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La Marfisa bizzarra/Canto IX

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Canto IX

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Canto VIII Canto X
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CANTO NONO.


ARGOMENTO.


     Di prete Guottibuossi un stratagema
caccia Marfisa in monastero; e in questo
tra le monache e quella, che non trema,
nasce un combattimento poco onesto.
A Terigi il decoro e l’util scema;
gli vien promosso un piato assai molesto.
Diconsi alcune cose de’ scrittori,
poi del guascon ch’è di Parigi fuori.


1
     Io non saprei ben dir da che nascesse
la ragion de’ rimproveri in que’ tempi,
e perché l’ecclesiastico dicesse
con fondamento a que’ del secol «empi»,
e perché il secolare anch’egli avesse
ragion di taccia a’ direttor de* tempi.
Non avea torto il vescovo Turpino,
e non l’aveva Rugger paladino.
2
     Mancava la pietá ne’ secolari,
in conseguenza l’util della Chiesa.
I preti, bisognosi di danari,
si davano alle truffe alla distesa
e a mille azioni indegne de’ collari,
perch’ogni di necessaria è la spesa.
Ne* secolar lo scandol s’aumentava,
e il pio tributo ognor si scarseggiava.

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3
     Donde cresceva sempre maggiormente
ne’ religiosi l’arte e la magagna.
Il secol diveniva miscredente,
e sempre piú volgeva le calcagna.
Cosi il disordin reciprocamente
era omai divenuto una montagna.
Avea ragion Turpino alla questione,
e Rugger paladino avea ragione.
4
     Mi converria saper fino ab initio
chi fosse primo, il secolare o il prete,
a dar cagione al mal, cadendo in vizio,
per dar sentenza; e so che m’intendete.
Ma io non voglio far cotesto uffizio
di veder chi fu il primo nella rete,
perocch’ella saria parte odiosa.
Orsú, non farò mai cotesta cosa,
5
     Rugger, don Guottibuossi e Bradamante
sopra tre scranne in una cameretta
consiglian come quella stravagante
si potesse cacciar nella celletta,
perché il farla pigliar da un arrogante,
da tre, da quattro, e farla annodar stretta
e portarla in convento, non va bene,
che farebbe una scena delle scene.
6
     Dicea Rugger: — Io mi sento che scoppio.
Che direm, Guottibuossi, e che faremo? —
Bradamante dicea: — Diamle a ber oppio,
e addormentata via la porteremo. —
Dicea don Guottibuossi: — Ho un pensier doppio;
lasciate ch’io il maturi, e parleremo.
Tutto ha rimedio fuor che il collo in pezzi. —
Bradamante l’aiuta co’ suoi vezzi.

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7
     Nota, lettor, che l’ordine Turpino
a Fiordiligi in scritto aveva dato
d’accettar la Marfisa al suo destino,
purché Rugger la porta abbia pagato.
Fiordiligi moglier d’un paladino
fu un tempo, ma Gradasso l’ha ammazzato
in Lipadusa a tradimento ed arte,
detto, come si legge, Brandi marte.
8
     Morto il consorte, questa vedovella
avea fondato un certo monastero,
e aveva pianto per tre giorni in cella,
la tonaca vestendo e scotto nero,
col voto di lasciar la vita in quella.
Dopo tre giorni ebbe un altro pensiero,
ma non fu poi rimedio a cambiar vita;
donde viveva monaca pentita.
9
     E perch’ell’era fresca e parlatora,
mille visite aveva ogni momento.
Grandi aderenze ha per Parigi e fuora,
per utile ed onor del suo convento.
Scrivea de’ vigliettin quaranta all’ora;
protegge il concorrente e il malcontento;
raro era quel raggiro entro a Parigi
ignoto all’abadessa Fiordiligi;
10
     che quasi in tutto ella metteva mano.
Certi avoltoi pretini espiatori
tenea de’ casi, e qualche altro cristiano
pratico de’ secreti de’ signori;
e comandava come un capitano,
quando voleva cariche o favori;
e quando un uom voleva rovinato,
ei fuggia per non essere impiccato.

