La fine di un Regno (1909)/Parte I/Capitolo XX

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Capitolo XX

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CAPITOLO XX

Sommario: Partenza per Andria — Da Foggia a Cerignola — Il bandito Niccola Morra — Particolari e ricordi — La colonia di San Ferdinando — Una richiesta caratteristica — A Canosa e ad Andria — Feste e aneddoti — L’arrivo a Bitonto — La visita dei sovrani all’orfanotrofio Maria Cristina — Il sindaco Syìos perde il cappello — Disinganno del conte Gentile — Si giunge ad Acquaviva — Monsignor Falconi e il suo discorso — A Gioia e a Mottola — Il giudice regio ruzzola per terra — La grazia dei Massafresi — Particolari intimi sulla fermata a Taranto — A Lecce ~~ Una risposta curiosa — Lo stato di salute del re — La visita al duomo e lo spettacolo al teatro — Un inno di Mastracchi — Il re infermo — Si chiama il dottor Leone — Il flebotomo Maretta cava sangue al re — Ricordi e aneddoti — È chiamato Ramaglia — Colloquio fra lui e il dottor D’Arpe — Le passeggiate dei principi — Incidente ai duca dì Calabria — La visita al liceo — L’arrivo degli arciduchi d’Austria — Il re migliora — Si decide la partenza per Bari — I preparativi di Gallipoli per festeggiare i sovrani — L’iscrizione secentesca di un futuro senatore.


La mattina seguente, alle undici, il re, ascoltata la messa nell’oratorio dell’Intendenza, detta da monsignor Frascolla, accompagnato dalle autorità e dalle guardie d’onore in grande uniforme, parti per Andria, quarta tappa del viaggio. A Foggia ebbe un numero infinito di suppliche. Le carrozze reali traversavano le vie in mezzo a fitta calca di popolo, che applaudiva fragorosamente, Ferdinando II, prendendo commiato, promise che sarebbe tornato con gli sposi, per rimanervi qualche giorno. Ma parve a tutti pallido e triste; nella notte aveva sentito aggravami il suo malessere.

Da Foggia a Cerignola, gli abitanti di Orta, di Ortona, di [p. 436 modifica]Stornara e di Stornarella, grosse borgate a destra e a sinistra del Cervaro e del Carapella e che si chiamavano Reali Siti, attendevano il corteo con le rappresentanze municipali e guardie urbane con bandiera. Applausi ed acclamazioni accolsero gli augusti viaggiatori, che, dopo aver fatta colazione al rilievo del passo di Orta, proseguirono al galoppo. Benché si fosse nella mite Puglia, soffiava una tramontana tagliente. A poca distanza da Cerignola s’incontrò un plotone di cavalleggieri, che circondarono le carozze. A Cerignola, dove si dovevano cambiare i cavalli, il Decurionato aveva fatto innalzare un arco trionfale all’ingresso della città, ma il popolo si era riversato fuori dell’abitato per quasi un miglio. Il vescovo, monsignor Todisco Grande, il sindaco Raffaele Palieri, il capo urbano Giuseppe Manfredi e gli altri decurioni e notabili, aspettavano sotto quell’arco sin dalle dieci, ma le carrozze reali non furono in vista che verso le due. I postiglioni dovettero far rallentare il passo ai cavalli, tanta era la folla che premeva da ogni parte. A un certo punto, un personaggio del seguito, che non fu distinto chi fosse, sceso dì carrozza, si collocò allo sportello dalla parte del re, per allontanare i più audaci. Al capitano Stoker, che comandava i cavalleggieri e teneva indietro il popolo a colpi di piattonate, Ferdinando II intimò di rimettere la sciabola nel fodero.

Quel miglio dì strada fu eterno; e giunti i sovrani all’arco di trionfo, nè il sindaco, nè il vescovo potettero, per la ressa, recitare le preparate concioni. Cerignola eccedeva in applausi e in acclamazioni, forse per far dimenticare al re che era la patria del famoso bandito Niccola Morra, il quale, evaso da Nisida, scorrazzava in quelle campagne. Le autorità non riuscivano a prenderlo e i suoi favoreggiatori, per paura e per guadagno, eran molti; anzi il re credeva che i proprietari lo celassero per far opposizione a lui e screditare il governo in faccia all’Europa. Attorno al nome di Niccola Morra si era formata una leggenda di simpatia e di paura. Si raccontava che, vestito da gran signore, avesse largamente soccorsa mia povera donna; in abito monacale, generosamente aiutato un vecchio infermo; e vestito da mendicante, avesse schiaffeggiato l’intendente Guerra nella villa di Foggia, senza che questi opponesse resistenza. I suoi ricatti erano celebri. Al ricco Antonio Padula di Candela aveva estorti ottomila ducati; a Leone [p. 437 modifica]Maury, sopraintendente dei beni dei duca di Bisaccia, e padre di Eugenio, già deputato di Foggia, duemila piastre; l’arciprete se lo era veduto innanzi in sagrestia; il tenente dei gendarmi, nella caserma; ma sopra tutti restò famoso il ricatto di Gaetano Pavoncelli, giovane figliuolo di Federico Pavoncelli, che aveva soccorso sino all’ultimo giorno il padre di Nicola e tenuto questi ai fonte battesimale. Il giovane Pavoncelli riuscì a fuggire, e il riscatto non fu pagato. Prima d’intraprendere il viaggio, il re aveva mostrato desiderio che Niccola Morra, insieme col suo compagno Buchicchio, fosse preso, o indotto a costituirsi. Federico Lupi, il nostro Mostaccione, era stato mandato a Cerignola alcuni giorni prima, perchè fossero adempiuti i desideri sovrani, ma inutilmente. Tra la folla, che circondava ed applaudiva il re, si notava un gruppo di donne, dalle quali partivano le grida più alte di “grazia„ e di “misericordia„. Una di quelle, più ardita delle altre, quasi sollevata dalla folla, s’appressò alla carrozza e, afferratasi allo sportello, dalla parte del re, si diè ad urlare: “Maestà, grazia, grazia per Niccola Morra„. Era Teresa Cibelli, zia del bandito. Ferdinando, a quel nome, si scosse; ed appoggiato il braccio sulle spalle di lei, le disse a voce alta: “Digli che si presenti; si presenti; avrà la grazia.... digli che avrà la grazia„. Quanti l’intesero mandarono un grido di gioia, e le donne piansero per la commozione, poichè Niccola Morra rappresentava per il popolino la ribellione alle prepotenze dei signori. Il Morra non seguì però il consiglio del re; più tardi, ferito, mentre tentava il ricatto di Giovanni Barone, ricco proprietario di Foggia, andò in prigione; ne uscì e, scontata la pena, tornò in patria: e complicato in altri fasti briganteschi, subì nuove pene. È morto vecchio, dopo aver fatto pubblicare le sue memorie, non prive d’interesse.1


Intanto si erano attaccati i nuovi cavalli, e i sovrani partirono fra le acclamazioni stentoree del popolo cerignolano; ma anzi che andar difilato verso Canosa, il re volle divergere, per qualche miglio, dalla strada consolare e visitare la colonia agricola di San Ferdinando, fondata da lui vent’anni prima, al fine di sottrarre alla malaria le misere famiglie, che abitavano [p. 438 modifica]attorno alle saline di Barletta, e alle paludi della foce dell’Ofanto. Egli aveva distribuiti gratuitamente i terreni da coltivarsi, fornito i capitali agricoli, e istituita una cassa di prestanza e un monte frumentario. La famiglia reale visitò la chiesa in mezzo agli applausi dei coloni; poi si recò al Comune, ed ivi, preso conto dello stato della colonia, ordinò la costruzione di altre centoquaranta case, e diè ascolto a quanti dovevano porgergli suppliche. Fu notato che due sole suppliche furono presentate, ed una dalla figlia della levatrice, Anna Maria Forte, giovane ventenne, molto avvenente, di bella taglia e sveltissima, la quale chiese al re la grazia di una quota di terra e di un po’ di suppellettili di casa, cca sò zita e m’agghia marità.2 II re promise, ma la promessa non fu mantenuta.

