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La Secchia rapita/Canto nono

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Canto nono

../Canto ottavo ../Canto decimo IncludiIntestazione 11 marzo 2012 100% poema

Canto ottavo Canto decimo


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la


SECCHIA RAPITA


CANTO NONO.

________


ARGOMENTO.


Melindo innamorato al ponte viene,
     E tutti i cavalieri a giostra appella.
     Sull’isola incantata il campo tiene,
     4E fa mostra di se pomposa e bella.
     Cadono i primi, e fan cader la spene
     Agli altri ancor di rimanere in sella.
     Alfin da un cavalier non conosciuto
     8Vinto è l’incanto, e ’l giovine abbattuto.

I.1


Eran partiti già gli ambasciatori
     Venuti a procurar la pace invano,
     Perocch’insuperbiti i vincitori
     12Non si voleano il Re levar di mano:
     E ’l Nunzio anch’egli entrato era in umori
     Ch’ei si mandasse al gran Pastor romano,
     Come in possanza di maggior nemico,
     16Per più confusion di Federico.

II.


Ma finita la tregua ancor non era;
     Quando pel fiume in giù venne a seconda
     Una barchetta rapida e leggiera,
     20Che portava due araldi in sulla sponda.
     Giunti al ponte, smontar sulla riviera,
     L’uno di qua, l’altro di là dall’onda:
     E a giostra, poi che nelle tende entraro,
     24D’ambidue i campi i cavalier sfidaro.

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III.


Contenea la disfida: Un cavaliero,
     Per meritar l’amor d’una donzella
     Ch’ha sovra quante oggi n’ha il mondo impero
     28In esser valorosa, onesta e bella,
     Sfida a colpi di lancia ogni guerriero,
     Finchè l’un cada, e l’altro resti in sella.
     Dall’abbattuto sol lo scudo ei chiede,
     32E ’l suo darà se per fortuna cede.

IV.


Accettar la disfida i giostratori;
     E quinci e quindi ognun stè preparato
     Con pensier di dover co’ nuovi albori
     36Del già cadente sol trovarsi armato.
     Ma la notte avea appena i suoi colori
     Tolti alle cose, e ’l mondo attenebrato,
     Spiegando intorno il taciturno velo,
     40Ch’una tromba s’udì sonar dal cielo.

V.


Al fiero suon trecento schiere armarse
     Quinci e quindi, confuse e sbigottite;
     Quando nel fiume una gran nave apparse,
     44Che venia giù per l’onde intumidite;
     E tanti razzi e tanti fuochi sparse,
     Che tolse il vanto alla città di Dite.
     Nave parea; ma in arrivando al ponte,
     48Isola apparve, e la sua poppa un monte.

VI.


Orrido è il monte e di spezzati sassi,
     E signoreggia un praticello ameno
     Che lungo è intorno a centoventi passi,
     52E trenta di larghezza, o poco meno.
     La prora a combaciar col ponte vassi;
     E quivi una colonna al ciel sereno
     Fiamme spargea con sì mirabil arte,
     56Ch’illuminava intorno in ogni parte.

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VII.


Dalla colonna pende incatenato
     Un corno d’oro; e dice una scrittura
     Di ch’era il marmo lucido intagliato:
     60Suoni chi vuol provar l’alta ventura.
     Più in alto sovra il corno era attaccato
     Un ricco scudo in cui dalla scoltura
     Tolto era al puro argento il primo onore;
     64E scritto avea disopra: Al vincitore.

VIII.


Avea l’egregio artefice ritratto
     In esso la battaglia di Martano2
     Col Signor di Seleucia; e stupefatto
     68Parea tutto Damasco al caso strano.
     Sta Griffone in disparte accolto in atto
     D’uom di dolore e di vergogna insano:
     Ride la corte, Norandin si strugge;
     72Ma il buon Martan facea come chi fugge.

IX.


Era coperto il pian di verde erbetta,
     E la riva di mirti ombrata intorno.
     Smontar molti guerrier nell’isoletta,
     76Passeggiando il pratel di fiori adorno.
     Ma poichè la trovar tutta soletta,
     Trassero a gara alla colonna e al corno:
     E quivi infra di lor nacque contesa,
     80Chi dovesse primier tentar l’impresa.

X.


Giucaro al tocco; e sopra Galeotto
     Cadde la sorte, il giovinetto ardito.
     Quegli il bel corno d’or prese di botto,
     84E sonò sì, che ognun ne fu stordito.
     Tremò l’isola tutta, e tremò sotto
     Il letto e l’onda, e tremò intorno il lito:
     Sparve il foco ch’ardea, sparver le stelle,
     88E perdè il ciel le sue sembianze belle.