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11
     Don Guottibuossi avea pensato molto,
e disse alfin: — Fiordiligi abadessa
potrebbe il tordo aver nel laccio còlto
senza tanti romori e tanta pressa,
se a scrivere un viglietto avesse tolto,
con certa menzognetta dentro messa;
cioè ch’eli’ ha novelle del guascone
da darle occulte ed in confessione,
12
     e che Marfisa nel convento aspetta
secretamente e in somma gelosia.
Data in nascosto questa polizzetta
a Marfisa, son certo, ella va via;
quand’ella è dentro poi, si chiude in fretta
l’uscio del chiostro con gran leggiadria.
Cosi, senza romori e forza al caso,
il topo è nella trappola rimaso.
13
     Difficile è il ridur, come vedete,
Fiordiligi alle cose che ho pensate;
ma sono amico assai d’un certo prete,
il quale è confidente d’un abate;
questo comanda a un venditor di sete,
e questo a una puttana, e questa a un frate;
il frate poi della badessa è tutto:
donde farem maturo questo frutto. —
14
     Difatto il cappellan dal prete è gito;
il prete coli ’abate fece motto;
l’abate col mercante ha stabilito
che si mettesse la puttana sotto;
e quella indusse il frate al suo partito.
È ver che ci fu in mezzo anche un borsotto;
ma non si sa se questo andasse in mano
alla puttana, al frate o al cappellano.

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15
     Basta che Fiordiligi fé’tenere
alla bizzarra il vigliettin che ho detto.
Marfisa n’ebbe un lago di piacere;
da’ pie le corse il sangue all’intelletto;
e non aspetta altro messo o corriere,
che del guascon ragionava il viglietto
e le dicea: «Venite tosto e sola,
ch’io v’ho a dir molto grata una parola».
16
     Era il meriggio, era di maggio il mese,
il foglio a pranzo invitava la dama.
Sappi, lettor, se tu non se’ francese,
che a Parigi non s’usa quella trama
di proibir, "come in altro paese,
d’andar nel chiostro a visitar chi s’ama.
In qualche giorno questo vien permesso:
correa quel giorno libero l’ingresso.
17
     Mette il zendal Marfisa in sulla testa,
facendo «bao bao» col suo ventaglio;
giugne al convento, e la campana presta
tira, e gran picchi fé’dare al battaglio.
La portinaia, suor Maria Modesta,
correva al bucherello in gran travaglio,
ch’una seconda scossa si villana
potea gettare in pezzi la campana,
18
     Vide Marfisa, e presto apre la porta,
che avea precetto della superiora;
poi chiude l’uscio e le fa innanzi scorta,
e la conduce come traditora.
Marfisa va che il diavol ne la porta;
di saper del guascon non vede l’ora:
ben cinque porte dietro le son chiuse,
né cerca lo’mperché, né chiede scuse.

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19
     Cosi la quaglia maschio, dal quaglieri
e dalla quaglia femmina disposta,
seguendo il canto, cieca volentieri
entra sotto del bucine a sua posta.
Nessuno al suo viaggio andò leggeri
quanto Mariísa, che al laccio s’accosta;
la mente fitta aveva nel guascone,
entrando sotto al bucine in prigione.
20
     In una stanza la badessa stava
con parecchie sorelle intorno via.
Marfisa la baciava e salutava,
e basso le diceva: — Andiamo via. —
Fiordiligi in sul grave si rizzava,
e disse forte: — Sappi, figlia mia,
io deggio dirti questa cosa sola:
che fuor di qua non esce chi non vola. —
21
     Le sono intorno l’altre monacelle,
dicendole che avesse pazienza,
e s’inchinasse al cielo ed alle stelle
che l’avean sentenziata in penitenza.
Marfisa guarda queste e guarda quelle.
— Che penitenza? — disse — che sentenza?
E non potea rassettar nella mente,
che le avvenisse il caso impertinente.
22
     Poi, vòlta alla badessa, riscaldata:
, — Io venni per saper di quell’amica
— disse, — per quella lettera mandata,
che voi sapete senza ch’io vel dica. —
Rispose la badessa sussiegata:
— Quello io vi scrissi per scansar fatica,
ma brievemente la storia sincera,
Marfisa, è che voi siete prigioniera. — .

