La Marfisa bizzarra/Canto X

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Canto X

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Canto IX Canto XI
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CANTO DECIMO.


ARGOMENTO.


Con una burla, a macco il guascon empio
vive da certi frati. Dal convento
fuggon Marfisa e Ipalca, coll’esempio
d’una filosofessa a lor talento.
Ruggero a Malagigi, per far scempio,
chiede ove sia la suora, ma giá spento
è di mago il mestiere. I paladini
dietro a Marfisa van fuor de’ confini.


1
     Uom non v’è piú vii d’un malfattore,
ch’abbia la coscienza maculata,
e benché mostri gran core e furore,
egli ha sempre paura in sen celata.
Sin ch’ei può sopraffare, egli è il terrore;
ma quando alcun la faccia gli ha voltata,
la coda, ch’era tesa, va tra gambe,
e non è piú delle persone strambe.
2
     A chi de’ far co’ tristi, in coscienza
non saprei ricordar filosofía;
p>erché, mostrando flemma e indifferenza,
la battezzan color poltroneria;
e tanto cresce arroganza e insolenza,
che van dannati per la cortesia,
donde un randello a tempo veramente
avanza ogni filosofo eccellente.

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3
     Di questi peccatori il gran flagello
ed il ribrezzo e la disperazione
esser sogliono i birri col bargello.
Quando girar gli vedono un cantone,
par loro avere in sul capo il mantello,
hanno la mente in gran confusione
e, come Filinor, con una cesta
fuggirien, che non hanno piú la testa.
4
     Giunto il guascone un giorno a una callaia,
vide poco da lunge un romitoro,
non di graticci o canne o d’altra baia,
come scrivean gli antichi di pel soro;
ma come, verbigrazia, quel di Praia,
con giardin sotto e terre di lavoro,
dove i romiti in pingue santimonia
vivean, come Turpin ci testimonia.
5
     Messer l’abate in quel colto disertò
aveva fama d’esser un uom santo.
Santo o non santo ei fosse, questo è certo
che non avea mai posa tanto o quanto;
perocché ricorreano al suo gran merto
spesso infermi ed inferme in doglia e in pianto,
spiritate, gelose e disperate
a farsi benedir da quell’abate.
6
     L’empio guascon pensò come potesse
viver parecchi giorni a bertolotto.
Come alla paperina e ben si stesse
entro a quel romitorio, era giá dotto.
Parecchie erbette, ch’eran quivi spesse,
con fior giallastri va cogliendo il ghiotto,
e fregandole al viso ed alle mani,
divenne come un uom di que’ mal sani.

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7
     Pareva impolmínato e stanco e fiacco.
A suo bell’agio al romitorio arranca,
laddove giunto, ansando come un bracco,
si metteva a seder sopra un panca,
dicendo ad un romito: — Oh Dio! son stracco;
io sento il respirar proprio mi manca:
da Parigi qui vengo a pie per voto
l’abate santo a ritrovar divoto.
8
     Io sono un cavalier de’ principali,
e vi prego a chiamar l’abate vostro.
Il romitello mise tosto l’ali,
narrando questa cosa per lo chiostro.
Lasciar molti romiti i breviali
pel forestier splendente d’oro e d’ostro.
Se vi ricorda, al suo fuggire, ho detto
che avea ricco vestito e bel farsetto.
9
     Venne l’abate in mezzo a venti frati,
vide il guascone con le guance gialle,
che tenea gli occhi travolti e incantati,
e una gota sur ima delle spalle.
I romiti dicean: — Fra gli ammalati,
che giunti sono in quest’erema valle,
noi non vedemmo un uom di peggior cera;
egli è peccato un si bel giovin péra. —
10
     L’abate chiese a Filinor chi fosse
e da sua jk) verta che desiasse.
Filinoro un pochette si riscosse,
e parve a ragionar che si sforzasse.
— Padre — diss’egli, — divozion mi mosse,
perché l’altre speranze ornai son casse.
Io sono unico figlio d’un signore,
che in me piange sua stirpe che si more.