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XI.


E mentre ancor durava il gran tremore,
     Ricoperse ogni cosa un nuvol denso,
     E balenò improvviso, e allo splendore
     92Seguì uno scoppio orribile ed immenso,
     Che strignendo gli spirti e ’l sangue al core,
     Fe’ rimanere ognun privo di senso;
     E giù col tuono un fulmine discese,
     96Che percosse nel monte, e quel s’accese.

XII.


S’accese il monte, e tutto in fiamma viva
     Fu convertito in un girar di ciglio;
     E in mezzo della fiamma ecco appariva
     100Mirabilmente un padiglion vermiglio.
     Il nobil lin, di cui già tele ordiva
     L’antica età, d’incombustibil tiglio,
     Tal fra le pompe regie in Oríente
     104Fu visto rosseggiar nel foco ardente.

XIII.


Lasciò la fiamma il monte incenerito,
     E ’l ciel tornò seren com’era pria.
     E intanto fu di cento trombe udito
     108Un misto suon di guerra e d’armonia.
     Il lume ritornò, ch’era sparito,
     Sulla colonna; e ’l padiglion s’apria,
     E n’uscian cento paggi in bianca vesta,
     112Tutta di fiori d’or sparsa e contesta.

XIV.


Bruni i fanciulli avean le mani e ’l viso,
     E parean tutti in Etiopia nati.
     Un poeta gli avrebbe all’improvviso
     116Alle mosche nel latte assomigliati.
     Fuor di due porte il nero stuol diviso
     Uscì con torce accese; e in ambo i lati
     Si distinse con lunga e dritta schiera,
     120E lasciò vota in mezzo una carriera.

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XV.


Sull’altro capo intanto avea portato
     Copia di lance un provvido scudiero:
     E Galeotto era comparso armato
     124Con sopravvesta verde, armi e cimiero;
     Maneggiando un cavallo in Tracia nato,
     Da tre piedi balzan, di pelo ubero,3
     Che curvettando alzava dall’arena
     128Al tocco dello spron salti di schiena.

XVI.


Era ogni cosa in punto, e solamente
     Mancava il Cavalier della ventura;
     Quando iterar le trombe: e immantinente,
     132Uscì del padiglion sulla pianura.
     Di bianca sopravvesta e rilucente
     Di gemme, era vestito: e l’armatura
     Di puro argento avea, bianco il cimiero:
     136Ma nero più che corvo era il destriero.

XVII.


Alta avea la visiera, e giovinetto
     D’età di sedici anni esser parea:
     Biondo era e bello, e di gentile aspetto;
     140E grazia in lui quell’abito accrescea.
     Salutò intorno ognun con grato affetto;
     E ’l feroce destrier che sotto avea,
     Sull’orme fe’ danzar, che pria distinse
     144Col piè ferrato: indi la lancia strinse.

XVIII.


Abbassò la visiera, e attese intento,
     Che la canora tromba il moto accenne.
     Ed ecco suona; e come fiamma o vento,
     148L’uno di qua, l’altro di là sen venne.
     Scontrarsi a mezzo il campo, e rotte in cento
     Tronchi e scheggie volar le sode antenne:
     Gittò faville l’uno e l’altro elmetto,
     152E Galeotto uscì di sella netto.

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XIX.


Vago di contemplar vista sì bella,
     Stava l’un campo e l’altro in ripa al fiume,
     E le due Podestà sotto l’ombrella
     156Miravano la giostra al chiaro lume.
     Videro Galeotto uscir di sella,
     E vider l’altro con gentil costume
     Stendere al fren la generosa mano,
     160E tenergli il destrier che gía lontano.

XX.


Galeotto confuso e vergognoso,
     Lo scudo al vincitor partendo cesse,
     Nel cui lembo dorato e luminoso
     164Subito il nome suo scritto si lesse.
     Intanto un cavalier tutto pomposo
     D’azzurro e d’oro, una gran lancia eresse,
     E un leardo corsier di chioma nera
     168Spronò contra il Campion della riviera.

XXI.


Ruppe la lancia al sommo dello scudo,
     E fe’ i tronchi ronzar per l’aria scura:
     Ma fu colto da lui d’un colpo crudo
     172Che lo stese tra i fiori e la verdura.
     Cadde appena, che trasse il ferro ignudo,
     E volle vendicar sua ria ventura:
     Ma l’altro si ritrasse; ed ecco un vento,
     176E fu ogni lume intorno a un soffio spento,

XXII.