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23
     Nessun può col cervello immaginare
biscia, serpente, tigre o lionessa,
che alla bizzarra possa somigliare,
all’ultimo parlar della badessa.
— Perdio, pelate — cominciò a gridare, —
ch’io sarò a pezzi, a spicchi, a quarti messa;
se foste mille, non avrò paura:
non mi terrete dentro a queste mura. —
24
     E cominciava a correre alla porta.
La badessa gridava: — Suore, all’erta! —
Le suore l’una l’altra si conforta;
corron j)erché la porta non sia aperta.
Spingon Marfisa a terra; ella è risorta,
e co’ punzon le monache diserta,
lacera bende e scinge e strappa tonache.
Non so spiegar le strida delle monache.
25
     Son corse le converse di cucina
e quelle che nell’orto stan zappando.
Col pastorale, come una gallina,
sta la badessa altera crocidando.
La vecchiarella vicaria, meschina,
con una sua reliquia sta segnando.
La sacristana un cingol ha di prete;
g^da lontan: — Vi lego, o v’arrendete. —
26
     A Marfisa il zendale è gito a terra:
tre suore in quello sonp incespicate.
Cadute, alla bizzarra fanno guerra
con graffi e morsi, alle gambe attaccate.
Marfisa un Cristo appeso al muro afferra
e loro dá di gran crocifissale.
Ma s’accrescevan sempre le milizie:
son giunte la maestra e le novizie.

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27
     E tredici fanciulle piccioline,
di quelle che s’appellano educande,
vedendo le lor zie nelle rovine,
facean piangendo uno strillar ben grande.
Marfisa, schiaffeggiando le vicine,
promette alle lontane le vivande,
ed era giunta alla seconda porta:
la badessa di stizza è mezza morta.
28
     E grida: — Su! pigliatela, da parte
del padre del nostr’ordine. Agostino.
Maledetti i comandi che comparte
quel rantacoso vescovo Turpino! —
Si difende Marfisa piú che Marte,
e g^á il terz’uscio avea quasi vicino;
ma la rabbia e il calor della contesa
fé’che un effetto isterico l’ha presa.
29
     Caduta per gli effetti matricali,
comincia a fare il solito lavoro
di stringer denti e scorci corporali,
e d’altre cose contro al suo decoro.
Le suore erano avvezze a questi mali;
spesso cadeva in quelli una di loro.
Ringraziando di ciò Dio benedetto,
portarono la dama in sur un letto.
30
     Tre ore a trattenerla ebbon faccenda,
perché le poppe non si lacerasse.
So dir che tutte avean molle la benda
di sudor, spezialmente quelle grasse.
Alfin riscossa convien che s’arrenda
Marfisa, e’ ha le membra troppo lasse.
Le monacelle stanche, stizzosette,
intuonaron di molte predichette.

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31
     Vanno rimproverandole la vita,
gli amori e il mal costume, che seguia;
dicendo che dal secolo tradita
era, perocché il secolo tradia.
Marfisa non può muovere le dita,
ma la lingua robusta in bocca avia;
e poich’ebbe sofferta alcuna cosa,
si volse e disse irata e furiosa:
32
     — Non mi seccate piú, stolide, sciocche,
con tali vostre scempie dicerie.
Altro ci vuol che queste filastrocche,
a convincer di torto le par mie.
Se poteste parlar con quelle bocche
che avete in core, disperate arpie,
del secol parlereste d’altra norma,
e della sua materia e della forma.
33
     So che date nel cor maledizioni
divote a chi vi chiuse, a tutte l’ore;
e quando recitate le orazioni,
la peste a Dio chiedete al genitore;
e con gli amòri e con le tentazioni
disperar spesso fate il confessore;
e quando una vi parla del marito,
non vorreste il discorso mai finito.
34
     Come la volpe le ciregie sprezza
che sono in cima troppo e non le arriva,
voi, che siete legate alla cavezza,
sprezzate il secol che di sé vi priva.
Per invidia, con voi nella sciocchezza
tirar vorreste ogni donna che viva,
e per ridurvi in copia senza fine
dove disperazion vi manda alfine. —

