La capitana del Yucatan/34. La ritirata di Cervera

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34. La ritirata di Cervera

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CAPITOLO XXXIV.


La ritirata di Cervera.


La notte dal 3 al 4 luglio, dopo un breve consiglio di guerra, la squadra spagnuola, che da numerosi giorni assisteva impotente al bombardamento di Santiago, lasciava silenziosamente i suoi ancoraggi per tentare un supremo colpo.

Andava a sfidare la morte, certa di soccombere ma la marina spagnuola non voleva arrendersi senza combattimento nè ammainare le sue bandiere, ondeggianti sulle cime degli alberi, senza avere lanciate le sue cariche.

La vittoria di Aguadores e l’eroismo dei soldati spagnuoli non erano stati sufficienti a liberare la piazza assediata dal cerchio di ferro.

Santiago era ormai destinata, presto o tardi, a cadere per mancanza di difensori. Gli aiuti promessi dal maresciallo Blanco non erano giunti in tempo e l’arrivo del generale Pando coi suoi settemila uomini era troppa poca cosa per resistere a lungo ai nuovi attacchi delle forze di terra e di mare degli yankees.

D’altronde ordini telegrafici erano giunti dalla Spagna e dicevano chiaramente che la flotta uscisse dal porto a qualsiasi costo per accorrere alla difesa dell’Avana e l’ammiraglio Cervera, da vero soldato schiavo del dovere, non aveva creduto opportuno di ribattere sillaba. Andava incontro a sicura morte, ma che importava a quel valoroso? L’onore della bandiera spagnuola, innanzi a tutto.

A mezzanotte tutto era pronto per la fuga. Le macchine erano state accese, gli equipaggi richiamati a bordo delle navi, i fanali spenti, le polveriere aperte, i cannoni caricati, gli uomini a posto di combattimento per la suprema lotta.

Un barlume di speranza era entrato nei cuori di quei valorosi. Si era saputo che la maggior parte delle navi americane si erano dirette verso Aguadores per ricominciare all’indomani il bombardamento, quindi vi era la probabilità di non dover sostenere l’urto di tutte le due poderose squadre comandate da Sampson e da Schley.

Alle due del mattino, mentre l’ammiraglio Cervera abbandonava il Cristobal Colon, e s’imbarcava sulla Viscaya facendo spiegare su questa le insegne del supremo comando, la contro-torpediniera Furor, comandata dall’ammiraglio Villamil, fu mandata all’uscita del canale per spiare le navi americane.

L’Yucatan l’aveva già preceduta. La marchesa e Cordoba, sapendo bene di non poter affrontare la lotta, l’avevano fatto affondare fino alla linea di galleggiamento ed avevano fatti rientrare gli alberi. [p. 299 modifica]

Impotenti a seguire le grandi navi sulla via dell’onore, essi speravano almeno di prendere il largo inosservati, approfittando della confusione che sarebbe indubbiamente successa.

L’oscurità era ancora assai fitta, però osservando attentamente la cupa linea dell’orizzonte, la marchesa e l’ammiraglio Villamil avevano potuto constatare che solamente pochissime navi americane incrociavano fuori del canale.

Mentre l’ammiraglio recava a Cervera quella lieta novella, Cordoba si era rivolto verso la marchesa, dicendole:

— Non commettete alcuna pazzia, donna Dolores. Appena le navi spagnuole saranno uscite, stringiamo verso la costa e cerchiamo di porci in salvo verso la Dominica.

— E noi dovremo fuggire così, come dei ladri, senza battersi, mentre i nostri compatrioti vanno incontro alla morte? — disse la marchesa con voce soffocata.

— Pensate che una sola granata americana può mandarci tutti a picco. La nostra nave è da corsa e non da combattimento. Mi promettete di obbedirmi? Voi non avete il diritto di sacrificare il nostro equipaggio.

— Ti obbedirò, Cordoba, — mormorò la valorosa donna, con un sospiro.

Poi aggiunse, con un singhiozzo soffocato:

— Dio protegga la flotta di Spagna!... —

In quel momento la squadra spagnuola, nel più profondo silenzio, s’avanzava nel canale, costeggiando la carcassa del Merrimac.

Veniva primo il Cristobal Colon, tutto lucente, coi suoi due fumaiuoli, colla bandiera spagnuola inchiodata all’asta di poppa, quella bandiera che le era stata donata dalle forti donne della riviera ligure, quando scendeva in mare dagli scali di Sestri Ponente dei cantieri d’Ansaldo, fra gli applausi delle genti italiche.

La poderosa nave, onore e vanto dell’industria italiana, stazzava solamente seimila tonnellate, ma era la più solida di tutta la squadra spagnuola e doveva in breve dare prove della sua eccezionale robustezza e confermare pienamente la famosa frase: a prova di scoglio.