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11
     Son di Parigi, e quattr’anni saranno
che m’ha assalito una febbretta lenta.
I medici hanno fatto ciò che sanno;
a questa malattia n’ebbi ben trenta.
Emetici e purganti provati hanno:
parca talor la febbre fosse spenta;
ma in capo un mese l’ugna pavonazza,
ecco il ribrezzo e la febbretta in piazza.
12
     Chi dicea mesenterica ella sia,
chi del fegato figlia o tabe interna.
II mio ventre era fatto spezieria
e d’acque amare e dolci una cisterna.
Si dice che la febbre è andata via,
ma m’è rimasta inappetenza eterna;
io sudo, io tremo, io svengo, intirizzisco
del cibo all’apparir, si l’abborrisco.
13
     Con sforzi e nausea ed avversione orrenda,
qualche brodo succiai con tuorli d’uova.
Lo stomaco non vuol pranzo o merenda
brodi o panatelle: nulla giova.
Tosto una convulsion par che mi prenda;
ristoro nello stomaco non cova;
vomito tutto, insino a sangue vivo,
pe’ crudi sforzi, e resto semivivo.
14
     Sei mesi son che portentosamente
per qualche stilla d’acqua sono in vita.
1 dottor non mi fanno piú niente,
e dicon sol, per me ch’ella è fornita.
Sentendo a dir per fama dalla gente,
la vostra santitá, padre, infinita,
a piedi e senza servi, in divozione,
ricorsi a voi per la benedizione.

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15
     Non so come per via non sono morto
in questo lungo mio pellegrinaggio.
Ben cento volte caddi a collo torto;
poi sursi ancor, facendomi coraggio.
Ma finalmente sono giunto in porto,
e mi par di sentir qualche messaggio
che dica: — Al segno dell’abate pio
l’inappetenza tua n’andrá con Dio. —
16
     S’io risano, prometto in questo chiostro
far aggiunte di fabbriche e un altare. —
Disse l’abate: — Voglia il Signor nostro
che il segno in nome suo possa giovare.
Direte, figlio, basso un paternostro,
fede ci vuol le grucce per lasciare. —
Recata al frate fu la stola tosto;
l’empio guascone in ginocchion s’è posto.
17
     Comincia i crocioni e le parole
l’abate pio, che gli occhi stralunava.
L’indegno di veder luce di sole
con le sue nocca il petto si picchiava.
Fini r uffízio, quando finir suole.
L’abate ali ’amalato dimandava
com’egli stesse e come si sentisse.
18
     L’empio teneva in lui le luci fisse,
dicendo: — Padre abate, a dirvi il vero,
nello stomaco sento un pizzicore,
che, manicando un bocconcello, spero
si facilmente noi trarrei piú fuore.
— Presto — disse l’abate a frate Piero,
ch’era ivi cuoco e si faceva onore, —
reca qualche sostanza al cavaliere. —
Frate Piero va via come un levriere

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19
     e reca una minestra in un piattello.
Filinor la trangugia in un baleno.
— Sentite moto a tramandare? — a quello
dice l’abate, di pietá ripieno.
Rispose Filinor: — Mi sento snello,
e fame ancora; — e si toccava il seno.
Dice l’abate al cuoco: — Hai qualche piatto?
— E’ c’è un cappon — rispose — tanto fatto.
20
     — Reca il cappon. — Filinor lo mangiava
come un morsel, che non si torce un pelo.
L’abate, i frati, il cuoco, ognun gridava:
— Miracolo, miracolo del cielo! —
A bocca piena il guascon replicava:
— Aiuta Dio chi crede nel vangelo;
questo è un miracol di natura fuora:
abate santo, ho della fame ancora. —
21
     Frate Piero, correndo, una pernice
reca in un tondo: Filinor la succia.
— Miracolo, miracolo! — ognun dice.
L’empio guascon col carcame si cruccia,
e chiede bere, e il cielo benedice.
Il cantiniere alla sua cella smuccia,
e spilla un vin da far andare un morto,
né certo Filinor gli fece torto.
22
     Non si può dir de’ frati l’allegrezza
per il miracol nato ad evidenza.
Quel sacconaccio di scelleratezza
tutto asseconda con somma avvertenza;
e quando mostra d’essere in tristezza,
e di sentirsi ancora inappetenza,
donde rinnova il frate i crocioni,
pel guasto uni versai de’ suoi capponi.

