La bella selvaggia/Atto II

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Atto II

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Atto I Atto III

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ATTO SECONDO.

SCENA PRIMA.

Stanza addobbata.

Rosina e Schichirat.

Rosina. Avanzati 1, il mio caro amabile selvaggio.

Sei così spiritoso, e or mancati il coraggio?
Di che cosa hai timore? Vien meco in compagnia.
Vo’ che stiam da noi soli.
Schichirat.   Non so dove mi sia.
Questo luogo coperto, da noi non usitato,
Credo per arte magica dai diavoli formato.
Rosina. Certo i diavoli nostri coll’arte e coll’ingegno

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Han fatta prestamente questa casa di legno.

E il nome dei demoni se risaper tu brami.
Altri fabbri si chiamano, ed altri falegnami.
Schichirat. Dunque, per quel ch’io sento, siete stregoni.
Rosina.   Stolto,
Tu sei nato alle selve, nell’ignoranza involto.
Teco scherzar intesi nel dir che opere tali
Sono per noi costrutte dai spiriti infernali.
Noi abbiam nelle navi le tavole portate:
Uomini come voi le stanze han fabbricate.
Poi coll’andar del tempo vedransi in questo loco
Gli alberghi colle pietre formare a poco a poco.
Le tavole non vedi dai mobili adornate?
Quelle si chiaman sedie per riposarci usate.
Quadri, specchi, comici son tutti adornamenti,
Che soglion per diletto usar le nostre genti.
Gli artefici fra noi fan tutti il lor dovere.
Tu pur, se vuoi mangiare, farai qualche mestiere.
Zadir. Che mestier vuoi ch’io faccia, se non ne sono usato?
Finor senza far nulla, benissimo ho mangiato.
L’erbe, i frutti, le piante son le delizie mie:
Mangiar io non mi curo le vostre porcherie.
Mi piacciono le carni fresche di bel colore,
Voi le mettete al foco a perdere il sapore.
Solamente una cosa da noi non praticata:
Piacemi estremamente e parmi delicata.
Quel che vino chiamate. Ieri ne ho tracannato 2
Quattro vasi ricolmi, e poi mi ho addormentato.
Che bel piacer quand’uno qualche dolor si sente,
Colla bevanda in corpo dormir sì dolcemente!
Non ho provato al mondo più amabile diletto.
Il vin rallegra i spiriti, il vin riscalda il petto.
Se altro voi non aveste di buon che il solo vino.
Sol per questa cagione vi venero e v’inchino.

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Sì, starei volentieri coi schiavi alla catena.

Purché mi permettessero di bere a pancia piena;
E anche mi adatterei3 a far qualche mestiere,
Se il vino in abbondanza mi dessero da bere.
Rosina. Tanto ti piace il vino?
Schichirat.   E a chi non piaceria?
Cosa di lui migliore non ebbi in vita mia.
Rosina. E le donne Europee, di’, ti piaccion niente?
Schichirat. Mi piacciono le donne così, passabilmente.
Ma il vino è una gran cosa.
Rosina.   Avvezzi gli occhi tuoi
Alle donne selvaggie, cosa ti par di noi?
Schichirat. Mi par, se devo dirti la pura verità,
Che in voi delli’artifizio vi sia nella beltà.
Come si può conoscere il bel che fè natura,
Se ciascheduna il vero di mascherar procura 4?
Noi le femmine nostre veggiam come son nate,
Non son per comparire da tante cose ornate.
Sogliono, come sono, andar per le campagne;
Si vedono i difetti5, si scopron le magagne.
E fra noi non succede che trovisi il marito,
Invece di una donna, un scheletro vestito.
Rosina. Veramente da sciocco sono i discorsi tuoi.
Schichirat. Rosina, io non ho inteso di favellar per voi.
Rosina. Tu non conosci il merito di femmina Europea.
Per far che lo conosci, vo’ dartene un’idea.
Una beltà negletta da noi poco s’apprezza;
La grazia è il condimento miglior della bellezza.
La carne senza spirito suol invaghire i sciocchi,
I cuori delicati s’incantano cogli occhi.
Un sguardo vezzosetto, un semplice sorriso
Val più di quelle rose che adornano un bel viso.
Che vali donna polputa, qualora non vi sia
Nelle candide membra buon garbo e leggiadria?