Misurava cento metri di lunghezza su diciotto di larghezza, portava quattrocentocinquanta uomini al comando d’uno dei più intrepidi lupi di mare della Spagna, il capitano Diaz Moreau, ed il suo principale armamento consisteva in due grossi Hontoria da 254 ed in un gran numero di pezzi a tiro rapido di vari calibri.1

Seguivano, l’uno dietro l’altro in causa della strettezza del canale l’Almirante Oquendo, corazzata di settemila tonnellate, [p. 300 modifica]montata da cinquecento uomini al comando del capitano di S. Lazara, poi la Viscaya, la più poderosa dopo il Colon, lunga cento e quattro metri e montata del pari da cinquecento uomini, comandati dal capitano Antonio Eulata, quindi la Infanta Maria Teresa, del pari grossa e comandata dal capitano Victor Concas e dall’ammiraglio Cervera.

Ultime venivano le due contro-torpediniere Furor e Pluton, rapide navi che filavano ventotto nodi e che portavano tre tubi lancia-siluri, montate dall’ammiraglio Villamil, dal capitano Carlier, dal capitano Vasquez, poi l’Yucatan guidato dalla marchesa.

La quinta corazzata, la Reina Mercedes, troppo danneggiata durante il bombardamento di Santiago, era stata lasciata in porto onde affondarla nel canale nel caso che le squadre americane avessero tentato, più tardi, di forzare il passo.

Il momento era supremo, terribile, poichè tutti ormai sapevano che stavano per giuocare una partita disperata. La morte stava dinanzi a quei valorosi, nascosta fra le cupe acque del mar dei Caraibi e tendeva già verso di loro le sue scarne braccia.

Che importava a quegli audaci?... Avanti sempre per la gloria della Spagna!...

Tutti erano pronti per la lotta mostruosa. I comandanti, dentro le loro torrette, spiavano ansiosamente il nemico che si celava fra le tenebre: i marinai, dietro ai mostruosi pezzi delle coperte o dietro ai cannoni a tiro rapido, coi cordoni tirafuoco in mano, aspettavano il comando per scatenare uragani di ferro contro il formidabile nemico; macchinisti e fuochisti, sepolti nelle profondità delle stive, dinanzi alle brucianti caldaie ed ai forni tramutati in vulcani, aspettavano impavidi il rombo delle artiglierie annuncianti la vittoria o la morte.

Ecco il Cristobal Colon che passa l’ultimo stretto del canale e che si slancia sulle onde del mar dei Caraibi, poi dietro di lui si avanzano le altre navi.

Ad un tratto un formidabile ed assordante rimbombo scoppia sul mare. Le navi americane si sono accorte della fuga della squadra spagnola e si preparano a piombare, masse terribili di acciaio, contro il minuscolo nemico.

Un traditore od il caso le ha avvertite dell’audace tentativo dell’ammiraglio spagnuolo e l’intera squadra di Schley, forte di dodici delle più mostruose corazzate, corre a tutto vapore addosso alle quattro navi per schiacciarle, mentre quella di Sampson lascia precipitosamente Aguadores per prendere parte alla ineguale lotta.

Un grido echeggia nelle torrette dei comandanti spagnuoli:

— A tiraggio forzato!... Fuoco di bordata!...

La lotta è cominciata, la lotta tremenda, inesorabile atroce!...

La flotta americana accorre da tutti i punti dell’orizzonte e piomba sulla squadra spagnuola per chiuderle il passo o per mandarla, rotta, fracassata, nei baratri del mar dei Caraibi. [p. 301 modifica]

La potente corazzata Indiana, comandata dal capitano di vascello Foyler, che si trovava la più prossima al canale, apre pel primo il fuoco vomitando granate di grosso calibro e nembi di proiettili minori. I suoi giganteschi pezzi delle torri ed i suoi numerosi cannoni a tiro rapido tuonano furiosamente, senza posa, spazzando il mare e la costa ed infilando la coperta dell’Almirante Oquendo.

Il Brooklyn, uno dei più forti incrociatori americani ed il Texas si uniscono ad essa per battere in breccia le corazze della povera nave.

La Yowa, la più mostruosa delle corazzate degli Stati Uniti, l’Oregon ed il Massachussett si gettano addosso al Cristobal Colon che muove rapido al largo, mentre le altre stringono da presso la Viscaya e l’Infanta Maria Teresa coprendole con una pioggia di acciaio ed un turbine di granate.

Il forte del Morro allora entra in azione, tentando di proteggere disperatamente la squadra spagnuola. I suoi cannoni Krupp tuonano senza posa, affrettatamente, con un rombo assordante, lanciando ovunque le loro masse d’acciaio ma con poca fortuna poichè la distanza aumenta di momento in momento.