E tremò l’isoletta, e fiamma viva
     Vomitando, e tonando a un tempo fuore;
     Quindi un gigante orribile n’usciva,
     180Ch’alla terra ed al ciel mettea terrore.
     Questi al guerrier che contra lui veniva,
     S’avventò dispettoso, e con furore
     Lo ghermì come un pollo, e a spento lume
     184Lui col cavallo arrandellò nel fiume:

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XXIII.


Onde a fatica ei si salvò notando.
     Restò lo scudo, e ’n lui si lesse: Irneo.
     Allor di nuovo l’isola tremando
     188S’aperse, e ’l gran gigante in se chiudeo;
     E ’l chiaro lume ch’era gito in bando,
     Tornò alle torce spente, e l’accendeo.
     Tacque il tremito e ’l vento; e nuova giostra
     192Chiamando il cavalier, fe’ di se mostra.

XXIV.


Il terzo giostrator fu Valentino
     Che passeggiando venne un destrier sauro;4
     E ’l quarto il valoroso Giacopino
     196Sopra un ginnetto altier del lito mauro,
     Ch’avea ferrato il piè d’argento fino,
     E sella e fren di perle ornati e d’auro:
     Ma l’uno e l’altro uscì dell’isoletta
     200Senza lo scudo, e dileguossi in fretta.

XXV.5


Il quinto fu il signor di Livizzano;
     Ch’innamorato di Celinda altera,
     E per lei colto in fronte e messo al piano,
     204Ebbe a perir della percossa fiera.
     L’asta rotta si fesse, e ’l colpo strano
     Fe’ le schegge passar per la visiera:
     Ond’ei cadde trafitto il destro ciglio,
     208Dell’occhio e della vita a gran periglio.

XXVI.


Il Potta rivoltato a Zaccaria
     Che gli sedea vicin, disse: Messere,
     Quest’è certo un incanto e una malía:
     212Ognun quel cavalier farà cadere.
     Rispose il vecchio allor: Per vita mia
     Ch’a me l’istesso par; nè so vedere
     Che possan guadagnar questi briganti
     216A cozzar col Demonio e cogl’incanti:

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XXVII.


Però, se stesse a me, farei divieto
     Che nessuno de’ miei con lui giostrasse.
     Prese il Potta il consiglio, e fe’ un decreto
     220Che nell’isola alcun più non entrasse:
     E se ne stette poscia attento e cheto,
     Mirando ciò che l’inimico oprasse;
     E vide due, vestiti a bruno ed oro,
     224Appresentarsi co’ cavalli loro.

XXVIII.


L’un d’essi corse; e tocco appena fue,
     Ch’uscì di sella, e si distese al piano:
     E pur mostrava alle sembianze sue,
     228D’esser di core indomito e di mano.
     Secondò l’altro; e per la groppa in giue
     Restò cadendo al suo caval lontano.
     Risorse il primo, e a quel della riviera
     232Disse con voce e con sembianza altera:

XXIX.


Guerrier, se tu non sei per via d’incanto
     Prode coll’asta, or dell’arcion discendi,
     E colla spada che tu cigni accanto,
     236A trarmi, in cortesia, d’inganno imprendi.
     E s’hai timor di non turbar frattanto
     La giostra, a tuo piacer pugna e contendi:
     Purch’io ti provi un colpo o due col brando,
     240Ecco lo scudo, e più non t’addimando.
                                  

XXX.


Rispose il Cavalier dell’isoletta:
     A dismontar sarei forse obbligato
     S’a combatter per odio o per vendetta
     244Fossi venuto in questo campo armato.
     A giostrar venni, e solo Amor m’alletta;
     E ’l mio disegno a tutti ho palesato;
     Sicch’io non son tenuto a uscir di questa,
     248Per varìar tenzone a tua richiesta.

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XXXI.


Ma perchè non m’imputi a codardía
     Il rifiutar la prova della spada,
     Lasciami terminar l’impresa mia,
     252Poi ti risponderò come t’aggrada,
     Lo scudo, se ’l mi chiedi in cortesia,
     Io lo ti lascerò: per altra strada
     Non ti pensar di ritenerlo, o ch’io
     256A tuo voler sia per cangiar desio.

XXXII.