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Che importa di rubino mirar vermiglia bocca.

Se odesi, quando parla, a ragionar da sciocca?
Due parole vezzose, due regolati accenti
Nei cuori innamorati producono portenti.
Nel volto di una donna la semplice beltà,
Perduto il primo fiore, smarrisce coll’età.
La grazia può supplire al solito difetto;
La grazia è il dolce incanto che tiene un cor soggetto.
E in virtù della grazia, di cui la donna è piena,
Gli uomini son da lei tenuti alla catena.
Schichirat. Le femmine in Europa, se ancor beltà non hanno.
Amare ed obbedire6 dagli uomini si fanno?
Rosina. Donne talor si vedono orride al mondo nate;
E pur sono servite, e pur sono adorate.
Perchè? perchè se in dono altra beltà non c’è,
Supplisce alla bellezza quel certo non so che:
Quell’arte di sapersi a tempo regolare;
Pregar, s’è necessario; quando convien, pregare;
Sdegnarsi quando è tempo, far pace quando giova,
Conoscere gli amanti, e metterli alla prova.
Le belle senza spirito sono bellezze morte;
Quelle fra noi s’apprezzano, che son vezzose e accorte.
Schichirat. Questo vostro discorso parmi una bella cosa,
Se avrò da innamorarmi, cercherò una vezzosa.
Rosina. Ma no con questa barba.
Schichirat.   No? perchè?
Rosina.   Perchè i volti
Noi non vogliam vedere da queste barbe involti.
Schichirat. Oh in quanto a questo poi, lo dico ed ho fissato:
Son nato colla barba e vo’ morir barbato.
Rosina. E se donna vezzosa più assai di quel ch’io sono.
Questa bella barbetta vi domandasse in dono?
Schichirat. Con tutti i vezzi suoi, io le risponderei,
Che questa mia barbetta la stimo più di lei.

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Rosina. Senza di quella barba sareste pur bellino!

Schichirat. Non la darei nemmeno per un boccal di vino.
Rosina. Come! più della donna il vin da voi si apprezza?
Schichirat. Sì, signora, lo stimo più assai della bellezza.
Rosina. Ma non più dello spirito.
Schichirat.   Più dello spirto ancora.
Quel che mi dà piacere, è quel che m’innamora.
Lo spirto della donna può farmi spiritare,
Lo spirito del vino il cuor fa giubbilare.
E invece di godere uno spirto 7 vezzoso,
Godo d’essere io stesso brillante e spiritoso.
Rosina. Via, posso far io stessa che di vin vi saziate,
Ma vo’ che per mercede la barba vi tagliate.
Schichirat. Povera la mia barba! cosa di mal vi ha fatto?
Perchè ho da comparire deforme8 e contraffatto?
Rosina. Che sì, che ve la taglio?
Schichirat.   Se siete inviperita,
Piuttosto che la barba, toglietemi la vita.
Povero Schichirat!
Rosina.   Chi è Schichirat?
Schichirat.   Son io.
Rosina. È questo il vostro nome?
Schichirat.   È questo il nome mio.
Se il nome non vi piace, cambiarlo si potrà.
Ma tagliarmi la barba? ah no, per carità.
Rosina. Caro il mio Schichirat, non temete niente.
Di ciò ne parleremo; andate, che vien gente.
Schichirat. Rosina, se volete darmi di vino un vaso,
Lascio che mi tagliate l’orecchie, un dito, il naso.
Cercherò in ogni cosa di rendervi appagata:
Ma la povera barba vi sia raccomandata. parte

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SCENA II.

Rosina sola.