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23
     Quindici giorni è stato il traditore
da que’ romiti, e sempre ha miglior cera,
perché, lavando il viso, quel giallore
ad arte fatto alfin sparito s’era.
— Certo — dicea, — giugnendo al genitore,
vo’ spedirvi un miracolo di cera,
e vo’ aggiungere un’ala al romitoro,
ed un aitar da spendere un tesoro. —
24
     Ogni di con l’abate disegnando
va una fabbrica nuova nel sabbione,
e va crescendo idee di quando in quando:
— Io vo’ l’aitar — dicea — di paragone. —
L’abate rispondeva: — Io non comando:
seguite pur la vostra ispirazione. —
E la cucina ogni giorno crescea,
sicché del fabbricar cresce l’idea.
25
     Da molti testimon giurati il caso
fecion deporre i frati, onde n’andasse
girando a stampa dall’orto all’occaso,
acciò al convento la pietá abbondasse.
Un testimon non era persuaso,
ma pur convenne alfine ch’ei giurasse,
perché il prior zelante al Sant’uffizio
gli minacciava accuse e precipizio.
26
     Qui ristorato dal pellegrinaggio
e ben disposto e in gamba, il traffurello
cominciava a dispor di far viaggio,
perché temeva sempre del bargello.
L’abate vuol che pel cammin selvaggio
dieci villani armati abbia con elio.
Disse il guascone: — Un laico mi darete
e qualche cavallaccio, se l’avete.

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27
     Io non vo’ certamente altri compagni:
Dio m’ha condotto, Dio mi riconduca. —
L’abate aveva un suo destrier de’ magni,
che sana stato un bel presente a un duca.
Non era tempo a pensare a’ sparagni:
bardato fé’che il bel corsier s’adduca.
Mille baci il guascone appicca ai frati:
sale a cavai con gli occhi imbambolati.
28
     L’abate i crocioni rinno velia,
dicendo: — Andate in nome del Signore! —
Rispose Filinoro: — Ho il corpo in sella,
ma nelle vostre man rimane il core. —
Un laico un suo ronzin con la bardella
rassetta, in fin che gli altri fan l’amore.
Filinor sprona, e a lanci via n’andava;
il laico d’un trotton lo seguitava.
29
     Lasciamgli andar, che poi li troveremo.
Io so che nel pensier Marfísa avrete,
e come giunta eli ’era al caso estremo
nel monastero vi ricorderete.
Parve per qualche di d’un cervel scemo.
Guardava il cibo e dicea: — Non ho sete; guardava
il vino e dicea: — Non ho fame; •
donde ridean le monacelle dame.
30
     Ma la calamitá raffinamento
d’indomiti cervelli anch’esser suole.
La bizzarra tra sé pensava drento
che il gridar e il far forza erano fole.
— Io fingerò — diceva — cambiamento
e nausea per il mondo, con parole;
ben verrá il giorno della mia vendetta:
il savio tempo e luogo e punto aspetta. —

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31
     Comincia santimonia a poco a poco,
e lasciarsi trovare alla sprovvista
con un breviario in man, piena di foco,
rivolta verso il cielo con la vista.
Le semplicette monache, a quel giuoco,
l’un’all’altra dicea: — La s’è ravvista.
Grazie all’immagin di Gesú bambino
e al padre fondator nostro Agostino! —
32
     Marfísa scherza con le monacelle,
e mangia e beve, e ’non è piú ritrosa,
e alla badessa un giorno in mezzo a quelle
diceva, in faccia tutta vergognosa:
— Vi prego, madre, le mie maccatelle
dimenticate e siatemi pietosa.
Vorrei che il mondo tutto si scordasse
e che di me nessun piú ragionasse.
33
     So ben che il caso de’ parervi strano,
che Marfísa si tosto sia cambiata;
ma che non può di Dio Signor la mano?
Io mi sento del mondo stomacata.
Per grazia certo e poter sovrumano
non odio piú il fratel né la cognata,
e non vo’ piú saper del secol nulla.
Mi sembra esser uscita oggi di culla. —
34
     Non le dá la badessa molta fede:
pur la conforta e loda, e fa buon viso.
Dell’altre monachette ognuna crede,
e lievan occhi e mani al paradiso.
Marfísa a dir l’uffizio ognor si vede,
e un giorno fu trovata all’improvviso
con un flagello, mezzo ignuda, ardente,
che si battea le spalle leggermente.