Le quattro corazzate spagnuole, col grande stendardo di Spagna inchiodato sull’asta di poppa, filano a tutto vapore per sfuggire al cerchio di ferro che tenta di rinserrarle.

I loro cannoni tuonano con un crescendo spaventoso. Dalle torri della coperta e dai sabordi, escono senza interruzione torrenti di proiettili, mentre i comandanti, impavidi fra lo scoppiare delle enormi granate americane, comandano freddamente la manovra.

Dovunque sorgono nuove navi, dovunque nuovi avversari. Dinanzi, di dietro, sui fianchi, il nemico, quattro volte più poderoso e più numeroso accorre a stringerle ed a tempestarle di messaggieri di morte. Ma che importa? Avanti sempre per l’onore della Spagna!...

In mezzo a quell’assordante rimbombo, a quello incrociarsi di navi, a quella confusione orrenda, il piccolo Yucatan guidato dalla marchesa, si è gettato sotto la costa e fugge disperatamente, ma le due contro-torpediniere, il Furor ed il Pluton non l’hanno seguìto.

Le due piccole navi si gettano animosamente in mezzo a quei colossali avversari, tentando almeno di farne saltare qualcuno coi siluri.

Sono due giuocattoli in paragone alle grosse corazzate americane, però hanno gente di fegato a bordo.

Il Furor si getta addosso all’Indiana tentando di torpedinarla. Due navi, il Glowcester ed il Corsair sbarrano la via alle due contro-torpediniere, tempestandole di proiettili.

Millequattrocento colpi vengono sparati contro le due piccole navi in pochi minuti, sfondando loro i fianchi, fracassando la coperta, abbattendo alberi e ciminiere. [p. 302 modifica]

Vellamil, Cartier e Vasquez non si perdono d’animo e fanno scaricare, d’un solo colpo, tutte le artiglierie. Era la manovra della disperazione, ma una manovra senza o con poco effetto contro così grandi navi.

Il Pluton, crivellato dai proiettili del Glowcester affonda. Le sue caldaie scoppiano con un fracasso infernale e la povera nave scompare negli abissi del mare dei Caraibi, con tutti i valorosi marinai.

Il Furor, quantunque oppresso dai proiettili e già sdruscito, resisteva però ancora e tuonava disperatamente tentando di giungere sotto il Glowcester e di scaricargli addosso i suoi siluri.

Il sangue scorreva a fiotti nelle sue batterie ed i morti ed i feriti s’accumulavano a poppa ed a prora. La morte ormai era vicina; la perdita ormai imminente.

L’ammiraglio Villamil, vista la partita ormai perduta, lancia la piccola nave verso la costa per arenarla e salvare gli ultimi superstiti.

In mezzo a quel grandinare tremendo di palle chiama il capitano Carlier e gli ordina di mettere in acqua le scialuppe e di salvarsi assieme ai pochi marinai sfuggiti all’orrendo massacro.

Il valoroso ufficiale, invece di obbedire, gli risponde:

— Perdono, ammiraglio, responsabile della nave sono io e resterò al mio posto fino all’ultimo, qualunque sia la sorte che ci attende.

— Allora preparatevi a morire, poichè fra pochi minuti coleremo a fondo, — rispose l’ammiraglio.

— Sono pronto, — soggiunse Carlier.

Un istante dopo una grossa granata americana scoppia a bordo del Furor e la contro-torpediniera sparisce sott’acqua assieme a Villamil ed al suo capitano.

Onore ai coraggiosi vinti da uno strapotente nemico!...

Mentre le due piccole navi scendevano negli abissi del mare, le quattro corazzate spagnuole proseguivano la titanica lotta.

La squadra americana aveva ormai circondata la spagnuola e la subissava con una tremenda tempesta di proiettili. Le grosse granate delle grandi corazzate, cadevano fitte sui ponti degli incrociatori, determinando furiosi incendi, che a malapena venivano estinti.

Dopo un solo quarto d’ora, la maggior parte dei cannoni dell’Almirante Oquendo e dell’Infanta Maria Teresa erano o smontati o così ardenti da non poter più venire adoperati.

I grossi proiettili americani attraversavano ormai le corazze dei due incrociatori e scoppiavano, con fracasso spaventoso, nelle batterie, facendo strage dei marinai e degli artiglieri.

L’Oquendo, ormai in fiamme, non resisteva quasi più. Vortici di fumo e nembi di scintille lo avvolgevano da prora a poppa, mentre il sangue correva a torrenti entro le batterie sventrate, ed i morti ed i feriti aumentavano di minuto in minuto. [p. 303 modifica]

Pure la valorosa nave, anche investita completamente dalle vampe, non cedeva e sparava all’impazzata i suoi pezzi a tiro rapido, tentando ancora di seminare la morte sulle corazzate americane.