L’unico mio diletto è il cercar d’ottenere

Quello che di concedere taluno ha dispiacere.
Costui che della barba mostra tanto diletto.
Voglio che se la veda tagliata a suo dispetto.
Non li posso vedere questi uomini barbati.
I giovani mi piacciono e politi e lisciati.
Costui non mi dispiace, parmi bellino in faccia.
Ma il viso gli deforma quell’orrida barbaccia.
Tagliandogli la barba, veder vo’ se m’inganno.
S’egli se ne ha per male, se se ne duol, suo danno.

SCENA III.

Delmira e detta.

Delmira. Donna, a te don Alonso per bocca mia comanda,

Ch’entrare si conceda a ognun che mi domanda;
Ai congiunti 9, agli amici, sopra della mia fede
Dal cavalier gentile parlar mi si concede.
Rosina. Donna, a te si comanda! che favellare è questo?
Vi han fatto queste vesti insuperbir sì presto?
Donna a me? son fanciulla. Col tu non si ragiona.
Ho in governo la casa, e son quasi padrona.
Delmira. Il tu famigliarmente costumasi fra noi;
Se di ciò vi offendete, vi parlerò col voi.
Rosina. Via, del voi mi contento; però non crederei,
Che faceste fatica adoperando il lei.
Delmira. Amica, in queste selve, dove sortii la culla.
Questi titoli vani si reputan per nulla.
Non sta nelle parole la stima ed il rispetto.

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Si onora internamente colui che ha più concetto.

Labbro potria talora usar più riverenza,
E il cuor non corrispondere del labbro all’apparenza.
Vidi talun dei vostri chinarsi al principale,
Poi l’intesi in disparte del suo signor dir male.
Questo da noi non s’usa. Si parla schiettamente.
Il tu con amicizia ci diam scambievolmente.
I vecchi che rispetto esigono 10 ancor più.
Dai giovani soggetti si veneran col tu.
Anche il Sole medesimo che fra di noi si adora,
Col tu da noi s’invoca, col tu da noi si onora.
Se il termine comune non sa sdegnare il nume,
Le pretension dei titoli è superbo costume.
Rosina. Del tu che voi mi deste, non me ne avrei per male,
Se fosse fra di noi costume universale.
Ma le donne in Europa costumano altrimenti,
Anche colle più vili si fanno i complimenti.
Vedrete una pezzente che per mangiar lavora,
Domanda la limosina, e vuol della signora.
Ed io che di tant’altre merito ancora più.
Giudicate s’io voglio che mi si dia del tu.
Delmira. Bene; per l’avvenire saprò i doveri miei,
Vi parlerò col voi.
Rosina.   Ma perchè non col lei?
Delmira. Col lei, come volete.
Rosina.   Si dice, come vuole.
Delmira. Apprenderò col tempo lo stil delle parole.
Perdon chiedo per ora al mio costume usato.
Rosina. Sì, Delmira carissima, per me vi ho perdonato.
Bastami che sappiate quel che mi si conviene.
Usatemi rispetto, ed io vi vorrò bene.
Schiava siete voi pure, meco servir dovete;
E le vostre incombenze da me riceverete.

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Delmira. Io servir?

Rosina.   Voi servire. Oh sì, che questa è buona!
Pensate di venire a farla da padrona?
Le catene dal piede perchè vi hanno levate?
Perchè sotto di me servite e lavorate.
Delmira, vi consiglio aver meno baldanza.
A voi di ripulire consegno questa stanza.
Fatevi ben volere. Addio, vado e ritorno.
Non sapete nemmeno risalutar?
Delmira.   Buon giorno.
Rosina. Buon giorno a una mia pari? Selvaggia ignorantissima,
Così dovete dire: le son serva umilissima. parte

SCENA IV.

Delmira, poi Don Ximene.

Delmira. Sventurata Delmira! I a ciò sarò soggetta?