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35
     Non v’è piú alcun che per santa non l’abbia.
Al parlatorio andava qualche volta,
ed affogando nei polmon la rabbia,
ragiona a Bradamante e umil l’ascolta.
Pur ruminando, come uscir di gabbia
potesse, andava, e in sé sta ben raccolta;
ma le porte eran chiuse in diligenza,
perocché la badessa avea temenza.
36
     Ipalca damigella andava spesso
a visitarla, e Marfisa con quella
diceva: — Ipalca, a te tutto confesso:
sappi ch’io sono un satanasso in cella.
Se tu non mi soccorri, un gran successo
udirai presto, una strana novella:
son giá determinata nel pensiero,
perdio! che appicco il foco al monastero. —
37
     Ipalca rispondea: — Gesú e Maria!
non fate questo per l’amor di Dio; —
e poiché aveva pianto, suggeria
qualche ripiego stolido e stantio.
Correa pel monastero una pazzia:
che si tenean per moral lavorio
l’opre e i romanzi del poeta Marco,
ed ogni tavolin n’era giá carco.
38
     Marfisa va leggendo que’ volumi,
ch’erano stati sempre suoi diletti,
e cerca ritrovar nei lor costumi
una fuga che in capo se le assetti.
La bella pellegrina le die’ lumi
circa al fuggir da’ chiostri benedetti,
la qual avea trovato una ragazza,
che l’era uguale e fé’bella la piazza.

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39
     Molt’altre fughe aveva ritrovate
in que’ romanzi di Marco scrittore.
Donhe che s’eran da’ bai con gettate,
d’altezze che a narrarle fan terrore;
altre ne’ fiumi e ne’ mari saltate,
tutte salve per grazia del Signore.
Marfisa è assai bizzarra, ma destina
fuggir come la bella pellegrina.
40
     Una ragazza simile di faccia,
di voce, di capelli, di statura,
la bella pellegrina in cambio caccia
di sé in convento, e fugge con bravura.
Marfisa a Ipalca disse: — Corri in traccia
di qualche donna della mia figura;
con quel dal mondo nuovo entri nel chiostro:
baratto vesti, e questo è il caso nostro. —
41
     Ipalca va com’una disperata
cercando per la terra una Marfisa;
per quanto guardi non l’ha mai trovata:
eli ’erano, perdio! cose da risa.
— La pellegrina assai fu venturata
a trovar su due pie, cosí improvvisa,
un’altra lei, per cambiar la persona —
diceva Ipalca e torna alla padrona.
42
     E disse: — Un miglior tomo leggerete:
quel della Pellegrina nulla vale.
Non trovo un’altra voi, come volete:
l’ho ricercata infin nell’ospedale. —
La dama irata disse: — Voi morrete
con quella vostra testa dozzinale.
Sempre difficoltá, sempre sventure:
con voi son tutte scarse le misure.

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43
     Nella Filosofessa italiana
un altro modo ho letto di fuggire.
Di nottetempo questa settimana
potrete al muro del giardin venire.
Una scala portatile alla piana
appoggerete, e dovrete salire:
quando siete in sul mur, tirate suso
la scala e a me la calerete giuso.
44
     Salirò anch’io sul muro, e allor potremo
ripor la scala al di fuor nuovamente,
e l’una dopo l’altra scenderemo:
questa è cosa da farsi agevolmente.
Uscite, poscia ci travestiremo
per non esser scoperte dalla gente;
e poi nell’alba, all’aprir delle porte,
schizzerem fuor della cittá alla sorte.
45
     Io voglio come maschio esser vestita:
voi, come donna, siate mia mogliera. —
Diceva Ipalca: — Trista alla mia vita!
Per me farò da moglie volentiera. —
Ed ebbono ogni cosa stabilita,
e di fuggire un sabbato da sera.
Dovea rubare Ipalca a Bradamante
per le bisogne non so qual contante.
46
     Sapea dove la moglie di Ruggero
teneva piatta una sua borsa d’oro.
Ipalca aveva un occhio di sparviero,
e brievemente le ciuffo il tesoro.
E un sabbato di notte all’aer nero
fu data esecuzione a quel lavoro,
e la «filosofessa» fu imitata
sino a un peluzzo, alla fuga ordinata.