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35
     Era quivi in disparte certa suora,
che al remore, alle cose, al parapiglia,
non s’era mai degnata d’uscir fuora,
come chi saviamente si consiglia.
D’una bellezza è tal, che, se in un’ora
la descrivessi, farei maraviglia:
bianca, ben fatta, giovine, d’un viso,
d’un occhio, d’un guardar di paradiso.
36
     Se le scolpiva in faccia dell’interno
la contentezza, la quiete vera;
al piú cocente state, al peggior verno,
godea quella forte alma primavera.
Conoscea veramente che l’eterno
Bene desiderabile, e solo, era.
Raccolta mai per monaca richiesta
non avea detto il ver siccome a questa.
37
     Al ragionar furente di Marfisa,
bizzarro ed empio e scandaloso e forte,
disse all’altre sorelle in questa guisa
e alla badessa, e’ ha le luci torte:
— Suore, scorgete mai ch’ella è divisa
dal pensar dritto? usciamo delle porte,
e lasciatela in pace, che i rimbrotti
fan mal peggiore ne’ cervei corrotti.
38
     Queste parole, ch’ella ha dette, sono
de’ libri suoi moderni, che l’han guasta;
insegnamenti che le han dati in dono
gli spirti forti di novella pasta.
Ugualmente a’ conventi è il secol buono,
ma la rete oggi in quello è troppo vasta.
La rabbia, ch’ella or prova, e la vergogna
son frutti del suo secolo carogna.

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39
     Tutte dinanzi al Crocifisso nostro
andiamo ad intuonare il Miserere,
perché la sventurata questo chiostro
soffra con pace, e a noi la lasci avere. —
Marfisa ha nero il cor piú che l’inchiostro:
la rabbia l’avea priva del vedere.
Le monachette dietro a quella santa
andáro a salmeggfiar dove si canta.
40
     Questa giovine bella, e raro esempio
nel secolo d’allora pestilente,
piú satirette addosso di qualch ’empio
aveva e biasmi, se Turpin non mente.
Diceasi ch’ella avea un cervei scempio,
la macchina insensata interamente;
che, non sentendo stimol di natura,
nulla valea la sua santa bravura.
41
     Una postilla in certo testo a penna
trovo: che di Parigi ella non era,
ma da Vinegia giunta in sulla Senna,
e volontaria fatta prigioniera.
La storia d’essa un’altra cosa accenna,
cioè che con pretesti una gran schiera
d’abatin, per vederla, ogni momento
crollava la campana del convento.
42
     E questo degli abati sará vero;
ma ch’ella fosse veneziana nata
non posso rassettarlo nel pensiero,
poich’ella avea la macchina insensata.
In quel clima non nasce di leggero
scempi cervelli o carne raffreddata;
donde penso: o Tarpino il falso scriva;
o ella non fu veneta, o fu viva.