Il sole era al tramonto e il freddo intenso. Lungo la strada s’incontravano gruppi di pastori e di terrazzani plaudenti o intontiti, e gruppi più fitti al monumentale ponte sull’Ofanto. Era già notte, e Canosa splendeva di faci e vi echeggiavano rumori allegri. Il re pel gran freddo era tutto avvolto nel suo cappotto militare, aveva scialli sulle gambe e, dì tratto in tratto, prendeva qualche sorso di rum. I cittadini di Canosa erano asciti fuori dell’abitato incontro ai sovrani, con alla testa Salvatore Mandarini, intendente di Bari, il temuto sottointendente di Barletta, Niccola Santoro, ed altre autorità della provincia di Bari, nella quale si entra dal predetto ponte. Sotto l’arco trionfale, eretto all’ingresso della città, era stato innalzato un baldacchino. Il re smontò non senza stento; ricevette le autorità comunali e il clero palatino. Tutti portavano torce, le quali davano allo spettacolo un’aria piuttosto lugubre. Il Capitolo presentò ai re in coppa d’argento i due pani tradizionali: cerimonia stabilita da Guglielmo Normanno, come segno di regio patronato. Poi si avanzarono due gruppi di giovanette vestite di bianco e di ragazzi che, accompagnati dalle bande musicali, cantarono un inno. Il cocchio reale cominciò allora a muoversi, a stento, in mezzo alla folla che urlava evviva, dava suppliche e chiedeva grazie.

Il corteo mosse alla fine per Andria, dove erano preparate più clamorose accoglienze. Si correva a tutta lena e per fortuna non v’erano altre fermate. La popolazione di Andria si riversava per [p. 439 modifica]le vie: luminarie, archi di trionfo e grida festose della città fedele.


I sovrani furono ricevuti dal vescovo Giovanni Longobardi, dal sindaco Giovanni Iannuzzi, da quasi tutti i decurioni notabili, e dalle guardie d’onore Riccardo Lannuzzi, caporale, Riccardo Porro e Niccola Fasoli del fu Filippo. Scesero all’episcopio, dove, oltre la famiglia reale, alloggiò una parte del seguito. Il vescovo aveva provveduto all’alloggio con mobili fatti venire da Trani. Le guardie urbane facevano ala. Le comandava Francesco Marchio, ed era sottocapo Filippo Griffi, che il re aveva conosciuto nel viaggio del 1839; anzi gli aveva dato il soprannome di mamozio. La famiglia reale sì mostrò al balcone, ed il pubblico, che gremiva la vasta piazza sottostante, non si stancava di applaudire. Poi si pranzò, ed è superfluo aggiungere che, sebbene il vescovo avesse tutto preparato sontuosamente, i cibi per i sovrani furono serviti dalla cucina reale. Il giorno dopo, 12 gennaio, ricorrendo il suo natalizio Ferdinando II aveva prescritto che, come al solito, ci fosse gran gala in tutto il Regno, si vestisse la grande uniforme dalle milizie, ed avessero luogo le consuete salve e l’illuminazione dei pubblici edifizii e dei teatri; e così pure per il 16, natalizio del duca di Calabria. Egli ad Andria si senti un po’ meglio. Occupò le prime ore del mattino a dare udienze; più tardi s’intrattenne con Murena e Bianchini, ed alle 10, ammise le autorità civili, militari ed ecclesiastiche, al baciamano. Compiuta la cerimonia, la famiglia reale si recò al duomo, per ascoltarvi la messa, pontificata da monsignor Longobardi. Dal palazzo vescovile, per andare al duomo, sì scendeva una scala segreta, angusta e buia, a capo e a piè della quale erano state collocate due sentinelle. Il re si maravigliò della presenza di esse e, rivolto ad un piantone, bruscamente gli chiese: “Nè, tu che fai ccà?„ “Maestà, rispose quello, sono di piantone„. E il Re: “Iatevenne, m’abbastano duie cannonici ’e ccà; iatevenne„.3 Dal palazzo vescovile al duomo erano schierate le guardie urbane, in uniforme, ma senza kepì, perchè, ne ignoro il motivo, già da tempo era stato loro tolto. Mentre il re passava, Raffaele Giannetti, caposquadriglia, gli si accostò e lo richiese di una grazia.


[p. 440 modifica]Ed avendo il re dimandato qual grazia volesse, Giannetti lo pregò di ripristinare po’ suoi militi.,. l’uso del kepì! Nel duomo si ascoltò la messa pontificale, ed il re pregò in gin occhiato, innanzi all’immagine di San Riccardo, patrono della città.

Uscito dal duomo, il real corteo si recò al santuario della Madonna dei Miracoli, dove si leggevano queste due iscrizioni: Ai favori di Maria de’ miracoli — elettissimi — il devoto popolo andriano — riconoscente aggiunge — questo non ultimo — dell’ospitare i principi suoi; e dall’altra parte: Dio — nella giustizia e clemenza — di Ferdinando II — la gente andriese — in questo di memorando — festeggiante adora. Queste due iscrizioni, non erano meno ampollose di quella che si leggeva all’ingresso della città: Alle Maestà — di Ferdinando II e di Marta Teresa — ottimi augusti — che di lor presenza con la real famiglia — questo popolo fedele onorano — saluto omaggio riconoscenza; e di una delle tre, poste sulla macchina in piazza del municipio e che diceva: Nel numero dei popoli soggetti — la potenza dei re — nell’amore nella festa del popolo — la gloria di Ferdinando II. Nel santuario, ventiquattro orfane vestite di bianco cantarono un inno; poi ci fu la benedizione. Risaliti nelle carrozze, i Reali presero commiato dalle autorità; e, traversando le vie della città a trotto serrato, in mezzo a fitta calca di popolo plaudente, mossero alla volta di Acquaviva.


Da Andria ad Acquaviva fu una marcia trionfale. I grossi paesi, Corato, Ruvo, Terlizzi, Bitonto, Palo, Bitetto, San Nicandro erano in tripudio. Dappertutto baldacchini, archi, festoni di mortella e toselli di ogni gusto; le case addobbate con arazzi e coperte di seta, e l’inno borbonico risuonante a ogni passo. Lungo quei paesi a così poco distanza l’uno dall’altro, le carrozze reali trottarono quasi sempre fra guardie d’onore, sindaci e decurioni, magistrati e prelati, capitoli e confraternite, e tra un fitto stuolo di cittadini che, tratti dalla curiosità o dalla vanità, volevano vedere i sovrani, acclamarli, e fare augurii al principe ereditario per le sue nozze. Le pubblicazioni del tempo rivelano quanto riuscissero clamorose quelle accoglienze. Le quali, però, a Ferdinando II, che da tre giorni era tormentato da dolorosa lombaggine, arrecavano assai mediocre sollievo, e solo divertirai in qualche modo i principi, soprattuto il conte di Caserta, che si studiava di ritrarre i tipi più comici di quei personaggi, e con [p. 441 modifica]tali facezie riusciva a strappare qualche sorriso al padre. La città, che più si distinse, fu Bitonto, culla di nobili e di cavalieri di Spagna. N’era sindaco il nobile Vincenzo Sylos Labini, il quale, nella confusione del ricevimento, perdè il cappello. Il Sylos mori senatore del regno d’Italia. I sovrani si fermarono colà due ore. L’arco di trionfo rizzato innanzi la porta della città ricordava le gesta guerresche di Carlo III, e ampollose ne erano le iscrizioni.

