini, stendendo la mano per toccarli. [p. 138 modifica]

Caterina, improvvisamente diventata selvaggia, lo spinse in là.

— Nch, son miei! — gridò, minacciosa. — Non toccarli!

— Chi te li tocca?

— Sì, son miei! Li ho rubati io!

— Brava, allora! — gridò Adone.

— Bè, non toccarli: lasciali stare! Son miei!

La vedova si alzò e disse:

— Caterina, andiamo.

Adone le diede altre indicazioni sulla strada da percorrere per arrivare a Casale. E mentre la vedova si disponeva a partire, le disse, dopo una lunga esitazione:

— A Marco dite che io vado da Davide Del Nin, via Santa Radegonda trentadue, Milano. Se mi scrive, sarò là.

La vedova non indagò oltre. Sollevò le stanghe del carrettino con quelle sue grosse mani, ove pareva si fosse accumulata tutta la forza del suo corpo meschino, e partì.

Anche Adone riprese la sua via.

Già egli vedeva in lontananza le case di San Giovanni, quando alle sue spalle udì il roteare d’un carrozzino.

Si volse e nel carrozzino vide il Pirloccia. [p. 139 modifica]

L’apparizione del diavolo non l’avrebbe atterrito di più: d’un salto lasciò la strada e si mise a correre attraverso i campi.

Ma l’uomo gridava:

— Fermati, Adone. Ascoltami. Tuo fratello muore; è la tua mamma che mi manda e li prega di ritornare.

Adone si fermò di botto, colpito dalle parole e sopratutto dall’accento supplichevole del Pirloccia. Questi sembrava un altro: Adone tremava di paura, ma in fondo si sentiva lusingato per l’importanza che l’ometto, inseguendolo, gli dava: e col suo istinto finissimo sentiva che il suo carnefice aveva qualche forte ragione per non lasciarlo fuggire. D’altronde egli pensava alla sua povera mamma disperata. Sì, egli aveva fatto male ad andarsene così, senza dirle addio: bisognava ritornare da lei, confortarla, rimettere ad un altro giorno la partenza.

Piano piano, diffidente e indeciso, si riavvicinò alla strada; Pirloccia aveva fermato il carrozzino, e senza smontare continuava a supplicare Adone di «esser buono».

— Vieni dunque, non ti mangio! — gridava, agitando le mani. — Ti giuro che non ti tocco. Va mo là, spicciati, buono, là!

Adone s’avvicinò, si fermò sull’orlo della strada. Mille parole gli salivano alle labbra; ma non osava, non voleva pronunziarne una sola.

Ad un tratto spiccò un salto e montò sul carrozzino. Quest’atto di fiducia parve intenerire [p. 140 modifica]maggiormente l’ometto. Egli cominciò a chiacchierare, frustando il cavallino che proseguì alla volta di San Giovanni.

— Ora andiamo un momento a San Giovanni, poichè siamo qui: ho da sbrigare un piccolo affare. Tu baderai al cavallo. La tua mamma è disperata: Francesco ha un foruncolo maligno: essa è venuta da me, poichè Scipione le ha detto che ti avevano veduto in questa strada... A che ora l’hai veduto?

Non gli domandò altro, non lo sgridò: pareva avesse dimenticato le scene orribili avvenute tra loro due. E Adone ascoltava, palpitante e diffidente.

Intanto il carrozzino procedeva. Come ci si stava bene, in due! Dopo tanto camminare a piedi era un vero piacere farsi trascinare dal cavallino vigoroso: i campi veduti dall’alto sembravano più belli, luminosi di sole, e l’orizzonte appariva più vasto. Si vedevano le allegre casette di San Giovanni, e gli alberi del parco Vidoni, del quale Adone aveva sentito parlare e che molti paragonavano al parco Dargenti. Per tutte queste cose egli si sentiva più calmo, sebbene pensasse con tristezza al fratello malato e alla povera mamma afflitta. Avrebbe voluto parlare, dire dell’incontro con la cestaja, domandare al Pirloccia se avesse incontrato la donna e la bambina: ma gli ripugnava quasi rivolgere la parola e lo sguardo al terribile ometto che per lui, oramai, rappresentava il tradimento e la menzogna. [p. 141 modifica]

A San Giovanni si trattennero fin verso il tramonto. Egli rimase sempre sul carrozzino: d’altronde non gli sarebbe piaciuto scendere, e seguire il Pirloccia entro qualche casa. Idee mostruose gli attraversavano la mente: aveva paura che l’uomo lo conducesse in qualche luogo per bastonarlo, o magari imprigionarlo.