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43
     Per ripigliare il filo della storia,
non è da dimandar se i parigini
san di Marfisa il caso alla memoria,
o se lo narran per i botteghini;
ma perché, quando s’è suonato a gloria,
cambiasi il suon ne’ vespri e mattutini,
comincia a far compassion Marfisa,
e fannosi discorsi d’altra guisa.
44
     Sul marchese Terigi poco a poco
tutte le lingue volsero il furore.
— Che gran soggetto da far tanto foco
— diceasi — pel decoro e per l’onore!
Si sa che l’avol suo faceva il cuoco;
suo padre di Martan fu servitore,
e ch’egli fu d’Orlando lo scudiere,
e non è uscito ancor di gabelliere.
45
     Finalmente Marfisa era una dama,
che cominciava a far la sua famiglia.
Amori o non amor, fama o non fama;
che gran soggetto! che gran maraviglia!
Gran novitá, la moglie che cento ama
fuor che il marito, da inarcar le ciglia!
Terigi la fenice esser dovea,
ch’una consorte tutta sua volea. —
46
     Come l’olio, facevano i parlari,
che sopra d’un mantello sia caduto;
s’egli è una stilla, non istá poi guari
che si dilata e una spanna è cresciuto.
Con tutti i suoi poderi e i suoi danari,
odioso è Terigi divenuto:
dall’odio nasce la persecuzione;
se dice il Credo, non ha piú ragione.

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47
     La famiglia di Risa e gli aderenti,
quella di Chiaramonte e di Mongrana,
che aveano innumerabili parenti,
suonan sopra al marchese una campana,
che lo faceva digrignar i denti,
arrabbiar, dormir poco e aver mattana;
e sopra tutti gridava Rinaldo:
— Io vo’ ridotto al verde quel ribaldo! —
48
     E co’ suoi contrabbandi a Montai bano
manda in rovine le gabelle sue;
introduce ogni merce da lontano,
tal che son rinvilite il sei per due.
Terigi se ne appella a Carlo Mano,
e finalmente rimaneva un bue,
che nulla si faceva, e in conseguenza
l’util n’andava in somma decadenza.
49
     Aggiungi che quattordici villani
con autentiche carte hanno provato
che discendean da’ suoi cugin germani,
i quai comune aveano avuto stato
col padre suo, senza far con le mani
o con la penna parte od accordato,
e ch’ei non s’era emancipato mai;
dond’essi avean pretensioni assai.
50
     Quattordici porzion nel patrimonio
voleano di Terigi i villanzoni,
ed hanno un avvocato, ch’è dimonio
e molto ben contesta le ragioni.
Terigi s’accomanda a sant’Antonio
per assistenza e carte e testimoni;
ed ogni volta ch’uno all’uscio picchia,
teme una citazione e si rannicchia.

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51
     Don Gualtier cappellan lo confortava,
e dice: — Io me ne intendo di litigi.
Infin ch’io vivo — e il petto si toccava, —
non temete avvocati di Parigi.
10 penetro nel centro della fava,
so del merto e dell’ordine i vestigi.
Lasciate che gambettino i forensi;
le vostre facoltá son ben castrensi.
52
     In virga ferrea ci difenderemo;
ma convien spesso tener buon consiglio,
perch’ogni picciol passo, che faremo,
causar può, s’egli è falso, del scompiglio. —
11 marchese dicea: — Va ben; ma temo
questo andar allo scrigno, caro figlio,
e questo far consulti ogni momento
faccia che alfin la lite sia di vento. —
53
     Prete Gualtieri andava nelle furie
quando sentiva questa economia,
gridando: — Eh! ci vuol altro, nelle curie,
che idee meschine e che spilorceria. —
E poi Terigi carica d’ingiurie:
minacciai di lasciarlo e d’andar via,
dicendo: — Trovate altri direttori,
che sperimenterete traditori. —
54
     Il marchese, che al fòro era ignorante,
avea nel prete ogni speme, ogni fede.
Gli avria baciato peggio che le piante,
quando ch’ei voglia abbandonarlo crede;
e gli dicea: — Non esser si arrogante.
Gesú Maria! don Gualtier, giá si vede
ch’io non so quel che fo né quel che dico.
Pregato, il prete gli tornava amico.