La famiglia reale si recò prima nel duomo, splendido monumento dell’arte pugliese sotto i Normanni e gli Svevi, dal vescovo, monsignor Matarozzi, fu impartita la benedizione, e passò poi all’orfanotrofio Maria Cristina, affidato alle monache di San Vincenzo de’ Paoli. Vi erano raccolte più di dugento orfanelle, ed una pronunziò, dinanzi ai sovrani un discorro d’occasione, il quale fu detto essere stato scritto dal canonico Comes e che finiva con queste parole: “Sì, o Sire! Voi spargete la beneficenza in tutti gli angoli del vostro Reame, e qui ne abbiamo raccolto i frutti abbondevoli ancor noi, che se tolte alla corruzione de’ trivii siamo spinte sulla via della religione e della virtù, noi lo dobbiamo a Voi, che siete il padre dell’orfano e dèi derelitto„. Poi fu cantato un inno, mentre la regina ammirava i ricami eseguiti dalle orfanelle, e non fu parca di lodi, e il re riceveva le autorità ammesse al baciamano. Nella chiesa dell’orfanotrofio il vescovo diè ai sovrani e ai principi un’altra benedizione, prima della partenza. Superiora del pio ricovero era suor Teresa Cecilia Goyeneche, francese, che io conobbi: una monaca piena di talento, sana e ardita. Mi disse ch’ella “avait remarquè que le roi ètait malade„, perchè era taciturno e triste, aveva gran fretta di partire; pareva si annoiasse di tutto e fosse molto stanco. Ricordava pure, che, quando i sovrani e i principi visitarono il refettorio, il duca di Calabria, avendo sete, tolse dalla tavola un boccale d’acqua e lo bevve d’un fiato, e tutti restarono ammirati di quest’atto de vrai soldat... Non valsero a dissuadere il re dal lasciare Bitonto le caldissime preghiere del conte Vincenzo Gentile, il quale gli offrì ospitalità in casa sua, addobbata con opulenza, e dove era preparato un sontuoso pranzo per i sovrani e il seguito. Egli giunse a pregare il re in ginocchio, perchè rimanesse, ma questi voleva a tutti i costi arrivare la sera in Acquaviva; e benchè fosse già notte, ordinò che si partisse di galoppo. Il conte Gentile restò così mortificato della [p. 442 modifica]non accettata ospitalità, che per consolarsene aprì per tre giorni il suo palazzo, perchè ciascuno vedesse la sala da pranzo, che aveva apparecchiata, con cuochi e camerieri fatti venire da Napoli, e molti vi andarono anche da Bari e dai paesi vicini.

Lungo la via da Bitonto ad Acquaviva furono fatte brevissime fermate a Palo, a Bitetto ed a San Nicandro. Sì giunse in Acquaviva alle dieci di sera. I preparativi per le feste erano stati diretti da monsignor Falconi. Case riccamente addobbate, alti archi ed epigrafi riboccanti d’iperboli. Quella sulla porta della città, sotto l’immagine della Madonna di Costantinopoli, diceva: Vergine di Costantinopoli — Madre di Dio e degli uomini — di questa città dopo Dio — speranza prima — tu che ne’ nostri bisogni — la seconda prece non attendi — questa grazia — impetraci dal figlio tuo — che questi angioli di viaggiatori — che innanzi al tuo santuario — umilmente si prostrano — mai non muoiano — alla tua gloria, al nostro amore — alla felicità de’ loro popoli. Sotto l’arco, proprio all’ingresso della città, attendevano il re, il clero con monsignor Falconi alla testa, le autorità circondariali e municipali e i primarii cittadini, con cari accesi. Vi erano pure sessanta bambini, vestiti con pantaloni bianchi e giacchette celesti e rami d’ulivo in mano, e che tremavano dal freddo. lire non sostò un momento e andò dritto al palazzo dell’arciprete. I dolori gli si erano rincruditi.


Monsignor Falconi, direttore supremo delle feste e scrittore delle epigrafi, era sontuoso in tutto: nello stile, nelle immagini, nei conviti, nelle abitudini. Alto e vigoroso della persona, egli era nativo di Capracotta; ed essendo stato, per alcuni anni, segretario dell’arcivescovo Clary a Bari, aveva rivendicata la palatinità delle chiese di Acquaviva e Altamura e ne aveva ottenuto titolo di arciprete mitrato e giurisdizione episcopale: beneficio, che gli fruttava circa seimila ducati l’anno. Era fratello del procuratore generale Falconi, e zio dell’attuale deputato. Tanta fiducia riponeva in lui Ferdinando II, che volle pernottare in Acquaviva ad ogni costo, nel palazzo dell’arciprete, non in quello che fu di casa Mari, e passò poi in possesso di don Sante Alberotanza. Nel palazzo di don Sante alloggiarono Murena, Bianchini ed altri del seguito, e vi stettero assai a disagio. Il principe e la principessa della Scaletta furono [p. 443 modifica]obbligati a passare la lunga notte in veglia, tanti erano gl’insetti che popolavano la camera loro destinata. Il re apparve a tutti dimagrito e invecchiato. Al pranzo provvide la cucina reale; agli altri, molto suntuosamente, monsignor Falconi, che aveva un ottimo cuoco. Il vino fu offerto da don Girolamo Jacobellis, il quale, prima di consegnarlo, lo assaggiò alla presenza di molti, forse per eccesso di prudenza; ma il vino servì al seguito, non alla famiglia reale. Il re si ritirò quasi subito con la regina, nella sua camera da letto. Il solaio di questa, essendo poggiato su travi perchè malsicuro, era stato fatto da monsignor Falconi puntellare. Cadde pochi giorni dopo.

La mattina del 13, Ferdinando II si levò di buon’ora, e dopo avere atteso agli affari della provincia e del circondario, accolse gli omaggi delle autorità, del clero e dei maggiorenti e diede pubblica udienza. Molte, come dappertutto, le suppliche. Acquaviva rigurgitava di forestieri. V’erano convenute le guardie d’onore del circondario, i sindaci e i decurioni dei comuni vicini. La piazza, che separa l’episcopio della chiesa, brulicava di contadiname; e gremiti i balconi, le finestre e le terrazze. Tutti sventolavano fazzoletti e bandiere e applaudivano al re, che, alle dieci, uscì dal palazzo vescovile, insieme con la regina i e principi e si recò, a piedi, alla vicina cattedrale. A una povera donna, che lo richiedeva di elemosina, fece largire trenta ducati. Alla porta della chiesa le guardie d’onore e le urbane facevano ala e, all’ingresso, aspettava monsignor Falconi, circondato dal capitolo. Prima di benedire la famiglia reale con l’acqua santa, monsignore pronunziò un discorso, che, per le strane iperboli, merita di essere esumato. Con citazioni delle sacre carte, il prelato cominciò dal delineare la figura del vero re, immagine di Dio in terra, e poiché tutte le virtù, che debbono adornare un sovrano, egli rinveniva, in grado eminente, in Ferdinando II, la cui gloria è esaltata dalle prime intelligenze europee, così chiudeva la sua concione: “Sì, o Sire, d’oggi innanzi pregheremo ancor più; e pregheremo Dio che vi conservi lunga serie di anni alla sua Divina gloria, all’amore dei vostri popoli, che tre amano, e vi amano dì cuore, ed alle delizie della Vostra Famiglia. Pregheremo che tenga lungi da voi ogni generazione di amarezze; che tre dia giorni sereni e tranquilli, e che compia ogni vostro desiderio, ch’essendo desiderio di padre, e [p. 444 modifica]di padre il più pio, il più giusto, il più tenero de’ suoi figli, non può non essere accetto e caro a lui, re dei re, Sole di giustizia, Padre primo dei popoli tutti della terra. Pregheremo infine che vi colmi d’ogni maniera di grazie con cotesta fulgidissima Stella che allato risplende, esempio anch’Ella di virtù preclarissimo, e col principe ereditario, erede veramente dell’ingegno e della pietà, della giustizia e degli altri pregi di mente e di cuore del padre, e cogli altri Reali principi e principesse„. Chiamare la regina Maria Teresa fulgidissima stella parve audace. Il re ascoltò il sermone in piedi, dando segno di stanchezza; e poi, proceduti dall’oratore, i sovrani presero posto presso l’altar maggiore. Dopo il canto del Domine salvum fac regem, l’arciprete invitò il re a prender possesso dello stallo canonicale che, come prima dignità del capitolo, gli spettava nelle chiese palatine. Compiuta questa cerimonia, la famiglia reale si recò ad ascoltare la messa, detta dallo stesso prelato nella cappella delle Grazie.