Io che libera nacqui, son a servir costretta?
Ma così don Alonso non favellommi altero;
Dal di lui cor gentile sorte migliore io spero.
Tanto pietoso è meco... Partiti sentir... chi viene?
Fosse almen don Alonso. Ah no, ch’è don Ximene.
D. Ximene. Delmira, in queste spoglie più vago è il vostro aspetto.
Crescendo in voi bellezza, in me cresce l’affetto.
Schiava vi fè la sorte con barbaro rigore,
Schiavo di voi mi rese il faretrato11 amore.
E la pietà che usare con voi seppe il cor mio,
Da un animo gentile voglio sperare anch’io.
Delmira. Signor, qual è l’uffizio, a cui son destinata?
D. Ximene. Ad esser riverita, ad essere onorata.
Ordine avranno i servi di rispettar voi sola.
Voi comandar potete; vi do la mia parola.
Delmira. L’autorità, il comando, non pretendo arrogarmi;

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Bastami che le donne non vengano a insultarmi.

E che se agli occhi loro sembro incolta e mal saggia,
Perdonino i diletti di femmina selvaggia.
D. Ximene. Come! chi fia l’ardita, che perdevi il rispetto?
Svelate il di lei nome; la punirò, il prometto.
Delmira. Non semino discordie. Tacer mi permettete?
D. Ximene. Vo’ saper chi v’insulta.
Delmira.   Da me non lo saprete.
D. Ximene. Sì, la vostra ripulsa mi piace e non mi offende.
La pietà, la prudenza, più amabile vi rende.
Se docile cotanto siete con chi vi offese,
Qual sarete pietosa per chi di voi si accese?
Delmira. Ah sì, la mia pietade, il mio tenero affetto
Serbo a quel che d‘ amore per me s’accese in petto.
E ad onta della sorte più barbara e spietata,
Non sarò, ve lo giuro, con chi mi adora, ingrata.
D. Ximene. Chi di me più felice, se voi mi assicurate,
Bella, dell’amor vostro?
Delmira.   No, signor, v’ingannate.
Quel che mi ama è Zadir. Ebbe Zadir mia fede;
A lui serba il mio cuore giustissima mercede.
Chi tenta d’involargli il mio cuor, la mia mano.
Franca ve lo protesto, meco lo tenta invano.
D. Ximene. Donna così mi parla da me beneficata?
Delmira a chi l’adora, così risponde ingrata?
Io che dal piè vi trassi di servitude il laccio,
Di un barbaro selvaggio dovrò vedervi in braccio?
Delmira. Voi, signor, mi rendeste libera quale or sono?
Non fu di don Alonso tal benefizio un dono?
D. Ximene. Ei da sè non comanda; meco all’impresa unito,
L’arbitrio ed il potere abbiam fra noi partito.
E quando io vi volessi soggetta al mio potere,
Non ardirebbe Alonso di opporsi al mio volere.
Delmira. Spero da voi non meno quella pietade istessa
Che mi ha il compagno vostro col suo favor promessa.

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D. Ximene. Lo so che don Alonso arde per voi non meno,

Ma invano egli contrasta la pace a questo seno.
Voi foste una mia preda, siete una schiava, e voglio
L’amor vostro in tributo.
Delmira.   Amor non usa orgoglio.
Se mi amaste davvero, meco sareste umano.
Se una passion vi accieca, voi la nutrite invano.
Saprò morir piuttosto che cedere vilmente
A un desio forsennato che insulta un’innocente.
D. Ximene. La ripulsa il mio foco non scema e non ammorza;
Posso con una schiava, posso adoprar la forza.
Cedere tuo malgrado all’amor mio dovrai.
Delmira. Morir voi mi vedrete, ma cedere non mai.
D. Ximene. Servi, ai lacci primieri torni quel cuor ingrato.
(alla voce di don Ximene escono i Servi

SCENA V.

Don Alonso e detti.

D. Alonso. Sul cor della fanciulla chi tal poter vi ha dato?

D. Ximene. È mia schiava Delmira.
D. Alonso.   L’avvinse il braccio mio
Egualmente che il vostro. Son suo signore anch’io.
D. Ximene. Si dividan le prede. Delmira io sol pretendo.
D. Alonso. Non s’insulti Delmira; io l’onor suo difendo.
D. Ximene. Voi l’amate.
D. Alonso.   Nol nego.
D. Ximene.   Qual dritto in voi maggiore
Collocò la ragione per disputar quel core?
D. Alonso. Don Ximene, cessate da una passione insana.
Donn’Alba è vostra sposa, donn’Alba è mia germana.
Del nodo a lei promesso mantenitor son io,
Nè soffrirò che insulto si faccia al sangue mio.
Delmira. Ah signor, quale affetto per me vi accende il core?