E a momenti era tentato di frustare la bestia e partire solo! Che gusto ci avrebbe provato! Ma poi rifletteva: pensava che il Pirloccia, dopo tutto, gli aveva dimostrato fiducia, affidandogli il carrozzino; e diceva a sè stesso, con orgoglio:

— Se è cattivo lui non devo esser cattivo io!

Al ritorno, poichè Adone sospirava ed era diventato pallidino, con gli occhi cerchiati, il Pirloccia gli disse, con insolita dolcezza:

Va mò là, la tua mamma dice che il Cischin sta molto male, ma è mica vero: ha un foruncolo: e d’un foruncolo non si muore! Ohp! Ohp! Rondinello, cammina, si fa tardi!

Rondinello, il cavallino, trottava: il sole era tramontato, il cielo diventava rosso all’occidente e viola chiaro in fondo alla strada diritta che pareva confinasse con l’orizzonte. Gli alberi, i campi, l’acqua dei fossi, tutto il paesaggio [p. 142 modifica]tingevasi di rosa: e saliva sempre più acuto l’odore dell’erba fresca. Adone pensava che Pirloccia l’aveva ingannato ancora, facendogli credere che Francesco moriva: quell’ometto era nato per mentire. Ma egli non si pentiva di tornare indietro: era tanto stanco, gli pareva che anni ed anni fossero passati dopo la scena della notte scorsa. E sbadigliava, di fame, di tristezza, di stanchezza, sempre più pallido in viso, con gli occhi tristi come gli occhi di un uomo infelice. L’unica impressione lieta che ormai provava era la speranza di raggiungere la cestaja e l’abitino rosso a piselli neri. Non sapeva e non cercava certo di spiegarsene il perchè: ma l’immagine della ragazzetta gli era rimasta impressa nella niente, e ripensando a lei si sentiva allegro, come riflettendo la gioia spensierata di lei.

Ma per quanto Pirloccia frustasse Rondinolo, la figura melanconica della cestaja e l’abitino rosso non apparivano mai in fondo alla strada: pareva che avessero già varcato l’orizzonte, e che non si potessero raggiungere mai più in tutta la vita! Addio, addio: mai più! E la grande luna d'oro saliva su quell’orizzonte color lilla, in fondo alla strada: saliva, saliva, varcava la linea degli alberi immobili, saliva sulle vie tranquille del cielo infinito! Aveva essa veduto la donna e la bambina? Chissà, forse. Pareva che anch’essa fuggisse, diretta verso un luogo misterioso. E nessuno poteva inseguirla, nessuno poteva raggiungerla! Ma anche lui. Adone, un giorno, o una sera, sarebbe fuggito così: e non sarebbe più tornato indietro. [p. 143 modifica]Quando? Come? Non sapeva... non sapeva... ma era certo che un giorno, o una sera, sarebbe fuggito come fuggiva la luna per le vie del cielo. Le sue idee si confondevano: egli sbadigliava, chiudeva gli occhi e teneva stretto stretto sotto il braccio il suo fagottino, entro il quale un uovo s’era bell’e rotto e aveva macchiato di giallo il tovagliuolino.

Il sonno lo vinceva: ma egli aveva paura di addormentarsi, così vicino al Pirloccia. Oh, no! oh, no! E riapriva gli occhi, e vedeva la luna sempre più pallida e piccola, che saliva, saliva: poi vide anche la stella della sera, grande e luminosa, che tramontava dietro i pioppi della strada. Anche la stella fuggiva, andava verso un luogo ignoto.

A un tratto, dopo aver attraversato Casalmaggiore, Pirloccia disse come fra sè:

— Han fatto presto, quelle due rane!

Adone aprì finalmente la bocca, scuotendosi dalla sonnolenza che lo vinceva!

— Chi? Le cestaje?

L’ometto sferzò il cavallo e non rispose. Ma Adone pensò che il Pirloccia doveva aver incontrato la vedova e la bambina, e doveva aver saputo da loro che un ragazzetto con un fagottino si dirigeva verso Milano, verso la casa di Davide Del Nin, via Santa Radegonda, ecc.

— Ecco, sì: egli ha paura che io vada da Davide! — egli concluse, con la sua meravigliosa astuzia. [p. 144 modifica]

Ma nonostante la sua meravigliosa astuzia egli fu ricondotto in casa della zia, e cadde nuovamente in dominio del «maledetto carnefice», e dei suoi più maledetti figliuoli.

La sua povera mamma pianse e lo supplicò di non far più il cattivo, di non far più sciocchezze, di non affliggerla oltre.