I sovrani ed i principi furono ai presenti modello di divozione. Finita la messa, uscirono dalla chiesa. Alla porta si trovavano pronte le carrozze, attorno alle quali erano i sessanta bambini, che li avevano ricevuti all’arrivo, nello stesso costume e con gli stessi rami d’ulivo. Prima di salire in vettura, il re si fermò dinanzi alla chiesa, rivolgendo al prelato varie domande sull’architettura del tempio. Si partì alle lì per Gioia, in mezzo alle acclamazioni del popolo. Le autorità accompagnarono i Sovrani sino a Gioia. All’ingresso di questo grosso comune era stato innalzato un grande arco, sormontato da epigrafe esprimente che i gioiesi, con sensi di devoto e figliale attaccamento — esultanti — imploravano lunghi e sereni giorni ai Sovrani. La fermata di Gioia fu breve. Questa era l’ultima tappa di Terra di Bari, ma in Terra d’Otranto dimostrazioni ancor più goffe e superlative attendevano il re. Da Castellaneta, Laterza, Ginosa, Palagianeilo, Palagiano, Montemesola, Grottaglie e Mottola erano accorsi cittadini e autorità in folla, e da tre giorni bivaccavano a San Basilio, grande tenuta del duca di Sangro, dove ora sorge un bel monumento, che la pietà paterna ha innalzato all’unico infelice figliuolo. Erano circa quattromila persone, comprese parecchie compagnie di guardie urbane, con bandiere e concerti. V’erano arrivati, nella mattina, l’intendente della [p. 445 modifica]provincia Sozi Carafa, il sottointendente di Taranto, De Monaco e altre autorità. Sorgeva anche laggiù un arco di stile dorico con relative epigrafi. Acclamazioni e applausi, accompagnati dall’inno reale, salutarono i sovrani al loro apparire, ma questi si fermarono il tempo necessario per il cambio dei cavalli, nè discesero dalla vettura. Parve che il re ricevesse freddamente il Sozi Carafa, memore, si disse, della inchiesta, fatta fare due anni prima dal magistrato don Scipione Jocca, ani lavori stradali della provincia, e che riuscì sfavorevole all’intendente, rimasto in carica, si diceva, per protezione della regina; ma erano voci create da malignità. Sozi Carafa, che io conobbi dopo il 1860, modesto impiegato in una casa di spedizioni marittime, morì poverissimo; e, politica a parte, fu uno dei migliori funzionarli mandati a reggere la Terra d’Otranto. Da San Basilio la strada s’inerpica pittorescamente, per quattro miglia, sulla collina dì Mottola. E di mano in mano che la real comitiva avanzava, seguita da tutta quella turba a piedi e a cavallo, nel maggior disordine, ma sempre plaudente ed urlante, si apriva alla vista il maraviglioso panorama del golfo di Taranto, coi monti di Basilicata e di Calabria. Essendo stati cambiati i cavalli a San Basilio, e dovendo essere ricambiati a Massafra, i Sovrani non sostarono a Mottola che qualche minuto. Nel punto, in cui s’incrociano le quattro strade, innanzi alla piccola locanda del paese, era accorsa tutta la cittadinanza, con alla testa il sindaco notar Leonardo Caramia, i decurioni, il giudice regio e le signore, le quali avevano apparecchiato il cioccolatte da offrire ai sovrani, e imparato il cerimoniale dell’offerta, ma questi non accettarono. Sollevò l’ilarità generale il giudice regio Pìrchio, che nella confusione, volendo passare dalla parte della strada, dov’era aperto lo sportello della carrozza reale, non vide un mucchio di sassi e vi ruzzolò sopra, rialzandosi col viso pesto e gli abiti sporchi. Il re non si potè tenere dal ridere, quando se lo vide dinanzi conciato a quel modo. Delle tre guardie d’onore di Mottola, due erano andate a San Basilio, don Giovannino Mignozzi e don Angelo Cardinali, e la terza, don Titta Sabato, era confuso nella folla in abito borghese, perchè attendibile.

Partiti da Mottola, il re e la regina passarono sotto un altro arco a Massafra, e dove, per l’ultimo cambio di cavalli prima di [p. 446 modifica]arrivare a Taranto, i sovrani sostarono dieci minuti, ricevendo gli omaggi delle autorità. I massafresl si abbandonarono alle più pazze esultanze e gridavano a coro: “grazie, grazie, Maestà„. Il re chiese: “e che grazie volete?„ e quelli, con più alte grida: “basta che t’avimmo visto, Maestà„. Il re, cui tardava di proseguire il viaggio, di tutte quelle dimostrazioni grottesche era seccato e dava manifesti segni d’impazienza. Era il sesto giorno di viaggio; il moto della carrozza aumentava le sue sofferenze, e però aveva gran, fretta di arrivare a Lecce, dove contava riposarsi a lungo.


Si giunse a Taranto alle 4 1/2. Uno squadrone di dragoni precedeva le carrozze, salutate, al loro apparire, da acclamazioni ed applausi frenetici. I tarantini erano usciti fuori dalla città, incontro ai Sovrani. Attendevano alla porta di Napoli il sindaco Giacinto Mannarini, un uomo di corporatura enorme, e tutti i decurioni, fra i quali, ricordo, Tommaso Ciuria, Luigi Grassi, Michele Franco, Francesco Piccione, Gaetano Latagliats, Gaetano Portacci e Nicola Greco; nè mancavano i consueti rappresentanti delle confraternite e delle corporazioni religiose. Il re, senza fermarsi, si diresse all’episcopio; e poichè la carrozza reale a stento poteva procedere fra le anguste vie della città bimare, e in mezzo ad una folla acclamante e schiacciante, i gendarmi adoperavano il calcio dei fucili per far largo. Ferdinando II rimproverò aspramente, e furono coperte d’applausi le sue parole: “Voi non sapete fare il vostro dovere; il gendarme non deve battere, deve occupare il posto„. E giunto all’episcopio, dove lo attendevano monsignor vescovo Rotondo, arcivescovo di Taranto, monsignor Margarita, vescovo di Oria, e tutte le dignità capitolari, suo primo atto fu di punire con gli arresti in fortezza il comandante dello squadrone di cavalleria, perchè i cavalli erano quasi sfiniti dalla stanchezza. E al figlio del comandante, che tentò intercedere per il padre, rispose parole severe. Il re era di pessimo umore. Appena scese di carrozza, il comandante del castello gliene presentò le chiavi, sopra un cuscino di velluto. 11 re le respinse, dicendo: “Stanno bene affidate„; ed avendogli il comandante chiesto se si dovessero fare le salve d’onore, il re rispose: “Fate tutto quello che mi spetta„. E così il cannone cominciò a tuonare. Prima che il comandante [p. 447 modifica]s’allontanasse, Ferdinando gli chiese, in tono ironico: “Che fanno ’e fratielli? Ce stanno fratielli a Taranto?4 Egli chiamava con questo nome i liberali, e specialmente i repubblicani. Il comandante lo rassicurò che Taranto era città tranquilla e fedele. Sull’episcopio salirono la regina e i principi; il re andò a vedere la batteria Carducci in costruzione. Rimproverò la lentezza dei lavori; disse che si era speso troppo, e uscì in queste parole: “Si se mettessero ’e pezze che se so spese, una ’n coppa all’auta, se farìa na torre chiù alta ’e chesta ccà„.5 Poi si recò con tutti alla cattedrale, dove fu cantato il solito Te Deum. Le vie, erano riccamente addobbate. Dalla cattedrale si andò di nuovo all’arcivescovado dove monsignor Rotondo aveva fatto preparare un lauto pranzo, ma il re, la regina e i principi non vollero accettar nulla, e all’arcivescovo, che insisteva perchè sedessero a tavola, Ferdinando II rispose che preferiva che gli fosse apprestata qualche cosa in una cesta, per mangiarne lungo la strada. Osservando l’ampiezza delle sale dell’episcopio, disse iperbolicamente al vescovo, ch’egli aveva un palazzo più vasto della reggia di Caserta. Al sottointendente De Monaco ordinò che si nettasse il porto e si riaprissero la salina e la salinella di San Giorgio: due piccole lagune, concesse fin dal 1849 dal demanio dello Stato in enfiteusi perpetua ai signori Onofrio Scarfoglio, Giovanni Milena e Luigi E pi fa ni, con l’obbligo delle spese per mantenere la bonifica, ma la cui manutenzione era trascurata con danno della città. Cosa strana: di autorità municipali nessuna potè giungere al re, e però non ebbero l’opportunità di esporgli i bisogni del paese, come avevano in animo. Il Deourionato deliberò, il 19 gennaio, d’inviare per questo un’apposita deputazione a Lecce, la quale fu composta dal sindaco Mannarini, don Gaetano Portacci, don Domenico Sebastio di Santacroce, il commendatore Ferdinando Denotaristefani e Cataldo Nitti “benemerito cittadino — sono parole testuali del verbale della deliberazione — che tanto seppe con la sua opera data alla luce interessarsi al sollievo della povertà di Taranto; i quali tutti, scienti delle bisogna del paese, troveranno modo come supplicare la Munificenza del Principe [p. 448 modifica]Regnante, ed ottenere a questa città tutti i possibili e duraturi vantaggi„. Alle nove si partì per Lecce, tra le solite ovazioni.