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47
     Marfisa si vesti da cavaliere,
come nelle commedie fa Clarice.
Ipalca non lasciava di temere;
ma fa la parte, e il cielo benedice.
Un calesse era pronto a lor mestiere.
Apparve di Titon la meretrice:
s’apron le porte; e Marfisa ed Ipalca
son nel calesso, e il postiglion cavalca.
48
     La dama era un bel giovine a vedello.
Ipalca certo è differente assai,
quantunque avesse un leggiadro cappello
col pennacchino e abbigliamenti gai.
Un membro non avea che fosse bello.
Usava del belletto sempremai,
ma caricato e senza alcun ingegno,
donde movea, piú che lussuria, sdegno.
49
     Verso la Spagna presero il cammino
queste due, finta sposa e finto sposo.
Lasciamle andar; diremo il lor destino.
A Parigi fu il caso strepitoso.
Le monache, suonato il mattutino,
levato il sol, lasciarono il riposo,
e sospettaron di Marfisa ingrata,
vagendo la sua cella spalancata.
50
     Cominciano a cercarla in ogni loco
ed a chiamar con religiosa voce.
Una dicea: — Sant’Agostino invoco; —
l’altra un Si quaeris dice, e fa la croce.
Il cicaleccio cresce poco a poco,
ognuna per accrescerlo si cuoce,
e finalmente tutte difilate
le nuove alla badessa hanno recate.

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51
     La badessa in furor scrive a Turpino;
la vicaria a due frati narra il caso;
la sacristana il narra a un abatino;
vuotano l’altre alla castalda il vaso;
una scrive all’amica, una al vicino:
in un momento a ognun la cosa è al naso.
Turpino alla badessa manda a dire
che si deve il silenzio custodire,
52
     perché non vuol che scandal si dilati.
La badessa alle suore dá il precetto:
le suore a capo basso, occhi serrati,
tutte dicean: — Silenzio vi prometto. —
Turpino intanto un prete, de’ fidati,
manda a Rugger col caso in un viglietto,
e lo consiglia a fare a Carlo istanza
di spedir genti, e dá buona speranza.
53
     Al capitar del prete, la famiglia
del buon Ruggero è giá tutta in rivolta.
Bradamante gridava: — Para, piglia, —
che la sua borsa d’oro è stata tolta.
Ruggero è fuor di sé per meraviglia,
né sa di borsa, e ognun guarda ed ascolta;
non si dovea saper che la sua sposa
tenesse borsa di soppiatto ascosa.
54
     Bradamante era fuor de’ sentimenti,
e strilla, e i servi vuol morti e le fanti,
e disse della borsa fuor de’ denti,
tanto di borsa, grida a tutti quanti.
Ipalca manca dagli alloggiamenti,
adunque Ipalca ha involati i contanti.
— Si cerchi Ipalca — Bradamante grida:
— se le strappi la borsa, e poi s’uccida. —

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55
     Il prete, col viglietto del prelato,
Rugger fece morir quasi d’affanno:
sopra un soffá disteso s’è gettato,
dicendo: — Io vivo per maggior mio danno. —
Bradamante, che il vede addolorato,
chiede se della borsa a parlar stanno.
— Che borsa? che non borsa? dalla cella
— disse Rugger — fuggita è mia sorella.
56
     — Fuggita s’è Marfisa! Ipalca manca!
la borsa è andata! — Bradamante strilla,
si batte il viso e poi l’una e l’altr’anca,
grida a Rugger che si debba seguilla.
Disse Rugger: — Quando sarete stanca,
terminerete di suonar la squilla:
la mia sciagura abbastanza mi pare,
senza far la contrada sollevare. —
57
     Ruggero se n’andava a Carlo Mano;
rimase la consorte disperata,
che, piangendo in baritono e in soprano,
ha intorno la famiglia radunata.
La tien don Guottibuossi per la mano,
e promette gran cose all’impazzata:
talor minaccia i cagnolin parecchi,
che, al pianto urlando, intruonano gli orecchi.
58
     Ruggero a Carlo Magno la sventura
narra, e soccorso al suo caso dimanda.
In traccia, di Parigi entro le mura,
l’imperatore di Marfisa manda;
ma gli è si rimbambito di natura,
che fuor che il letto e un’ottima vivanda
nulla conosce, e a Rugger dimandava
chi fosse, dieci volte, e replicava.