— Oramai sei grande; non sei più un bambino, caro il mio omin! Dovresti vergognarti, di certe sciocchezze! Fuggire, si fa presto a dirlo; ma dove si va, poi? Da Davide? Povero il mio omin, ma non sili che Davide è poveretto anche lui, come noi? Dio sa che disturbi gli avresti dato! Via, non pensiamoci più: son cose da bimbi di cinque anni.

Adone scuoteva la testina: no, no, non erun cose da bambini; tuttavia pensava che forse in fondo in fondo la mamma aveva ragione, a proposito di Davide. E piegò la testa; e si rassegnò ancora una volta.

La mamma, inoltre, cercò di convincerlo che bisognava rendersi utile, quando si vive alle spalle altrui. Che male c’era, per esempio, se egli andava a pascolare le vacche?

— Mentre; pascolano, tu puoi studiare la lezione. Che male c’è?

Ed egli andò a pascolare le vacche. Quando tornava dalla scuola, invece di recarsi dal [p. 145 modifica]zolfanellajo o da Sison, o a girovagare per i campi e pei viottoli, gli toccava di portare sull’argine o lungo le cavdagne le due grosse bestie che gl’incutevano paura. Se qualcuno di sua conoscenza lo vedeva, egli arrossiva, perchè si credeva già uno studente, avviato a diventar maestro, e aveva paura che un giorno i suoi scolari gli rinfacciassero di esser andato a pascolar le vacche! Aveva poca fiducia nei suoi futuri scolari!

Sopratutto la domenica gli riusciva penoso il suo nuovo incarico. Egli pensava sempre ai ragazzetti più fortunati di lui, che la domenica almeno se la godevano, e li invidiava cordialmente.

Le due grosse vacche non lo amavano affatto: pareva sentissero la sua antipatia e gliela ricambiassero. Appena lo vedevano sbuffavano, e sparavano calci: un giorno poi una di esse gli mangiò un libro che egli aveva lasciato un momento fra l’erba! Sì, pareva che anch’esse s’accorgessero che egli non apparteneva alla razza dei loro amici, dei contadini, cioè, o dei guardiani di vacche.

Al ritorno dal pascolo, verso il tramonto, Pirloccia mungeva le vacche e costringeva Adone a portare il latte dal casèr1. Il caseificio era all’altra estremità di Casalino, verso Casale. Adone doveva attraversare tutto il paese col secchio del latte in mano, e più che fatica sentiva vergogna.

Forse temeva che i suoi futuri scolari gli rinfacciassero anche questo! Eppure moltissimi altri [p. 146 modifica]ragazzetti convenivano al caseificio, portando il latte delle loro vacche: alcuni spingevano la secchia su una piccola carriuola, destando l’invidia dei compagni e specialmente di Adone, il cui sogno era di avere almeno una di queste carriuole: ma no, neppure questo conforto poteva avere!

Con l’andar del tempo, egli strinse amicizia coi casari e specialmente con Pino, il figlio maggiore del casèr, e prese gusto ad assistere alla confezione del bel parmigiano dorato.

Il casèr, grande e biondastro, con un bel viso grassotto e un pizzo grigio e giallognolo sul mento rotondo, agitava lentamente il latte dondolando l’enorme caldaia a forma d’imbuto, sospesa sul forno scavato nel pavimento. Pino, il bel giovinotto roseo dai denti bianchi, con una semplice maglia nera che delineava le ondulazioni del petto e il solco del dorso, stringeva nelle forme di legno il cacio giallognolo, o sbatteva il burro o gettava fascine sul fuoco. Egli cantava sempre: sapeva persino delle canzoni francesi, una delle quali egli la cantava così:

     Allons, allons, enfanti de la patrì;
     Il giorno de la glori è arrivè.

Teneva quasi sempre un gran cappellaccio a sgembo sui capelli ricciuti: era allegro e sereno come un giovine iddio, e Adone sentiva per lui un’ammirazione profonda.

Il locale ove si confezionava il formaggio era vasto, affumicato, rischiarato, verso sera, dal [p. 147 modifica]chiarore del fuoco: attraverso un uscio socchiuso si scorgeva una stanza che pareva una biblioteca; ma su scaffali di legno giallo invece di libri si vedevano grandi forme dorate di formaggio parmigiano. Qua e là diverse trappole di legno e di fili di ferro aprivano le loro bocche lusingherei segno che i topi frequentavano con passione questa singolare biblioteca.

Qualche volta Pino pregava Adone di portare i saluti ad Andromaca: oltre i saluti lo incaricava di portarle dei bizzarri messaggi.

— Le dirai così: alle otto precise la luna spunterà sopra il cancello Dargenti.