Da Taranto a Lecce viaggio interamente di notte. A pochi chilometri da Taranto scesero tutti alla masseria Cimino, a destra della strada, dove erano magnifiche robinie. Era un bel chiaro di luna, che si rifletteva sulle onde tranquille del mare Piccolo, e benché fosse nelle prime ore della sera, il mite clima messapico temperava il rigore della stagione. La immaginosa e vivace principessa della Scaletta ricordava con caratteristica compiacenza quella fermata e le barzellette del re, al quale pareva tornato il buon umore. Cenarono in piedi e si rimisero in viaggio. L’ampia strada consolare era densa di popolo, e qua e là sorgevano archi con lumi ed epigrafi che non si leggevano. Gli abitanti di San Giorgio, Carosino, Fragagnano, Monteparano, Sava, Mandorla, Oria, erano accorsi con i corpi municipali, le guardie d’onore e le urbane, sfidando il freddo. Ma il re passò senza guardarli neppure. Traversò Manduria a trotto serrato, ch’era scorsa la mezzanotte. Mandorla, patria di Niccola Schiavoni e di altri condannati e profughi politici, era città antipatica al re. La vecchia madre dello Schiavoni aveva preparata una domanda di grazia da consegnargli, ma non le fu possibile. Si arrivò a Lecce alle cinque, a notte fitta. Gli augusti viaggiatori erano aspettati dal giorno avanti, e nessuno credeva che sarebbero giunti in quell’ora, mattutina e rigida. Le autorità ne ebbero avviso solo alle quattro, quando giunse improvvisamente la staffetta, che precedeva di cinque miglia la carrozza reale. La notizia si diffuse subito per la città, ma mancò il tempo dì eseguire quanto era stato stabilito. Si era fissato che alcune signore sarebbero andate incontro alla regina fuor di porta Napoli ad offrirle dei fiori, mentre il sindaco avrebbe presentato al re, secondo l’antico costume, le chiavi delle città; ma non se ne fece nulla. Poca gente si trovò ragunata a porta di Napoli, dove si era innalzato un arco di trionfo. Le autorità preferirono attendere i sovrani sullo scalone del palazzo dell’Intendenza, dove il re con la famiglia e il seguito doveva alloggiare. All’arredamento del palazzo per la circostanza avevano concorso le famiglie leccesi più cospicue. Penserini prestò la biancheria da tavola e da letto; Panzera e [p. 449 modifica]Romano, la mobilia e i lampadari, e Romano, ch’era sindaco, anche l’argenteria da tavola e da sala.

La carrozza reale, tirata da quattro cavalli storni romani, giunse a trotto serrato a porta di Napoli. La precedevano quattro dragoni, che illuminavano la via con torcie a vento; altri sei dragoni la seguivano; tutte le campane delle chiese suonavano a festa. Al re, nel salutare gli astanti, cadde di mano il berretto: un popolano lo raccolse, ma Ferdinando II, si disse, non lo rivolle e, aperta una valigia, che aveva dinanzi, ne prese un altro. Le guardie d’onore, Giuseppe Libertini, Francesco Quarta, Francesco Russo, Gesualdo Sanguinetti, Pasquale Ceino, Attilio Jurlaro, Giuseppe Tresca-Giovinazzi, Pasquale Bauli, il cavalier Venturi formavano il drappello di servizio, ma Ludovico Tarsia e Giuseppe Maggi di Martina Franca, bei giovani, aitanti della persona, si distinsero, per forza di resistenza, nel seguire al trotto serrato le carrozze senza dar segno di stanchezza. Lentamente le vetture percorsero il viale di Napoli, illuminato con legna di pino su canestri di ferro, e le vie del Vescovado e delle Quattro Farmacie addobbate con parati di carta. La meschinità degli addobbi era compensata dall’ampollosità delle epigrafi, che si leggevano in ogni punto e superanti in goffaggine tutte le altre. Una diceva: Vieni — o Ferdinando Augusto — fra i plausi ed i voti — della tua Lecce — se lontana di sito — vicinissima d’affetto; e un’altra: Reputò assai lontana la Reggia — Ferdinando II — principe munificentissimo — per intendere t voti e le suppliche — della Città di Matennio e sino a lei venne sollecito — malgrado i rigori jemali — 13 gennaio 1859 — per interrogarla egli stesso — e a tutti i bisogni di lei — paternamente provvedere. Alle finestre e ai terrazzini, nonostante l’ora incomoda, si sporgeva una moltitudine di signore e di signori, plaudenti e sventolanti bandiere e fazzoletti. La signora Stella Donadeo, vedova di Michele Spada di Spinazzola, che nonostante fosse fresca di parto, volle vedere quello spettacolo, ne prese una malattia, e ne morì. Il cortile del palazzo dell’Intendenza era illuminato a luce elettrica: portentosa novità dovuta al padre Miozzi, professore di fisica nel collegio reale dei gesuiti e al professore Giuseppe Eugenio Balsamo, che poi fu deputato dì Lecce, naturalmente di sinistra. Le vetture entrarono nel grande atrio del palazzo fermandosi innanzi allo scalone, dove erano [p. 450 modifica]convenuti il sindaco, Pasquale Romano, i decurioni Giovambattista Guarino e Pasquale Pensini, il segretario generale De Navi, lo stesso, che il re aveva trovato in Calabria sette anni prima, il presidente e i giudici del tribunale, nonchè donna Maria Morelli, la baronessa Gualtieri, il barone Giovanni Casotti, il sacerdote Giuseppe Centonze, ex-cappellano militare, e altri pochi. Tutti avevano torce accese in mano. Sceso di carrozza, il re chiese scusa di esser giunto in ora così mattutina e di aver disturbate tante persone; poi, tirando su con tutt’e due le masi i calzoni, com’era suo costume, disse alla guardia d’onore Tommaso Caputo, che aveva accanto: “Fa molto freddo, guardia„; e il Caputo prontamente rispose: “Maestà, questo freddo non è bastato a intiepidire la devozione della cittadinanza, che ha voluto vedervi e salutarvi„. La risposta piacque al re, che la ripetè nel ricevimento delle autorità. Si fermò ad ammirare il cortile illuminato a luce elettrica, e poi cominciò a salire l’erto scalone quasi penosamente. Fatti i primi scalini, notò un ufficiale di ponti e strade, addetto alla piazza di Lecce, Luigi Lamonica; e fermandosi dinanzi a lui, lo rimproverò severamente per le cattive informazioni, che disse aver ricevute sul suo conto; del che è facile immaginare quanto il pover’uomo si sentisse umiliato. Entrò nel suo appartamento dicendo che aveva freddo e chiese del fuoco. In nessuna sala si erano accesi i caminetti: si provvide come meglio si potè, ricorrendosi persino all’espediente di mettere cenere calda in catinelle, per riscaldare mani e piedi. Il re non volle che una tazza di brodo e la bevve con le spalle appoggiate ad uno de’ caminetti, che s’era potuto accendere. E dopo un quarto d’ora, licenziato il seguito e fatti ringraziare gli altri, insieme con la regina, si ritirò nella sua camera da letto, dove Galizia aveva distesa e apparecchiata la stessa branda servita ad Ariano, a Foggia, ad Andria e ad Acquaviva. Il re si buttò sulla branda, vinto dalla stanchezza, si fece coprire bene e riposò poche ore.