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55
     Cosi traendo il sangue al meschinello,
ragion non gli rendeva mai del speso,
dicendo: — Anzi n’aggiunse il mio borsello,
siccome un giorno il conto v’avrò reso. —
Terigfi era per perdere il cervello;
spesso da sé ragiona e sta sospeso.
I drappi gli eran larghi tutti quanti,
vuote aveva le guance e pengiglianti.
56
     Pel matrimonio, ch’era andato a monte,
il Gratta, stampator delle raccolte,
chiedeva il prezzo, e sudava la fronte
a lagnarsi col prete molte volte.
Diceva il prete: — E’ convien che tu smonte,
perché le nozze sono andate sciolte.
Vendi i tuoi libri a peso o in su’ banchetti:
vuoi tu che noi turiam d’essi fiaschetti? —
57
     Marco poeta s’era consumato
a far canzoni e la dedicatoria,
e il regalo promesso gli è negato,
donde pareva fuor della memoria.
— Corpo di Bacco! — giura in ogni lato —
del primo mio romanzo nella storia
vo’ metter la persona del marchese
in vista da far ridere il paese.
58
     E don Gualtier nel mio romanzo voglio
che sia preso da birri in una piazza,
posto in berlina, al petto con un foglio
che dica: «Stuprator d’una ragazza»;
che ad ogni modo ha riscosso e fa imbroglio,
ed ha condotto un mio pari alla mazza.
Nel mio romanzo la berlina è poco:
vo’ rallegrarmi a condannarlo al foco. —

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59
     In questo tempo Marco aveva fatte,
per sbalordire gl’inesperti putti,
alcune pistolone in versi, matte,
e le appellò: Filosofia per tutti,
ripiene di sentenze molto stratte,
che punto non recavano costrutti,
peroch’elle diceano e disdicevano
senza sistema e poco s’intendevano.
60
     Hai tu veduto maschera a Venezia,
vestita da corner con la scuriada
di nerboforte, a far quella facezia
d’un quarto d’ora lunga in sulla strada,
che mena il braccio e scoppia; e quell’inezia,
per quanto dura, il popol tiene a bada,
e poi molto erudito il manda via,
siccome Marco di filosofia?
61
     Per non lasciar Matteo dimenticato,
egli avea dato fuori un manifesto,
che chiedea mezzo scudo anticipato
per tomo all’opre sue che stampa presto.
E fien cinquantun tomo, ognun fregiato
di rami e bella carta, e dá del resto:
«Tutte le miscellanee poesie
saran — dicea — con le commedie mie.
62
     È vero — soggfiugnea — che replicate
de’ miei divini scritti l’edizioni
poco men che il Bertoldo sono state,
siccome sanno i miei cari padroni;
ma son poi tanto rare e ricercate,
che in bella carta e buone correzioni
e con figure in rame, indispensabili
son per le biblioteche memorabili».

[p. 221 modifica]

63
     Un’altra parte il manifesto avia
che sembrava un’idea del Masgumieri;
cioè che a chi volesse piegieria
far per dieci assoziati a’ tomi interi,
sarieno dati i tomi in cortesia
f)er la benemerenza e volentieri.
Il Masgumier cosí dispensa a macco
sopra il balsamo greco il taccomacco.
64
     Un altro scrittorel di simil forma,
il qual delle Slagion facea poemi,
di cui Dodon avea riso prò forma
de’ suoi cattivi versi e de’ proemi,
aveva detto che non prende norma
dai scritti di Dodon né da’ sistemi;
che non tersa scrittura ne’ bei detti,
ma che vuol esser succo ne’ libretti.
65
     Dodon rideva sgangheratamente,
che non ha frega d’essere imitato,
e gli diceva: — Dimmi solamente
se a rider de’ tuoi scritti sia peccato.
10 trovo il tuo libretto un accidente
di tristi versi e rubacchiar pisciato,
e non ci vedo il succo che tu narri.
Lascia che rida e le mascelle sbarri.
66
     L’ironico ricordo che mi dai,
ch’io logri inchiostro in util delle genti,
l’ho posto in uso prima, come sai,
buffoneggiando i libri puzzolenti.
11 criticarti non l’ho fatto mai;
in ciò pianti carota agl’innocenti:
ma dico che le tue Stagioni in canti
forman l’anno peggior di tutti quanti.