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Queste massime indegne m’ingombrano d’orrore.

Per pietà, don Alonso, salvate il mio decoro.
(a don Alonso
Da un’anima bennata la mia salvezza imploro.
D. Alonso. Sull’onor mio fidate; non soffrirete oltraggio.
Mio nemico si rende chi serba un cor malvaggio.
D. Ximene. Se di me v’intendete, con voi saprò spiegarmi;
La vostra inimicizia non giunge a spaventarmi.
Di rendervi risposta questo non parmi il loco.
Ci rivedrem, signore, ci rivedrem fra poco. parte

SCENA VI.

Delmira e Don Alonso; poi Piccarino.

Delmira. Per me non vi esponete a quella destra ardita.

Toglietemi piuttosto, toglietemi la vita.
Se la cagion funesta son io dei vostri sdegni,
Cessin col sangue mio del perfido i disegni.
D. Alonso. No, di lui non pavento. Fummo compagni, è vero;
Ma in mio potere ho il modo di moderar l’altero.
Bastami un cenno solo per castigar l’insano.
Il supremo comando, quand’io lo voglia, ho in mano.
L’obbligo che mi corre in ver le vostre genti,
Vuole che la mia vita per or non si cimenti.
Se là donde partimmo, vuol il destin ch’io vada,
Rispondere agl’insulti saprò colla mia spada;
E i torti alla germana ch’esser dee sua consorte,
Dovrà quel mancatore pagar colla sua morte.
Bella, non vi affliggete, rasserenate il core:
Voi avete in Alonso il vostro difensore.
Delmira. A voi mi raccomando, in voi solo confido.
Piccarino. Signor, giunta è una nave non lungi a questo lido,
Carca di provvigioni12; col palischermo a noi

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Giunsero i marinari, e cercano di voi.

Dal Brasile spedita viene la nave espressa;
E dicon che donn’Alba sia nella nave anch’essa.
D. Alonso. Donn’Alba mia germana?
Piccarino.   Lo disse il marinaro.
D. Alonso. Ai pericoli vostri ecco un novel riparo. (a Delmira
Spronata dall’amore vien la germana amante;
Cangierà stil Ximene alla sua sposa innante.
Vadasi ad incontrarla. Bella, restate in pace.
Vi amo anch’io, lo confesso; ma non vi parlo audace.
Della virtude vostra estimatore io sono.
Spero pietade un giorno, ma vo’ sperarla in dono. parte

SCENA VII.

Delmira, poi Zadir.

Delmira. Questi son quei stranieri, questi son gli Europei,

Che da noi si credevano eroi e semidei?
Alle passioni istesse qual noi sen van soggetti.
Hanno le lor virtudi, ed hanno i lor difetti.
Don Alonso è pietoso, ingiusto è don Ximene.
Un merita rispetto, l’altro sfuggir conviene.
Anche tra noi ritrovasi chi l’animo ha gentile,
Chi è rozzo di costume, chi è barbaro, chi è vile.
Onde convien decidere, che il mio paese anch’esso
Colle incognite terre abbia un principio istesso;
E che un spirto medesmo, d’alma ragion fecondo.
Animi in ogni parte i popoli del mondo. siede
Ma che poss’io sperare fra due nemici irati?
Saranno i miei disegni felici o sfortunati?
Ancor del padre mio non ho mirato il viso.
Più di Zadir non seppi dopo il primiero avviso.
Bramo di rivederli. Di lor nel mio periglio
Consolar mi potrebbe l’aiuto ed il consiglio.