Si levò alle sette, e dopo aver ascoltata, con la regina e i principi, la messa, detta dal vecchio monsignor Caputo nella cappella del palazzo, si trattenne con Murena e con Bianchini circa le cose di governo, e con Sozi Carafa su gli affari della provincia. Più tardi ammise al baciamano le autorità, e diè udienza [p. 451 modifica]pubblica a quanti volevano chiedergli grazie, e furono infiniti. Il re era in piedi nel grande salone dell’Intendenza, la regina gli sedeva a destra, e intorno i principi. Alle loro spalle, e a qualche distanza stavano il principe e la principessa della Scaletta e gli altri dignitarii; alla porta del salone, l’intendente. Sì recarono ad ossequiare i sovrani, prima degli altri, oltre a monsignor Caputo, monsignor Vetta, vescovo di Nardò, monsignor Francesco Bruni, vescovo di Ugento, quasi tutti i signori di Lecce e della provincia, i priori delle congregazioni laicali e i capi degli ordini religiosi. Le signore erano presentate alla regina dalla moglie del sindaco, donna Felicetta Romano dei baroni Casotti, Alle due, i sovrani e i principi, in carrozze offerte dai signori leccesi, andarono a visitare il duomo, aprendosi a stento un varco in mezzo alla folla. Nella navata maggiore erano schierati in doppia ala, fin dal mattino, a dragoni della guardia; uno di essi, stanco dalla lunga attesa, cadde svenuto, ma si riebbe subito. I sovrani si assisero sotto il trono del vescovo, il quale si collocò dirimpetto, in cornu epistolae e, dopo un discorso e il canto del Te Deum, impartì loro la benedizione, I principi, i dignitari, il sindaco e le altre autorità sedettero agli stalli canonicali. Il re volle poi vedere l’altare di Sant’Oronzo, patrono di Lecce, ed accortosi che fra gli ornamenti mancava un paliotto d’argento, fece promessa di questo dono, promessa che, solo molti anni dopo, venne sciolta dal figlio Francesco.

Usciti dal duomo, i sovrani e i principi visitarono l’educandato delle fanciulle, detto delle Angiolille, diretto dalle suore della carità; furono molto soddisfatti dei lavori delle alunne, e udirono composizioni poetiche per la circostanza. Erano fra le educande due nipotine di Niccola Schiavoni. Le ragazze, piangenti, presentarono al re una supplica, ma il re passò innanzi senza darsene per inteso. Tornati al palazzo, i sovrani tennero circolo, cui presero parte le signore leccesi presentate nella mattina. Alle sei di sera, una sera splendida ma rigidissima, l’atrio dell’Intendenza fu di nuovo illuminato con la luce elettrica del padre Miozzi. La grande lampada era stata collocata nel mezzo del cortile; dagli archi pendevano candelabri, e ai lati enormi fanali, con effetto veramente magnifico.

Alle sette era fissato lo spettacolo di gala al teatro, col ' [p. 452 modifica]TroTrovatore; ma il re, saputo che in Lecce sì trovava il noto buffo napoletano Mazzarra, disse; “Che Trovatore e Trovatore, voglio sentì don Checco; me voglio divertì„. E, in poche ore si dovette allestire il nuovo spettacolo. Il teatro, teatro così per dire, era allora dov’è presentemente il Paisiello: un locale vecchio e affumicato, a cui si addossavano catapecchie cadenti. Lo addobbarono alla meglio, con festoni di fiori, e con triplicati illuminazione. Il palco di mezzo fa destinato alla Corte. Molti spettatori occupavano gli altri palchi, ma la platea era sul principio quasi vuota per l’alto prezzo del biglietto di entrata, sei carlini, stabilito dal direttore don Alfonso Scarfoglio, onde l’intendente ordinò ingresso gratuito a quanti fossero decentemente vestiti, e così la platea si riempi in un attimo. All’ingresso prestavano servizio le guardie d’onore. Il re venne ricevuto dalla commissione nel piccolo atrio; e poiché le cerimonie del ricevimento furono lunghe, dovè restare a capo scoperto per qualche minuto, sulla porta, mentre soffiava forte la borea che penetrava nella platea. La sua alta persona sporgeva quasi tutta fuori del palchetto, angusto per lui. Due gendarmi si collocarono sul palcoscenico, presso ai due palchi di proscenio. La regina sedeva allato al re, e i principi in un palchetto accanto. Alzato il telone, gli alunni del reale ospizio di San Ferdinando cantarono un inno achillinesco, scritto per la circostanza da Enrico Mastracchi e musicato dal maestro Carlo Cesi. Cominciava:

Salve, o Re, che tua gloria ponesti
Nella pietà, che in fronte ti brilla;
Tu qual astro su poveri mesti
Balenasti di lieto fulgor.

E finiva:

Ah, se un di funestissimo il tempo
Da quest’alme il tuo nome cancelli;
In quel dì restin muti gli augelli
Manchi al sole l’usato splendor.

Il poeta serbò fede ai Borboni, e io lo conobbi, venticinque anni dopo, in Roma, direttore d’un giornale clericale. Durante la rappresentazione, Ferdinando II parlò con Murena e con diverse autorità. E poiché, come ho detto, aveva l’abitudine di tirarsi su per la cintola i pantaloni, gli spettatori dovettero [p. 453 modifica]levarsi in piedi quattro o cinque volte, credendo che egli andasse via. Alla fine del primo atto si alzò veramente. Era stanchissimo; la notte avanti non aveva dormito; in teatro aveva sentito più forti i brividi di freddo. All’Intendenza ebbe luogo una sontuosa cena, dopo che dal balcone i sovrani ebbero veduti i fuochi artificiali, che chiusero le feste di quel giorno; ultime feste! Alle undici il re si mise a letto. La partenza per Bari era fissata la mattina seguente, alle nove e mezzo.


Nella notte il re ebbe il primo assalto del male. Crebbe il dolore ai lombi e un senso di oppressione gl’impedì di dormire. Aveva la febbre. All’alba (era di sabato) l’intendente fu chiamato in tutta fretta dalla regina; ed entrato nell’appartamento reale, apprese in anticamera il malessere e la insonnia del sovrano. Dopo un momento comparve la regina, che lo richiese di un medico. “Ne abbiamo due, Maestà, rispose Sozi Carafa, il D’Arpe e il Leone; di maggior grido e valore il primo, ma vecchio liberale; l’altro più giovane, anche liberale, ma uomo d’ordine„. “«Si chiami il secondo„, ordinò la regina. E fu chiamato il dottor Giuseppe Leone, di famiglia piuttosto liberale, bel giovane, intelligente e assai stimato nella sua professione. Non vide subito il re, ma dai sintomi della malattia, che la regina gli espose, giudicò impossibile la partenza, e fu risoluto di non partire. Le rappresentanze, venute per ossequiare i sovrani, insieme con le rispettive bande musicali, formavano una folla, che assordava la città con grida ed evviva e occupavano tutto l’atrio del palazzo e la spianata tra il palazzo e il giardino pubblico. Nella giornata il re si aggravò, nò migliorò durante la notte seguente. Era cresciuta la febbre, sentiva una gravezza al capo e un peso allo stomaco; diventati più tormentosi i dolori ai lombi. Volle di suo oapo cavarsi sangue. Fu mandato a chiamare il miglior flebotomo di Lecce, don Antonio Marotta. Era il 16 gennaio.