Il cangerai (soggiunse) al tuo dispetto
     L’altro guerrier, malvaggio incantatore.
     E del tronco dell’asta in sull’elmetto
     260Ferillo, e trasse a un tempo il brando fuore.
     Tremò l’isola al colpo e tremò il letto
     Del fiume, e sparve tosto ogni splendore:
     Balenò il cielo, e con orrendo scoppio
     264S’aprì la terra, e n’uscì un fumo doppio.

XXXIII.


Sfavillò il fumo; ed ecco immantinente
     Due tori uscir d’insolita figura,
     Che con occhi di foco, e fiato ardente,
     268Parean seccare i fiori e la verdura.
     S’uniro i due guerrier, tratte repente
     Le spade, e non mostrar di ciò paura.
     Vengono i tori; e l’uno e l’altro campo
     272Trema degli occhi al formidabil lampo.

XXXIV.


Il Cavalier dell’isoletta s’era
     Tratto in disparte a rimirar la guerra.
     Come saetta l’una e l’altra fera
     276Col biforcuto piè trita la terra.
     S’apre all’arrivo lor la coppia altera:
     Passa il corno incantato, e non gli afferra:
     Menano entrambi; e ’l taglio della spada
     280Par che su lana o molle piuma cada.

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XXXV.


Tornano i tori; e i cavalier rivolti
     Son loro incontro, e menano alla testa.
     Lampeggiaron le fronti ove fur colti;
     284Ma l’impeto e ’l furor per ciò non resta.
     I cavalier sul corno a forza tolti,
     Fur portati nel fiume a gran tempesta:
     Restar gli scudi, e scritti i nomi loro,
     288Perinto e Periteo, negli orli d’oro.

XXXVI.


Balzar nell’onda a precipizio i tori
     Coi cavalieri, e quivi uscir di vista.
     Si ravvivaro i soliti splendori,
     292Depose il ciel quella sembianza trista,
     L’isoletta cessò da’ suoi tremori,
     Lieta tornando, come prima, in vista;
     E ’l Cavalier che ritirato s’era,
     296Tornò a mettersi in capo alla carriera.

XXXVII.


E nuova giostra invano un pezzo attese,
     Ch’ognuno era confuso e spaventato;
     Finchè dal ponte un cavalier discese
     300Maneggiando un corsier falbo6 dorato,
     Che la briglia d’argento, e ’l ricco arnese
     Avea d’oro trapunto e ricamato.
     Questi in pensier di cambiar lancia venne;
     304E ne fe’ inchiesta, e la richiesta ottenne.

XXXVIII.


Diede il segno la tromba: e come vanno
     Per gli campi dell’aria i lampi ardenti,
     Ch’a terra e cielo e mar dar luogo fanno,
     308E portano con lor grandine e venti;
     Tal vannosi i guerrier, coll’aste ch’hanno
     Abbassate, a ferir gli elmi lucenti.
     Volar le schegge e le faville al cielo,
     312Nè vi fu cor che non sentisse gielo.

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XXXIX.


Cozzarono i destrier fronte con fronte;
     E quel del Cavalier dell’isoletta
     Lasciò col suo signor l’altro in un monte,
     316E via dritto passò come saetta.
     Tosto risorse il cavalier del ponte
     Bramando far del suo caval vendetta;
     E a nuova lancia il giostrator richiese:
     320Ed ei gli fu di ciò molto cortese.

XL.


Venne un altro corsier di pel roano,7
     E su montovvi il cavalier d’un salto.
     Sospese il fren colla sinistra mano
     324E collo sprone il fe’ guizzare in alto;
     E poichè si rimise in capo al piano
     Lo sospinse di corso al fiero assalto:
     Ma nell’incontro fu toccato appena,
     328Che si trovò rovescio in sull’arena.

XLI.


Levossi e disse: Ecco lo scudo mio;
     Ch’or veggio che se’ mago e incantatore,
     Nè teco vo’ nè col Demonio rio
     332Mettere in compromesso il mio valore.
     Forse avverrà ch’ancor tu paghi il fio
     Per altre mani, e con tuo poco onore,
     Del mal acquisto: or qui ti resta intanto
     336Col Diavolo ch’eletto hai per tuo santo.
                                  

XLII.


Dell’isola partissi in questo dire,
     E nello scudo suo Tognon fu letto.
     Dopo costui si vider comparire
     340Due cavalier di generoso aspetto,
     Che ’l giostratore andarono a ferire
     L’un dopo l’altro con sembiante effetto.
     Rupper le lance nell’argento terso,
     344E l’uno e l’altro si trovò riverso.