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59
     Massimamente, morto il Maganzese
Ganellon traditore, il suo mignone,
Carlo è col capo fuori del paese,
e risponde al contrario alle persone.
Venne la nuova che nessun francese
sa di Marfísa, donde il re Carlone
disse a Rugger con viso sonnolento:
— Ben guarda, ella sará nel suo convento. ■
60
     Rugger perde la pazienza un tratto;
volta la schiena e borbottando parte.
— Perdio J — dicea — l’imperatore è matto. Chiama
Dodone e Orlando da una parte,
anche il danese consigliava il fatto; .
e si concluse che gettasse l’arte
Malgigi, per saper dalla magia
dove Marfisa con Ipalca sia.
61
     E tutti quattro a Malagigi uniti
sen vanno tosto per sapere il vero.
Gli aveva il mago attentamente uditi
con ciglia brusche e con viso severo.
Stava Malgigi assai mal di vestiti,
la barba ha lunga, e non pel suo mestiero,
ma perché non aveva veramente
da pagare il barbier si facilmente.
62
     Per dirvi come fosse Malagigi,
guercia avea guardatura e faccia nera.
Benché avesse i capelli mezzi grigi,
gli teneva in coltura con la cera:
la poi ver confondea da* neri a’ bigi.
La sua camicia candida non era,
ma tuttavia teneva i manichini
grossi, antichi, giallastri e picciolini.

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63
     Le calze ha cenerognole di stame,
che aveano sparse alcune cicatrici,
guarite, or colla seta verderame,
or colla rossa, da’ buchi nimici.
Piangean le scarpe dolorose e grame,
che aveano avuti assai pietosi uffici.
Malg^g^ delle volte piú d’un paio
lor dedicato aveva il calamaio.
64
     Le brache ha di sovatto violetto,
perché cercava brache consistenti;
sopra il ginocchio è corto il coscialetto,
e per l’untume sono rilucenti.
Guardava il mago or lo spazzo or il tetto,
al ragionar de’ paladin parenti,
i quai chiedean che l’arte sua traesse
e dove sia Marfisa lor dicesse.
65
     Poich’ebbon detto, il mago si fé’chino:
prima di dir volea soffiarsi il naso.
Avea si rotto e lordo il moccichino,
che di tenerlo in vista non v’è caso.
Mise la testa sotto al tavolino
(vecchio scrittoio in tre gambe rimase),
e poich’ebbe la tromba ben suonata,
questa risposta a’ paladini ha data:
66
     — Stupisco che voi siate si ignoranti,
e che giunto all’orecchie non vi sia
che usciti son de’ libri nuovi alquanti,
i quali han disertata la magia.
Non vi sono piú streghe o negromanti,
un’impostura è oggi l’arte mia.
I moderni scrittor spregiudicati
i negromanti al sole hanno mandati.

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67
     L’anel dell’arte non è un diamante,
non v’è nessun che piú gli presti fede;
pentacoli, sigi!, son tutte quante
cose alle quali il diavol piú non cede.
Teschi, capelli, cere, bisce e piante
non trarrien di sott’acqua due lamprede.
Gli antichi libri miei ben posso aprire,
il diavol non si move per venire.
68
     I moderni scrittor colla scienza
il popol e i dimoni hanno istruiti.
Il popol non mi fa piú riverenza,
né vengono i dimon, bench’io gl’inviti.
Non so se netta sia la coscienza
di questi scrittor nuovi fuor usciti,
che inutil l’arte magica hanno resa,
né so se ben la cosa abbiano intesa.
09
     Si credeva una volta facilmente
de’ diavoli e de’ maghi il gran potere;
che Farfarel venisse fra la gente,
per far ora piacere, or dispiacere.
Oggidi non si crede piú niente,
pe’ scrittor e’ han soppresso il mio mestiere.
Per ischerzo de’ diavol si decide
che non vengono al mondo, e poi si ride.
70
     Pretendon trarre agli uomin l’ignoranza
gli scrittori novelli col lor fondo.
Ma questo por negli uomini costanza,
circa a’ spirti dannati nel profondo,
fa a poco a poco credere in sostanza,
non sol che mai non vengano nel mondo,
ma timor toglie e sparge quel veleno
di dubitar se diavoli vi sièno.