II Marotta, sorpreso dell’invito, fattogli da un gendarme, corse all’Intendenza. Il primo che vide fu Sozi Carafa, il quale per dargli coraggio, gli disse: “Marotta, come salassi me, salassa Sua Maestà„. Indi entrò nella camera del re, dove già stavano la regina e il dottor Leone. All’inchino del Marotta, Ferdinando II rispose: “Bongiorno masto„, e si levò a sedere [p. 454 modifica]sul letto, rimboccando la manica destra della camicia da notte, una camicia a righe bianche e azzurre. Poi entrarono i tre principi che gli baciarono la mano, dicendo; “Buon giorno, papà; come state?„ e si allinearono come tre soldati accanto al letto. Ferdinando II chiese al Marotta se avesse portata una lancetta nuova, e poichè quegli rispose di no, volle che lavasse quella, che aveva, accuratamente. Allora entrarono i servi con l’occorrente per il salasso. Il re scese dal letto, si avvicinò alla immagini che stavano sopra il cassettone e, inchinato il capo, si unse la fronte con l’olio delle lampade che ardevano avanti ad esse. Il Marotta compì, con molta cura, il suo ufficio e al primo zampillo di sangue, un sangue di color rosso cupo, quasi nero, gridò; “Salute, Maestà„. Due servi in ginocchio reggevano la catinella. Compiuto il salasso, il re chiese; “Quanto me n’avite cacciato? — “Dicci once; questa è la regola, Maestà„, rispose il Marotta. E il re, stringendogli il braccio: “Grazie, masto; m’avite data ’a salute; ’o signore v’ ’o renne, figlio mio„.6 Il duca di Calabria porse il taffetà per rimarginate la ferita. Al Marotta furon date trenta piastre per il suo servizio, ma il salasso non restituì punto il benessere al re, anzi il male si inasprì. Lo tormentavano con maggiore insistenza la tosse, il vomito e il peso allo stomaco, tanto che il dottor Leone, credendo che si trattasse di congestione polmonare con complicazione gastrica, prescrisse dell’acetato ammoniacale.


In città si sapeva che Ferdinando II era indisposto, ma nessuno immaginava la gravità del caso, perchè alle guardie d’onore e a quanti prestavano servizio presso i sovrani, si erano impartiti ordini rigorosi di serbare il silenzio. Si accreditava la voce che tutto dipendesse dai disagi del viaggio, dalla rigidità della stagione e che si trattasse di lieve catarro. Il re non voleva medicine, dicendo che lo stomaco non gli permetteva di prenderne. Per fargli bere l’acetato ammoniacale e per togliergli dall’animo ogni sospetto, il dottor Leone andò egli stesso alla farmacia Greco, insieme col maestro di casa Martello, che dirigeva il servizio all’Intendenza e se ne fece preparare dal farmacista due pozioni in bicchieri distinti. Tornato dal re, gli [p. 455 modifica]disse che un bicchiere era per Sua Maestà e uno per sè. Ferdinando II gli dichiarò di avere in lui piena fiducia; ma, nonostante, il dottor Leone bevve la pozione. Il re sorrise e bevve la sua. Dopo quella volta, egli prese qualunque cosa gli fosse ordinata dal medico, che successivamente gli prescrisse sale inglese, tartaro e olio di ricino, ma con poco sollievo dell’infermo, che, non potendosi levare, e volendo sentire ogni giorno la messa, ordinò che si preparasse l’altare sopra un tavolino, nella medesima camera sua. Monsignor Caputo celebrava il divino ufficio, assistito dai canonici Cosma e Campanaro, che furono poi nominati cavalieri dell’ordine di Francesco I. La regina sedeva accanto al letto del re e non l’abbandonava mai. Ella ed i principi si facevano servire il pranzo nella camera dell’infermo su di una tavola, che vi si portava ogni volta. Lunghi discorsi faceva il re col dottor Leone, il quale, pregato dalla regina, non abbandonava, neppure di notte, l’infermo. Un giorno Ferdinando II lo interrogò sulle idee politiche, ed alle dichiarazioni ricevutene replicò confutandole con un lungo discorso, nel quale si affermò il sovrano più liberale d’Italia. Nonostante le cure del dottor Leone, il male non accennava a cedere. Per maggior sicurezza la regina, fin dal secondo giorno, aveva telegrafato al dottor Ramaglia di partir subito per Lecce. Ma il Ramaglia arrivò cinque giorni dopo. Scese all’albergo, oggi del Risorgimento, e di là, in marsina e cravatta bianca, si recò all’Intendenza, tra la molta maraviglia di quanti videro questo vecchietto elegante e vispo, che nessuno conosceva, non alto di statura, ma dall’aspetto signorile c sorridente accompagnato da un giovane non più alto di lui. Quando poi si seppe che il primo era don Pietro Ramaglia, e il secondo il suo assistente Domenico Capozzi, che doveva più tardi acquistarsi un nome da uguagliare quello del maestro, cominciarono i primi sospetti sulla gravità della malattia. Giunto al palazzo il Ramaglia fu ricevuto dalla regina, che non gli volle far vedere subito il re per non allarmarlo, ma lo informò largamente del suo stato.

I due dottori ebbero un primo colloquio o consulto. Il Ramaglia, che aveva la debolezza, cresciuta con gli anni, di credere d’intuir le malattie senza esaminare l’infermo, giudicò, da principio, il male del re una febbre reumatico-biliosa. Il dottor [p. 456 modifica]Leone l’aveva definita reumatico-catarrale, con complicazione gastrica; ma il Ramaglia insistè per la biliosa, perché egli sapeva, aggiunse, a quali dispiaceri fosse andato soggetto il re. Dopo la visita, Ramaglia confermò la sua diagnosi, ma forse capi che il osso era più grave di quanto avesse supposto. E poiché si era meravigliato di non vedere presso il re il valoroso dottor D’Arpe, suo amicissimo, volle andare a vederlo e gli ohiese: “E non ti chiamarono per il re infermo?„ — “Non sono il medico del tempo„, rispose il D’Arpe. “Curiamo la febbre, disse il Ramaglia, ma temo che lo sfacelo andrà più oltre„; e seguitò a curare la febbre, la quale dai sintomi, che si manifestarono posteriormente, apparve causata da quell’ascesso all’inguine, che, non curato da principio, avvelenò via via il sangue e cagionò la morte del re. Il Ramaglia aveva tutto il tipo del medico cortigiano: epperò cercava innanzi tutto d’illudere sè stesso circa la gravità del male, se pure non si voglia ritenere quel che molti ritennero fin d’allora, ch’egli non avesse capita la malattia, e per non confessarlo, dichiarasse più tardi immaginarii i primi dubbi del dottor Niccola Longo. Era loquacissimo, sempre disposto al riso, alla barzelletta e all’adulazione. I maligni dicevano che, dopo il desinare, rifiutasse di far visite.