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XLIII.


Restar gli scudi, e Paolo e Sagramoro
     Negli orli impressi. Indi a giostrar si mosse,
     Sovra un corsier di pel tra bigio e moro,
     348Un cavalier con piume bianche e rosse,
     E sopravvesta di teletta d’oro,
     Ricamata a troncon di perle grosse,
     Ch’una mano di paggi intorno avea
     352Vestiti a superbissima livrea.

XLIV.


Questi era un cavalier non più nomato,
     Figlio d’un Romanesco ingannatore
     Che pria fu rigattier, poi s’era dato
     356In Campo Merlo a far l’agricoltore,
     E ’l grano e le misure avea falsato
     Tanto, che divenuto era signore;
     E per aggiugner gloria al figlio altiero,
     360Quivi dianzi il mandò per venturiero.

XLV.


Costui sen venia gonfio come un vento,
     Teso, ch’un pal di dietro aver parea.
     Fu conosciuto all’armi e al guernimento
     364E alla superba sua ricca livrea.
     Potrei rassomigliarlo a più di cento
     Di non forse inegual prosopopea;
     Ma toccherei un mal vecchio decrepito,
     368E la zerbineria farebbe strepito.

XLVI.


Ninfeggiò prima, e passeggiò pian piano;
     Poi maneggiò il destriero a terra a terra,
     Infinchè si ridusse in capo al piano,
     372Dove s’avea da incominciar la guerra.
     Ecco la tromba; ecco coll’asta in mano
     Vien l’uno e l’altro, e fa tremar la terra:
     Risonarono i lidi alle percosse,
     376Nè a quell’incontro alcun di lor si mosse.

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XLVII.


Fu il primo cavalier ch’in sella stette
     Contra il campion mantenitor, costui:
     E ben maravigliar fe’ più di sette,
     380Che non credean giammai questo di lui.
     Il Cavalier dell’isola ristette
     Pensoso un poco, e favellò co’ sui:
     Indi alle mosse ritornando, foro
     384Lance più sode appresentate loro.

XLVIII.


Ma come l’altre si fiaccaro, e fero
     Salire i tronchi a salutar le stelle.
     Piegossi l’uno e l’altro cavaliero,
     388E fur per traboccar giù delle selle.
     Perdè le staffe il Romanesco altiero,
     E vide l’armi sue gittar fiammelle;
     Ma rinfrancossi al suon ch’intorno udiva
     392Del nome suo da l’una e l’altra riva.

XLIX.


Come si gonfia all’Euro in un momento
     Il mar Tirreno, e sbalza e fortuneggia;
     Così il cor di costui si gonfia al vento
     396Del popolare applauso, e ne folleggia:
     Va tronfio e pettoruto, e bada intento
     Ai saluti, agli sguardi, e paoneggia;
     E fatta ch’ha di se pomposa mostra,
     400Nuova lancia richiede e nuova giostra.

L.


Fremean Perinto e Periteo di sdegno
     Che durasse costui tanto in arcione;
     Quando diede la tromba il terzo segno
     404Dalla parte che guarda il padiglione.
     Poser le lance i cavalieri a segno,
     E venner furìosi al paragone:
     Ma nell’elmo colpito il Romanesco,
     408Finalmente cadè sull’erba al fresco.

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LI.


Di terra si levò tutto arrabbiato;
     Trasse la spada, e sbudellò il destriero,
     Come fosse il meschin del suo peccato,
     412Della caduta sua l’autor primiero.
     Indi al guerrier dell’isola voltato:
     Ti sarà, disse, d’aspettar mestiero,
     Ch’uno scudo i’ ti dia d’altro lavoro;
     416Che questo i’ nol darei per un tesoro.
                                  

LII.


Sorrise il giostratore, e disse: Questo
     Teco giostrando ho vinto, e questo voglio.
     Il mio val più del tuo, nè saría onesto
     420Che ti volessi anch’io cambiare il foglio.
     Rispose il Romanesco: I’ ti protesto
     Che lo difenderò siccome i’ soglio.
     E tratto il brando, al solito costume
     424Si scosse il suol, ma non si spense il lume:

LIII.


E un asinello uscì, che due stivali
     Per orecchie, e una trippa avea per coda:
     Coll’orecchie feria colpi mortali;
     428E la coda inzuppata era di broda.
     Terribil voce avea, calci mortali;
     La pelle, d’un diamante era più soda:
     E semprechè ferir potea dappresso,
     432Balestrava col cul pallotte allesso.