Oppure:

— La bella francese alle otto precise starà a passeggiare lungo il fosso.

Adone capiva a meraviglia questo linguaggio, e invece della bella francese, una sera egli vide Pino e Andromaca passeggiare abbracciati lungo il fosso: egli sentiva per la ragazza una specie di amore, una vera simpatia fisica, tuttavia s’incaricava dei messaggi di Pino con piacere, curiosità e gelosia. Egli era già malizioso, e i compagni di scuola s’incaricavano di insegnargli, giorno per giorno, quello che ancora ignorava. Riguardo a questo erano tutti abbastanza istruiti: eppure, in altre materie, restavano indietro d’un secolo. Ce n’erano alcuni così ridicoli, così ridicoli che parevano scolaretti di prima classe. Una volta venne un vecchio ispettore che non riusciva a pronunziare certe doppie, e domandò ad uno scolaretto: [p. 148 modifica]

— Chi era Attila?

Lo scolaretto non ricordava. Aveva da pensare ad altre cose, lui!

— Attila era... era... re... degli Uni... e... — aiutò l’ispettore.

E subito lo scolaretto aggiunse:

— ...e degli Altri!

— Che roba, Dio mio! Che roba! — diceva Adone, raccontando il fatto al zolfanellajo. E rideva forzatamente, con la testina gettata all’indietro e le manine giunte.

Pochi giorni dopo il suo ultimo tentativo di fuga, egli rivide Caterina.

Era il giorno di San Marco. Adone andò a trovare il suo amico, che festeggiava il suo onomastico, e si trattenne tutto il pomeriggio a Casale.

Era agli ultimi di aprile: anche i gelsi avevano messo le foglie, e la madre di Marco aveva già fatto nascere i bachi. I due amici, dopo aver fatto una bella merenda di pane e salame, e dopo aver visitato il piccolo laboratorio dove il tintore conservava le tele dipinte che destavano l’ammirazione di Adone, uscirono per andare nei campi.

Davanti alla casa del tintore c’era un viottolo umido e solitario, in fondo al quale sorgeva una melanconica casetta di mattoni rossi, a un sol [p. 149 modifica]piano, oltre il terreno, con quattro finestruole di legno sbiadito dalla pioggia. La porta s’apriva dalla parte opposta al viottolo. In faccia alla casetta sorgeva una Maestà, cioè una piccola cappella chiusa da un cancelletto di ferro, dentro la quale, su un altarino fiorito, un San Michele dal viso terribile calpestava un biscione verdastro. Seduta su un vecchio tronco abbandonato, davanti alla Maestà, stava la ragazzetta dall’abitino rosso a piselli neri; senonchè l’abitino era stato lavato e orlato di nero: anche i capelli d’oro, raccolti in due treccioline strette strette, una sulla sommità «lei capo, l’altra sulla nuca, parevano lavati. I grossi piedi della bimba sparivano a metà entro due vecchie pianelle dalla suola di legno. A momenti Adone non la riconosceva, tanto ella era mutata: ella però lo riconobbe subito e gli sorrise.

Egli arrossì, per il piacere di rivederla e per il timore che Marco sapesse qualche cosa della sua avventura.

Ma il compagno passava dritto, senza badare a Caterina.

— È tua parente, quella? — domandò Adone.

— Macchè, — disse l’altro, con disprezzo. — È una stracciona: una zingara.

— Una zingara?.. Sei matto?

— Sì, una zingara! Sì! Sì, ti dico di sì! — proseguì l’altro con dispetto. — È arrivata l’altro giorno, con una donna, una donna malata, una cestaja. Sono venute da noi: poi sono andate dalla zia Barberina, che sta lì, in quella casetta rossa. [p. 150 modifica]E lei se le ha prese in casa. La zia Barberina è una matta, tu lo sai.

— Una matta?... Davvero?

— Sembra un uomo: ha il cappello, il bastone, la pipa: e una voce terribile. Ma sa tante storie bellissime: quella del Caval Rundello è tanto lunga che ci vogliono tre notti per contarla.

— Ah! — disse Adone pensieroso. — È quella donna col bastone? Sì, la conosco. Senti, è ricca?

— Pufff!.. — soffiò Marco. — Chi, ricca la zia Suppèi? Ha un corno. Vendeva zoccoli, quando era giovane. Ma ha un figlio in America, sì, Giorgio, che le manda sempre denari.

E il ragazzetto si mise a gridare, imitando la voce della vecchia:

Suppèi! Suppèi2 belli e forti! — Poi aggiunse: — Sì, quando sarò grande anch’io andrò in America. Così vedrò il mare. Sai com’è il mare?