Il suo capitano, il Lazaga, impavido in mezzo allo scoppiare delle granate, comandava sempre la manovra. La sua voce echeggiava ad intervalli fra l’orrendo scroscio dei proiettili esplodenti.

— Fuoco!... Ragazzi!... Fuoco!... —

Pochi minuti dopo quel superbo incrociatore scoppiava con orribile rimbombo, sotto la spinta delle polveriere ed affondava in mezzo a un nembo di rottami, fra gli hurrà degli equipaggi americani.

L’Oquendo era appena scomparso che anche l’Infanta Maria Teresa, pure tutta in fiamme, fracassata dalle tremende cannonate del Massachussett e del Brooklyn e di altre navi minori, saltava in aria, mentre il suo capitano, il prode Concas, piuttosto che sopravvivere alla disfatta, si bruciava le cervella nella torretta di comando.

Della squadra spagnuola più ormai non rimanevano che la Viscaya e il Cristobal Colon, le più poderose.

Quantunque avessero ormai contro di loro l’intera squadra di Schley, proseguivano animosamente l’impari lotta, dirigendo i loro colpi specialmente contro l’Indiana, l’Yowa ed il Vesuvius che li perseguitavano con accanimento feroce.

La Viscaya, circondata da quattro delle più grosse corazzate americane, tuonava orrendamente. Sembrava il cratere d’un vulcano in piena eruzione, tante erano le fiamme ed il fumo che l’avvolgevano. Le granate americane cadevano fitte sul suo ponte e fracassavano i suoi fianchi massacrando marinai ed artiglieri; pure non cessava dal fuggire e dal difendersi.

Ormai quella splendida nave, che gli americani avevano ammirata un anno prima nel porto di New-York, non era più che un ammasso di rovine fumanti, ma avanti sempre, avanti ancora fino alla distruzione totale.

La via è sbarrata dalle navi americane che le si stringono addosso da tutte le parti.

Vira di bordo sul posto e si slancia verso la costa decisa a fracassarsi sugli scogli piuttosto che cadere in mano degli odiati yankees.

Corre, balza, perseguitata, fracassata dal continuo scoppio delle bombe nemiche, lasciandosi dietro una immane colonna di fiamme e di fumo, e va a rompere il suo scafo fra le scogliere, mentre le sue macchine scoppiano con un rombo spaventevole.

Le scialuppe americane accorrono da ogni parte a raccogliere i superstiti.

L’ammiraglio Cervera, ferito ad un braccio, viene imbarcato su di una scialuppa del Glowcester e condotto a bordo di quella nave. Era pallido, disfatto, ed aveva le lagrime agli occhi. [p. 304 modifica]

Appena fu sul ponte della nave nemica, il comandante americano, il capitano Warmoright, gli andò incontro e stendendogli la mano, gli disse con voce commossa:

— Mi congratulo con voi, ammiraglio. Voi avete combattuto valorosamente e così gagliardamente come mai fu veduto su questi mari. —

Lo sfortunato ammiraglio, pietrificato dal dolore, non rispose. Si levò la spada e la consegnò al capitano nemico, rompendo in uno scroscio di pianto.

Poi, dopo alcuni istanti aggiunse cupamente:

— Avrei preferito perdere la vita combattendo, anzichè arrendermi in Santiago. —

Intanto il capitano Eulata, comandante della Viscaya, veniva raccolto da una scialuppa della Yowa e condotto a bordo di quella corazzata su di una barella, essendo stato gravemente ferito.

Il prode comandante fu ricevuto cogli onori militari da un drappello di marinai americani.

Egli si alzò lentamente, salutando con dignità, poi si sbottonò la cintura, baciò la spada e la porse al capitano della corazzata, ma questi si rifiutò di riceverla, mentre l’equipaggio intero prorompeva in frenetici hurrà.

In quel momento le munizioni della Viscaya scoppiavano con frastuono, buttando all’aria il ponte del povero incrociatore.

Il capitano spagnuolo, udendo quel rombo, disse con voce strozzata, mentre le lagrime gli scendevano sulle gote:

Adios Viscaya. —

Poi volgendosi verso il comandante americano, aggiunse fra i singhiozzi che lo soffocavano:

— Ecco la mia bella nave che se ne va!... —


Note

  1. Aver privata quella splendida nave dei grossi pezzi Armstrong di cui l’aveva dotata l’Ansaldo e d’averla mandata alla guerra senza due Hontoria da 25 cent. fu senza dubbio uno dei più grossi errori commessi dal governo spagnuolo.