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Zadir. Donna colà si asside superba in ricche spoglie,

Sarà donna Europea, padrona in queste soglie.
Sì, se la mia Delmira gli empi mi hanno involata,
Vo’ fare una vendetta. Colei cada svenata.
(Corre con un dardo per uccidere Delmira, e conoscendola si
arresta.

Delmira. Ah Zadir! s’alza
Zadir. Ah Delmira, tu con tai vesti indegne?
Tu d’infedel cingesti le vergognose insegne?
Ah sì, da quelle spoglie conosco a mio rossore,
Perfida, che hai macchiato di fellonia il tuo core.
Svenare una nemica volea con mano ardita,
E in te di una nemica vo’ togliere la vita.
(si avventa col dardo
Delmira. Fermati. Ah non ravvisi, dal tuo furor spronato,
Che sei per ogni parte dall’armi circondato?
Che ti giova il mio sangue versar da queste vene.
Se il colpo ti prepara la morte e le catene?
Zadir. Vengano le catene, venga la morte ancora,
Disprezzo ogni periglio, purché tu cada e mora.
Delmira. Barbaro, in che ti offesi? credi alle mie parole;
Fida ti sono, e invoco per testimonio il sole.
Ai numi della patria serbo il natio rispetto,
A Zadir che m’adora, riserbo il primo affetto.
Venero il padre mio. Fra queste spoglie invano
Tentasi la mia fede; ho il cuore Americano.
Zadir. Perchè le natie vesti cambiar colle straniere?
Delmira. L’obbedire in sì poco mi parve mio dovere.
Schiava degl’inimici, soggetta in queste soglie,
Potev’io compiacergli in men che nelle spoglie?
Se in libertà mi lasciano gli affetti miei primieri,
Le vesti che ho cambiate non cambiano i pensieri.
Serbo la mia innocenza, serbo la mia virtù,
Sono del cuor padrona, son tua: che vuoi di più?
Zadir. Vieni meco.

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Delmira.   A qual fine?

Zadir.   Gli adornamenti insani
Ti vuo’ levar; li voglio stracciar colle mie mani.
Così sbranar potessi quegli empi ad uno ad uno,
E dei perfidi in vita non rimanesse alcuno.
Delmira. Tanto furor? tant’ira? Deh ti rammenta alfine
Che agli oppressor fu imposto dalla pietà il confine.
La libertà che or godi, de’ tuoi nemici è un dono.
Per la clemenza usata libera teco io sono.
Merta la lor virtude che anche da noi lo sdegno
Veggasi alfin calmato.
Zadir.   Chiudi quel labbro indegno.
Veggo che i rei nemici per vanitade onori.
Perfida sei, spergiura. Paga la pena, e mori. (vuole ucciderla
Delmira. Soccorso.

SCENA VIII.

Camur e delti.

Camur.   Olà, spietato, dall’infierir t’arresta.

Qual furor ti trasporta? qual empietade è questa?
Contro la cara figlia perchè il tuo braccio è armato?
Ah! Delmira, il tuo cuore hai di viltà macchiato?
Zadir. Chiedilo a quelle spoglie.
Delmira.   No, padre mio, lo giuro.
Il cuor fra queste spoglie serbo illibato e puro.
Zadir. Non lo creder.
Camur.   Ti accheta. (a Zadir
Zadir.   Perchè in straniero arnese?
Delmira. Per compiacere in questo chi libertà mi rese.
Zadir. Menzognera!
Camur.   Ti accheta, (a Z.) D’amor ti han ragionato?
Delmira. Posso dar questa mano a chi la fede ho dato.
Zadir. Dammela.
Camur.   Vuoi tacere? Figlia, tu se’ in periglio.

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Queste insidiose vesti spogliare io ti consiglio.

Delmira. Ah signor....
Zadir.   Non lo vedi? cela i pensieri audaci.
Camur. Vo’ parlar con mia figlia. Vattene tosto, e taci.
Zadir. La mia ragion...
Camur.   Rispettami.
Zadir.   È un’infedele...
Camur.   Audace!
Zadir. Taccio per obbedirti, ma il mio furor non tace, parte

SCENA IX.