LIV.


Parean polpette cotte nell’inchiostro,
     E appestavano un miglio di lontano.
     Titta di Cola s’affrontò col mostro,
     436Che tal nomossi il cavalier romano;
     E gli fu d’altro che di perle e d’ostro
     Ricamato il vestito a piena mano.
     Egli del brando a quella bestia mena,
     440Ma segna il pelo, ove lo coglie, appena.

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LV.


L’asino un par di calci gli appresenta,
     Indi mena la coda agile e presta:
     Apre a un tempo la canna, e lo sgomenta
     444Coi ragli che tremar fan la foresta.
     Sbatte l’orecchie, e di ferir non lenta
     Or le spalle, or i fianchi, ora la testa:
     Volta la poppa, e tuona, e all’improvviso
     448Fulmina, e a fresco gli dipinge il viso.

LVI.


Il buon Roman che la tempesta sente,
     Getta lo scudo: ed a fuggir si pone.
     Rise il Mantenitor dirottamente,
     452E tornò in sulle mosse al padiglione.
     Ma già la notte il carro all’occidente
     Volgea, nè compariva altro campione:
     Ond’ei si chiuse nella tenda: e ’ntanto
     456Dieron principio i galli al primo canto.

LVII.


Il dì seguente il giostrator si stette
     Nel padiglione, e non fe’ mostra alcuna.
     Ma poich’usciro i gufi e le civette
     460Su per gli tetti a salutar la luna;
     A suon di trombe con nuov’armi elette
     Anch’egli fe’ vedersi in veste bruna:
     Bruno il cimiero, e bruno il guarnimento,
     464Ma bianco era il destrier più che l’argento.

LVIII.


E i paggi che servian per candellieri,
     Dove dianzi parean della Guinea,
     Parean scesi dal cielo angeli veri;
     468E come i visi, ancor cangiar livrea.
     Tutti comparver con vestiti neri,
     In calze a tagli: onde a veder correa
     La gente ch’io cantai, che qui si tace,
     472A cui la torta col pan unto piace.

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LIX.


E ’l giovine Averardo il qual non s’era
     Fin allor visto appresentarsi in mostra,
     Fu il primo a comparir sulla riviera,
     476E ’l primo a uscir di sella in quella giostra.
     Diede lo scudo, e alzossi la visiera,
     E si fermò nella fiorita chiostra
     A ragionar co’ paggi, e a fare inchiesta
     480Del nome del guerriero, e di sua gesta.

LX.


Da molti lumi intanto accompagnata,
     Dell’isola era uscita una donzella
     In abito stranier candido ornata,
     484E di maniere accorte, e ’n viso bella:
     E venne ove Renoppia era attendata,
     Con due scudieri, e con due paggi in sella;
     E gli acquistati scudi appresentolle;
     488E in nome del guerrier poscia narrolle,

LXI.


Che la fama l’avea del suo valore
     Quel dì ch’armata in sulla riva corse,
     E l’esercito ostil già vincitore
     492Sostenne, e mise la vittoria in forse,
     Quivi condotto a far sol per suo amore
     La bella giostra, e in avventura a porse:
     Onde chiedea che non s’avesse a sdegno
     496Che gli scaldasse il cor foco sì degno.

LXII.


Vergognosa Renoppia e sdegnosetta:
     Ruffianella mia, disse, all’aria, ai venti
     Meco il vostro guerrier l’arti sue getta;
     500Ch’io non fui vaga mai d’incantamenti.
     Ma voi che siete bella e giovinetta,
     E che con lui vi state a lumi spenti,
     Perchè lasciate voi che i premi vostri
     504V’escan di mano, e che per altra giostri?

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LXIII.


Serva son io, rispose la donzella,
     E troppo per me fora alta mercede:
     Possiede il mio signor terre e castella,
     508Nè inchinerebbe alla mia sorte il piede.
     Renoppia allora, astuta come bella:
     Se questo è, soggiugnea, fategli fede
     Ch’io mi chiamo ubbligata a quel valore
     512Che mostra colla lancia in farmi onore.

LXIV.


E sebben forse avrei più caro avuto
     Ch’in soccorso de’ nostri a vero marte
     Coll’armi, per mio amor, fosse venuto
     516Senza apparecchio alcun di magic’ arte;
     Pur l’affetto gradisco, e lo saluto;
     E questa gli darete da mia parte.
     E di seno, a quel dir, senza intervallo
     520Si trasse una crocetta di cristallo,

LXV.