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71
     In quanto a me, che la professione
di mago sia distrutta e posta sotto,
poco m’importa. Grazie a Salomone
ed a Rutilio, in altro sono dotto;
ed ho sempre concorso di persone,
sapendo trar la cabala pel lotto.
Servo mille persone del paese
con la mia Fiorentina e Bolognese.
72
     Ho fatti guadagnar danari assai
con le cabale mie, che fan miracoli.
Ognun mi fa regali sempremai:
un giorno mi porran ne’ tabernacoli.
I concorrenti non mancano mai,
e’ hanno bisogno a interpretare oracoli:
coi calcoli numerici gli appago,
ed ho giá fatti di tesori un lago.
73
     Alle mogli incagnate co’ mariti,
che rimarranno vedove, indovino.
A’ figli indebitati inferociti
predico il padre a morte esser vicino.
Di giovinette e’ hanno i cor feriti
e di serventi ho pien sempre il stanzino
e di mariti; e chi va, e chi toma,
ed io indovino amori ed odii e corna.
74
     Per saper di Marfisa altro non posso
che la cabala trar, se pur v’aggrada;
io v’avverto però che non m’addosso,
netto risponda ove Marfisa ’ada.
Lx) dirá la mia cabala allo ingrosso,
ma voi dovete interpretar la strada.
Se pel diritto l’interpreterete,
le mani in su Marfisa metterete. —

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75
     Non può Dodon piú rattener le risa,
e disse: — Posa, posa, Malagigi:
risparmia un’impostura di tal guisa.
Che fai de’ tuoi tesori e de’ luigi?
Cambia quella camicia lorda, intrisa,
se puoi col lotto guadagnar Parigi.
Che fai di quelle calze e quelle brache,
che par ch’abbian su avute le lumache? —_
76
     Rispose Malagigi: — Che stupori
per queste brache e la camicia mia!
Io non bado a coltura né a tesori,
che m’innamora sol filosofia.
Tristo a me se badassi a frange, ad ori
ed all’attillatura e leggiadria:
questo sarebbe in me tristo preludio;
addio filosofia, scienza e studio! —
77
     Ruggero, Orlando, il danese e Dodone,
quantunque non avesser molta voglia,
risero tutti all’ultima espressione.
Malgigi anch’esso del serio si spoglia,
e ride per far lop conversazione;
poi disse: — Voi scorgete ciò ch’io voglia;
se non credete a cabale, mi date
un ducato in prestanza e ve n’andate.
78
     Ognun de’ cavalier mezzo ducato
gettò del mago sopra al tavolino;
poi lo lasciáro, e Orlando smemorato
giva dicendo: — Oh secolo meschino!
Quest’uomo a’ nostri di si riputato,
che sbigottiva il popol Saracino,
pe* nuovi libriccini s* è ridotto
a viver con la cabala del lotto! —

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79
     E brevemente, per andare in traccia
della bizzarra, han posto ordin tra loro.
Ognuno dalla stalla il cavai caccia.
Orlando non avea piú Brigliadoro:
non è da dimandar se ciò gli spiaccia.
Frontin non è piú vivo. Alfin costoro
de’ lor vecchi destrier tutti son privi;
forse pe’ cambiamenti non son vivi.
80
     Sin che per lo Vangelo avea servito,
vissuto era ogni antico corridore
per sessant’anni, fiero ad ogni invito;
Baiardo e Vegliantin pien di furore,
Frontin, Rondello e Rabicano ardito
era, siccome narra ogni scrittore:
ma poi, cambiato il buon costume in vizio,
que’ destrier eran morti a precipizio.
81
     Non so se ognun questo evidente segno
tenesse a tristo augurio pel futuro:
certo ne pianse Orlando, e con ingegno
fé’predizioni, favellando al muro.
I quattro paladin si danno pegno
la fede d’ire al chiaro ed all’oscuro,
e di trovar Marfisa e di fermarla,
di ricondurla, e fin di sculacciarla.
82
     Rugger prese il cammin verso la Spagna,
Dodon verso Inghilterra il cavai sprona.
Orlando caccia il suo verso Alemagna,
il danese era assai vecchia persona,
e disse: — Io cercherò questa campagna:
la lepre sta dove non si ragiona. —
Adunque spinse il suo cavai di passo
per que’ villaggi, come andasse a spasso.

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83
     Bradamante a Rugger dalla finestra
si raccomanda per l’amor di Dio;
e intorno la sua borsa l’ammaestra,
gridando: — Carni mie, consorte mio. Rugger
sprona il cavallo, che sbalestra
sei peta della dama al romorio.
Riser gli astanti, Bradamante alquanto
s’è vergognata, ed io finisco il canto.


fine del canto decimo