— Il mare? Altro! — disse Adone.

— No, vedi, tu non lo sai. Tu una volta hai detto che il mare è come il Po. Invece no, non è così.

Presero a discutere, come al solito. Ma Adone pensava alle donne che abitavano nella casetta rossa, e benchè fosse tardi volle riaccompagnare Marco fino al viottolo.

Caterina non c’era più. Egli guardò curiosamente per una finestruola socchiusa, e vide una stanzetta melanconica, con un tavolo di noce in [p. 151 modifica]mezzo, e sul tavolo un lume a petrolio, e alcuni oggettini di vetro e di marmo. Sulla parete, sopra il camino, stava il ritratto di Mazzini, circondato da una ghirlanda di fotografie sbiadite: nella luce verdastra della stanzetta umida, quella figura d’uomo magro e tetro, e le immagini che lo circondavano, pallide, cadaveriche, davano l’idea di una compagnia di morti.

Da un uscio socchiuso veniva una cantilena religiosa, d’una tristezza profonda, cantata da duo voci, una grossa, maschile, l’altra stanca e velata. Dovevano essere le voci della cestaja e della vecchia Suppèi.

— Andiamo, — gridò Marco, tirando Adone per la giacca.

— Andiamo dentro, — propose Adone. — Si passa dall’altra parte?

— Io non vengo, — disse Marco allora, abbassando la voce. — La mamma mi ha proibito d’andarci, perchè quella donna, quella cestaja, ha un male che attacca.

Adone allora non insistè. Soltanto pensò che era stato più d’un’ora in compagnia della cestaja e questa non le aveva attaccato il suo male.

Un altro giorno egli ritornò a Casale, e in casa di Marco trovò la famosa zia Barberina, alla quale pensava spesso. Ella aveva davvero un viso da uomo, con un gran naso rosso e due occhietti turchini vivacissimi: in testa aveva un cappello di feltro grigiastro, e in mano un bastone, attaccato al polso con una correggia. Era molto arrabbiata: [p. 152 modifica]con voce grossa e rauca, che a volte però diventava sottile e quasi dolce, e battendo forte il bastone sullo scalino della porta, ella sbraitava contro i parenti che non volevano aiutare la cestaja.

Solo i povrett, sì, solo i poveretti possono capire la miseria e i malanni altrui — diceva. Gli altri, quelli che hanno la roba, pensano solo a loro, viscere care!

Adone fu colpito da queste parole: pensò alla Tognina e alle sue sedie. Tuttavia, siccome Marco rideva, perchè la zia Barberina era molto ridicola quando s’arrabbiava, anche lui si mise a ridere. La vecchia li minacciò col bastone. La mamma di Marco, che era una bella donna, rossa, grassa e calma, osservò che la cestaja poteva proseguire benissimo il suo mestiere. Caterina, poi, era così maleducata: un vero folletto. E anche ladruncola. Una zingara, anzi, non un folletto.

— Ma io la manderò a scuola! Ci ha del talento, quella lì, qui — gridò la vecchia, battendosi lievemente la fronte col pomo del bastone. — Impara a meraviglia tutto, in un attimo. È più brava di molti ragazzetti che sembrano beneducati.

— Va bene, — disse la rossa, piccata perchè l’accenno era per Marco. — E voi mandatela a scuola. Ma se tocca ancora le mie uova le darò io il talento e la memoria: gliele insegnerò a sculacciate.

Marco e Adone ricominciarono a ridere: intanto Caterina s’era avvicinata pian piano, e spiava dietro la siepe. [p. 153 modifica]

— Viscere, vieni! — gridò la vecchia, scorgendola.

La ragazzetta corse a lei, e parve mettersi sotto la sua protezione.

— È vero che rubi le uova, qui?

Sulle prime Caterina negò: ma, messa poi alle strette, confessò d’aver preso un uovo.

— Uno solo? possibile?

— Per uno io non mi sarei scomodato! — gridò Marco, beffardo.

Allora Caterina, spavalda, si vantò d’averne preso tanti.

— Ma perchè, figlia di Dio, perchè? — domandò la vecchia, curvandosi desolata sulla sua protetta. — Perchè, viscere?

— Eh! — Noi ne avevamo così pochi! Due appena — disse Caterina semplicemente, sollevando due dita. — Due soli! Due!

— Ed io ti dò due bastonate! — gridò la vecchia, terribile, agitando il bastone.

Ma Caterina scappò: e i due amici ricominciarono a ridere pazzamente.

  1. Casàro.
  2. Zoccoli.