Dov’era un dente di san Gemignano,
     E papa Onorio l’avea benedetta;
     E finse porla alla donzella in mano,
     524Che la desse al Guerrier dell’isoletta:
     Ma quella sparve come un sogno vano,
     Al subito toccar della crocetta;
     E sparvero con lei paggi e scudieri,
     528E rimasero sol gli scudi veri.

LXVI.


Lesse i nomi Renoppia; e quelli rese,
     Ch’esser trovò de’ cavalieri amici;
     Gli altri di ritener consiglio prese
     532Come spoglie e trofei de’ suoi nemici.
     Intanto il giostrator seguia sue imprese
     Con gli usati successi ognor felici;
     Quand’un guerriero ignoto in veste gialla
     536Al ponte capitò su una cavalla.

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LXVII.


La lancia lunga più d’ogn’altra avea
     Due palmi, e una pantera in sull’elmetto:
     Ma sospeso venia sì, che parea
     540Ch’andasse a quell’impresa al suo dispetto.
     Sonar le trombe, e ’l suon che gli altri fea
     Dentro brillar, fa in lui contrario effetto.
     Corre; ma sembra ai timidi atti fore,
     544Portato dal destrier, non già dal core.

LXVIII.


Pur si ristrigne negli arcioni, e abbassa
     La lancia in sulla resta, e gli occhi serra
     In arrivando, e i denti strigne, e passa
     548Come chi va sol per vergogna in guerra:
     E a quell’incontro l’inimico lassa,
     Con maraviglia de’ due campi, in terra.
     Allor tutta s’udì quella riviera
     552Gridar: Viva il campion della pantera.
                                  

LXIX.


Ed ei, maravigliando, al suon rivolto,
     Vide l’emulo suo giacer disteso:
     Onde di se per allegrezza tolto,
     556Fermossi a riguardar tutto sospeso.
     Ma l’abbattuto, all’infiammato volto
     Mostrando il cor di fiero sdegno acceso;
     Ratto risorse, e con un piè percosse
     560La terra; e ’ntorno il pian tutto si scosse,

LXX.


E s’estinsero i lumi, e ’l padiglione
     Sparve fra tuoni e lampi in un baleno,
     E l’isoletta diventò un barcone
     564Colmo di stabbio, di fascine e fieno.
     Nè rimasero in esso altre persone,
     Di tante onde pur dianzi era ripieno,
     Che ’l cavalier vittorìoso, e un nano
     568Ch’avea uno scudo e una lanterna in mano.

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LXXI.


E lo scudo porgendo al cavaliere:
     Questo è il premio, dicea, del vincitore,
     Tratto dalla colonna, e in tuo potere
     572Lasciato al dipartir dal mio signore
     Che per ragion di cortesia ti chere,
     Che come l’hai dell’alto tuo valore,
     Così ti piaccia ancor farlo avvisato
     576Del nome e della patria onde se’ nato.
                                  

LXXII.


Ringalluzzossi il cavaliero, e al nano
     Rispose: Al tuo signor riferir puoi,
     Che la mia stirpe vien dal lito ispano,
     580Ed è famosa oltre i confini eoi.
     Quel don Chisotto in armi sì sovrano,
     Principe degli erranti e degli eroi,
     Generò di straniera inclita madre
     584Don Flegetonte il Bel che fu mio padre.

LXXIII.


Questi in Italia poscia ebbe domíno,
     E si fe’ in ogni parte memorando:
     Solo alla gloria sua mancò Turpino
     588Che scrivesse di lui, come d’Orlando.
     Eroe non l’agguagliò nè paladino,
     E sol cedè al valor di questo brando.
     E perchè cosa occulta non rimagna,
     592Digli ch’io sono il Conte di Culagna.

LXXIV.


Ma poich’ho soddisfatto al tuo desio
     E t’ho dato di me notizia intera,
     Resta ch’ancor tu soddisfaccia al mio
     596In dirmi il nome e la sua stirpe vera.
     Rispose il nano: Informerotti anch’io
     Di quel che brami: usciam della riviera;
     Che tanti cavalier che colà vedi,
     600Bramano anch’essi quel che tu mi chiedi.

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LXXV.


Giunser del fiume in sulla destra sponda
     Dove molti guerrier facean soggiorno,
     Che subito che ’l nano uscì dell’onda,
     604Gli furon tutti a interrogarlo intorno.
     Egli che lingua avea pronta e faconda,
     Fermando il piede: A voi disse ritorno
     Per soddisfare alla comune voglia:
     608State or a udir, nè alcun di me si doglia.