Delmira e Camur.

Camur. Figlia, figlia, siam soli; vo’ favellarti al core!

Non isdegnar le voci udir del genitore.
Nelle cangiate spoglie serbar puoi l’innocenza,
Ma rea d’infedeltade ti mostri all’apparenza.
Il cedere alle leggi degli Europei costumi
È un insulto alla patria, è una mancanza ai numi.
La colpa del tuo cuore non sta nella tua veste,
Ma le colpe maggiori principiano da queste.
Si avvezza a poco a poco a intiepidirsi il petto,
L’amor di novitade produce un tristo effetto.
E il troppo compiacersi degli infedeli accanto
Scema nel cuor più fido della costanza il vanto.
Noi abbiam nostre leggi, noi veneriamo il Sole.
So che cambiare il culto dagli Europei si vuole.
E veggoti vicina a secondar sue voglie,
Se a cambiar il costume cominci dalle spoglie.
Credi tu che a Zadir vorran tua destra unita?
Ti troverai, Delmira, ti troverai schernita.
Fuggi da queste soglie. Vien meco in altra parte
Incognita degli empi alle minaccie, all’arte.
Fra i scoscesi dirupi vivrem vita meschina,

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Per evitar del cuore la prossima rovina.

Obbedisci al mio cenno, unica e cara prole,
Te lo comanda il padre, te lo comanda il Sole.
Delmira. Lo sai, se obbediente m’ebber tuoi cenni ognora.
Pronta son ciecamente ad obbedirti13 ancora.
Ma della fuga, o padre, tu ti lusinghi invano.
L’arme degli stranieri coprono il monte e il piano.
Camur. Stuolo di Americani abbiam noi ragunato;
Fra gli alberi più folti lo stuolo è rimpiattato.
Voglion 14 tentare un colpo in questa terra oppressa,
O liberar la patria, oppur morir per essa.
Nel tempo della pugna noi prenderem la via.
Vo’ a costo della vita salvar la vita mia.
Cuor non ho di vederti fra barbare persone
A perdere forzata l’onor della nazione.
Delmira. Credimi, padre mio, la libertà perfetta
Mi lascian di seguire quello che il cuor mi detta.
Non paventar; son fida a te, alla patria, al nume.
Camur. No, no, senza avvedersene, si abbraccia il rio costume.
Devi obbedir, o figlia, se il genitor ti guida.
E se obbedir ricusi, ti riconosco infida.
Delmira. Misera me!
Camur.   Vien meco.
Delmira.   Padre, noi siam perduti.
Camur. Volgi le luci al nume, e il suo poter ci aiuti.
Delmira. Pensaci.
Camur.   Ho già pensato.
Delmira.   Signor...
Camur.   Diventa orgoglio
La resistenza ingrata. Così comando e voglio.
Delmira. (Obbedire mi è forza al genitor che impone.
Sia di me, sia del padre, quello che il Ciel dispone.
Che dirà don Alonso della mia fuga ingrata?

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Misera! senza colpa son rea, son sfortunata). da siè

Eccomi ai cenni tuoi; sol di obbedirti io bramo.
Ma la tua vita, o padre, non arrischiare.
Camur.   Andiamo.
(la prende per mano, e partono


Fine dell’Atto Secondo.


Note

  1. Ed. Pitteri: Avvanzati.
  2. Ed. Pitteri: traccannato.
  3. Ed. Pittori: addatterei.
  4. Ed. Pitteri: proccura.
  5. Ed. Pitteri: diffetti.
  6. Ed. Zatta: ubbidire.
  7. Ed. Zatta: un spirito.
  8. Ed. Pitteri: defforme.
  9. Ed. Pitteri: congionti.
  10. Ed. Pitteri: esiggono.
  11. Ed. Pitteri: farettrato.
  12. Ed. Pitteri: provigioni.
  13. Nell’ed. Zatta: ubbidisci, ubbidiente, ubbidirti ecc.
  14. Ed. Zatta: Vogliam.