[p. 222 modifica]

67
     Tu di’ che vuoi di fatti e non parole
siano i tuoi libri; in questo sarai solo.
Dunque un tuo libro battezzar si vuole
di fabbro una bottega o legnaiuolo.
Dch! canta autunni e tempi e luna e sole,
e crediti a tua posta un usignuolo;
dedica, imprimi, a tuo modo ti regola;
ma tu mi par stizzita una pettegola. —
68
     Gl’impostori scrittor d’allora in caldo
appiccorno question co’ buon scrittori.
Sino a quel giorno avea detto ribaldo
Marco a Matteo che s’eran traditori:
ma come vidon non istar piú saldo
chi sa distinguer ben dal sterco i fiori,
furono amici allor Marco e Matteo,
e i partigian cantarono il Tedeo.
69
     Scrivea Marco in que’ tempi la gazzetta:
il pubblico avverti dell’alleanza
con uno stil da corno e da trombetta,
come se il caso fosse d’importanza.
Dicea: «Io sono Augusto — a chi l’ha letta;
Matteo di Marc’Antonio ha simiglianza:
chi non ci loda è un vii Lepido indegno,
e proverá ben presto il nostro sdegno».
70
     Se rideva Dodon, Dio ve lo dica,
di queste matte forme e braverie,
e va dicendo alla sua schiera amica:
— Quell’alleanza, care anime mie,
ci toglie occasione di fatica
a provar che i lor scritti son follie. —
Il popolo diviso in due fazioni
dava riputazioni a’ bighelloni.

[p. 223 modifica]

71
     Perocché riscaldato e in gran puntíglio,
chi Marco e chi Matteo per sostenere,
vivo tenea il discorso e lo scompiglio,
ed aperto il borsello per vedere
e per poter gridar: — Mi maraviglio. —
Marco a Matteo può baciare il brachiere,
o ver Matteo lo può baciare a Marco,
facendo chi il Caton, chi l’Aristarco.
72
     Or che tra loro è fatta convenzione,
e di vivere amici han stabilito,
il pofKsl non fará piú contenzione,
e sará a poco a poco intiepidito;
poi ridurrassi a dugento persone,
a cento, indi a cinquanta il lor partito.
Lasciamo che s’adoperi natura,
che finalmente il ver non ha paura.
73
     Dodone incominciava a lusingarsi
che i scritto racci avesser decadenza;
ma il mal, che aveano fatto, a ripurgarsi
non bastava una quarta discendenza.
Or del guascon bisogna ricordarsi,
ch’era fuggito e in bando per sentenza,
e va maledicendo il suo duello;
end ’io ripiglio traccia dietro a quello.
74
     Quel di che fu ordinata la cattura
e ch’ei la seppe (e n’andava la testa),
tanta fretta gli mise la paura,
che smemorato in man prese una cesta,
come colui che non ha piú misura,
e fuggi di Parigi in man con questa.
Fece due leghe di cammino a piede,
e ancora della cesta non s’avvede.

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75
     Rassicurato alquanto, finalmente
s’avvide e disse presto: — Ho fatto male.
Io potea ben prò vedermi altramente;
perdio! che reco un degno capitale! —
Cento zecchini avea per accidente,
avanzo d’una paga mensuale,
e bel vestito e ricco farsettino:
^etta la cesta e seg^e il suo cammino.
76
     Le fole che inventava per la via
per alloggiare a macco da’ villani,
perocché de’ signor paura avia
se non si vede in paesi lontani,
io non le potrei dire in vita mia.
Racconta circostanze e casi strani,
tanto che da’ piú agiati, oltre a’ mangiari,
per accrescer la borsa ebbe danari.
77
     Un di ch’era vicino a uscir del regjno,
ma in brama di tre giorni di riposo,
da certi frati l’ebbe con ingegno:
tenne dell’empio il fatto e del vezzoso.
Ma perch’io sono giunto a certo segno
che può l’ascoltator far curioso,
la storia all’altro canto vi fia nota
del piantare a que’ frati la carota.



fine del canto nono