LXXVI.


Poichè della città cacciati foro
     Gli Aigoni dal furor de’ Ghibellini,8
     E ’l Conte di Vallestra capo loro
     612Uscì cogli altri anch’ei fuor de’ confini;
     Trovò per arte magica un tesoro,
     E fe’ ne’ monti al suo castel vicini
     Una grotta incantata, ove gran parte
     616Del tempo stassi esercitando l’arte.

LXXVII.


Quivi un figliuol di tenerella etate,
     Ch’unico egli ha, detto Melindo, ei tiene;
     Le cui maniere nobili e lodate
     620Destan nel vecchio padre amore e spene.
     Questi uditi i costumi e la beltate
     E ’l valor che mostrò su queste arene
     Una Donzella in questo proprio loco,
     624Arse per lei d’inestinguibil foco:

LXXVIII.


E con prieghi e sospir dal padre ottenne
     Di comparire a far qui di se mostra;
     Onde sull’isoletta in campo venne
     628Armato a mantener la bella giostra.
     Ma il timoroso vecchio a cui sovvenne
     L’età ineguale alla possanza vostra,
     Fece un incanto, ch’esser perditore
     632Per forza non potea nè per valore.

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LXXIX.


Fu l’incanto ch’ei fe’ con tal riguardo,
     Che non potea cader Melindo a terra,
     Se non venía un guerrier tanto codardo,
     636Che non trovasse paragone in terra:
     E quanto più l’incontro era gagliardo,
     Tanto meglio il fanciul vincea la guerra;
     Come il ferir del fulmine, che spezza
     640Con più furor dov’è maggior durezza.

LXXX.


L’aste, il cavallo, e l’armi onde guernito
     Era il fanciul, tutte incantate avea;
     E chi traea la spada, era spedito,
     644Che dell’isola a forza uscir dovea.
     Il cambiar lancia era miglior partito:
     Ma non per questo il cavalier vincea
     Se non era di forza e di valore
     648Più d’ogni altro a Melindo inferìore.

LXXXI.


Qui tacque il nano; e ’n giubbilo fu volto
     Degli abbattuti il malconcetto sdegno.
     Ma il Conte di Culagna increspò il volto;
     652E ritirando il passo, e d’ira pregno,
     Trasse la spada, e a quel piccin rivolto,
     Che di timore alcun non facea segno:
     Tu menti disse, menzogner villano,
     656E te lo manterrò con questa in mano.

LXXXII.


Tu vorresti macchiar la mia vittoria;
     Ma non la macchierai, brutto scrignuto,
     Che già nota pertutto è la mia gloria,
     660Nè scusa ha il tuo signor vinto e abbattuto.
     Non volle il nano entrar seco in istoria;
     Ma fatto a que’ signori umil saluto,
     Al Conte che seguiva il suo costume,
     664Rispose, Buona notte; e spense il lume.

Note

  1. [p. 278 modifica]Questo Canto pare avere poco del comico, e non di meno tutto è comico; ma ciò viene dall’artificio usato dal Poeta in tener sospeso l’uditore sino al fine, dove poi in aspettazione di cosa grave e seria finisce in un ridicolo. Salviani.
  2. [p. 278 modifica]Martano fu un codardissimo guerriero, intorno a cui leggasi l’Ariosto C. 17. st. 86.
  3. [p. 278 modifica]Il cavallo di pelo ubero è mascherato di bianco nel capo: nella vita ha alcuni peli di colore stornello, per altro tutto il resto è leardo.
  4. [p. 278 modifica]Sauro, aggiunto che si dà a mantello di cavallo colore tra bigio e tanè.
  5. [p. 278 modifica]Questo fu accidente vero, accaduto al Signor Ippolito Livizzani nel giostrare contra il conte Alfonso Molza in Modena. Salviani.
  6. [p. 278 modifica]Falbo, colore di mantello di cavallo giallo scuro. Lat. Fulvus.
  7. [p. 278 modifica]Roano, mantello di cavallo rosseggiante, o rabicano, cioè di pelo misto di due colori tendenti al rosso, l’un chiaro o l’altro scuro.
  8. [p. 278 modifica]Gli Aigoni, ed i Grisolfi erano in quel tempo capi delle fazioni della città di Modena. I Grisolfi erano imperiali, e avevano cacciati gli Aigoni, ch’erano ecclesiastici e guelfi. . . . Salviani.