La notizia della malattia del re, nonostante l’assoluto divieto di parlarne, si diffuse rapidamente nella giornata del 16, perchè, ricorrendo in quel giorno il natalizio del duca di Calabria, la Corte non prese parte alle feste preparate. La mattina s distribuirono ventiquattro letti e ottanta camicie ai poveri, per il valore di trecento ducati e cento ducati furono largiti in elemosine. Suonarono le bande nelle piazze e a mezzogiorno si cantò in duomo un solenne Te Deum, con l’intervento delle autorità in grande uniforme; ma l’assenza dei principi contribuì ad accreditare le notizie allarmanti circa la salute del re. A fine di attenuare questa impressione, si volle che nei giorni seguenti continuassero le feste, e i tre principi, scortati da dragoni a cavallo e da guardie d’onore, facessero lunghe passeggiate in camma sino ai paeselli intorno Lecce, e uscissero a piedi per la città, visitando gli stabilimenti e gl’istituti pii. In una di queste pw saggiate, un operaio di Gaballino chiese al duca di Calabria un ricordo, e questi gli fece dare una piastra d’argento. Un altro [p. 457 modifica]giorno, tornando in carrozza da un giro lungo le mura, accompagnato dalle guardie d’onore Tommaso Caputo, Alessandro e Gaetano Sauli di Trioase e dalle guardie Carducci e Liberatore di Taranto, che, a cavallo facevano da battistrada, vide fermo all’angolo del palazzo Libertini, don Luigi de Vitis, un prete stravagante, il quale dopo i! 1860 gettò la sottana alle ortiche. Appena il principe gli fu vicino, il prete cavò dall’abito una supplica, ma la mossa fu così rapida che si credette a un attentato, e le guardie d’onore si strinsero intorno al duca di Calabria, e dietro a loro si formò subito un po’ di folla. Però visto che si trattava di ben altro, tutti risero, ma Francesco, impaurito, gridò alle guardie d’onore: “Caricate questa folla„, e volle rientrare in palazzo. I principi visitarono l’orto sperimentale e l’orto agrario, come pure il liceo e il convitto, di cui era rettore il padre Carlo Maria Blois, napoletano, fratello dell’ingegnere di ponti e strade, Fedele Blois. Nella cappella del collegio, il duca di Calabria s’inginocchiò al disotto del gradino dell’altare, dicendo: “Sul gradino, no, perchè questo è il posto dei preti„. Pietro Acclavio di Taranto, alunno del convitto, declamò in quella occasione una poesia scritta dal padre Baroni, maestro di rettorica, per accompagnare il dono d’un quadro rappresentante la Madonna col bambino. La poesia cominciava cosi;

L'immagine di Colei che t’ama tanto
E che tu riami...

Durante la visita, l’intendente Sozi Carafa stanco e assonnato si buttò sopra un divano e i principi nell’uscire lo sorpresero che russava. I principi videro anche gli orfanotrofi di San Ferdinando e di Santa Filomena e il convitto delle suore della carità. Queste, per mezzo dell’intendente, avevano mandati alla regina alcuni oggetti tessuti con lana di pesce che si raccoglie nelle acque di Taranto.

L’arrivo del Ramaglia aveva convinto tutti che le condizioni di Sua Maestà erano gravi, ma, qualche giorno dopo la venuta del celebre medico, si verificò un notevole miglioramento. Diminuì la febbre, anzi scomparve addirittura il 23, vigilia dell’arrivo in Brindisi degli arciduchi d’Austria, Guglielmo e Ranieri e dell’arciduchessa Maria. L’arciduca Guglielmo e l’arciduchessa Maria erano germani della regina Maria Teresa, e l’arciduca Ranieri era marito dell’arciduchessa Maria. [p. 458 modifica]Andavano a Lecce per informarsi della vera malattia di Ferdinando II, della quale erano pervenute notizie allarmanti alla Corte austriaca, e per fissare il giorno della partenza di Maria Sofia, la quale aspettava da più di una settimana a Vienna, col suo seguito.


Gli arciduchi la mattina del 24 sbarcarono dal vapore Elisabetta nel porto di Brindisi furono ricevuti dall’intendente. Partiti subito alla volta dì Lecce, vennero incontrati, a mezza strada, dai principi Francesco, Luigi e Alfonso; questi ultimi loro nipoti. Giunsero in Lecce a mezzogiorno e si recarono subito dal sovrano che li accolse con affetto. Questi si era levato, non aveva febbre e assistette al pranzo, conversando allegramente cogl’imperiali congiunti. Si stabilì di far barcare la sposa, non più a Manfredonia, ma a Bari, nei primi giorni di febbraio. Il re, partirebbe da Lecce, continuando il miglioramento, fra due o tre giorni e gli arciduchi promisero che si sarebbero trovati a Bari per l’arrivo della sposa, e per assistere alle nozze. La sera stessa ripartirono per Brindisi, che, impaziente di mostrare i magnifici preparativi fatti per il re, colse l’occasione del ritorno dei cognati di lui, per illuminare la marina. Sotto un padiglione, l’arcivescovo, il sottointendente e le autorità civili e militari attendevano gli arciduchi, i quali, accolti gli omaggi, fra le acclamazioni tornarono a bordo dell’Elisabetta, che salpò per Palermo e Napoli la notte stessa. Intanto l’annunzio della miglioria del re, telegrafato anche a Vienna, si diffuse per la città e le dimostrazioni di gioia ricominciarono. Sì volle cantare un Te Deum in duomo e s’invitò all’uopo papa Enrico Lupinacci, il miglior cantore ecclesiastico di Lecce; ma papa Enrico, buon liberale, nonostante le insistenze del Sozi Carafa, si finse infreddato e non volle cantare.7 Il re riprese gli affari dì governo; vietò al comune di Lecce di metter mano ad abbellimenti della città, per non aumentare i grani addizionali e promise una succursale del banco di Napoli, promessa non mantenuta.

La mattina del martedì, 26 gennaio, che era una bellissima giornata, Ferdinando II, sentendosi meglio, mostrò desiderio di uscire, ed avendo i medici acconsentito, usci infatti a piedi per la città, con tutta la famiglia. Li seguiva una folla sterminata e acclamante. Camminava lentamente ed era [p. 459 modifica]pallidissimo. Al ritorno, l’artista Antonio Maccagnani gli offrì una statuetta di Sant’Oronzo in cartapesta. Ferdinando gradì il dono e ordinò al maestro di casa di portarla nella sua camera da letto; anzi, per maggior sicurezza, lo seguì egli stesso per indicargli il posto preciso, dove la voleva collocata. Nell’attraversare il gran salone, il cui pavimento era incerato, raccomandò al Martello di guardarsi dal ruzzolare, temendo che la statuetta avesse a guastarsi. La sera di quel giorno, il Ramaglia consigliò la regina ad affrettare la partenza. Il re stava bensì meglio, ma sentiva una grande prostrazione di forze, e i due medici non erano veramente tranquilli sulle condizioni di lui, anzi prevedevano una ricaduta e volevano evitare il pericolo, che questa avvenisse in un punto estremo del Regno. All’una pomeridiana del giorno appresso, la famiglia reale si recò in carrozza, con tutto il seguito, a visitare i vicini comuni di San Cesario e di Lequile. La visita era impreveduta e nulla vi si trovò preparato. Tornata a Lecce, si recò al duomo, ricevuta dal vescovo, dal capitolo, sotto un ricco baldacchino, sorretto dai canonici. Dopo la benedizione, pregò sull’altare di Sant’Oronzo; e fatto un giro intorno le mura, ritornò all’Intendenza. La partenza fu fissata per il domani. Se alcuni paesi della provincia rimanevano delusi nelle loro speranze dì vedere il re, dopo aver preparati archi e trofei, la salute del sovrano imponeva dì passar sopra a questi riguardi. Fra le città deluse va ricordata Gallipoli, che aveva fatto preparativi straordinarii e apparecchiata una ricca lancia, per condurre il re e la famiglia reale a vedere i lavori del porto. Le iscrizioni di Gallipoli erano addirittura secentesche, e le aveva dettate il giovane sottointendente Andrea Calenda, che fu più tardi prefetto e senatore del regno d’Italia. Uditene una, che, a carattere cubitali, si leggeva sulla banchina del porto: Qui — allo schermo della sacra parola del re — muti tacciono i venti — e nel pietoso seno della misericordia — dileguasi il freno dell’uragano — ancora una parola — e il truce demone della tempesta — abbandonerà per sempre — le rive Gallipoline.8


Note

  1. Pasquale Ardito, Le avventure di Niccola Morra, ex bandito pugliese. — Monopoli, Gherzi, 1893.
  2. Vuol dire: perchè sono ragazza e mi debbo maritare.
  3. Andate, mi bastano due canonici di qui: andate.
  4. Che fanno i fratelli? Ci son fratelli a Taranto?
  5. Se si mettessero le piastre, che si sono spese, l’una sull’altra, si farebbe una torre più alta di questa qui.
  6. Grazie maestro; m’avete data la salute: il Signore ve ne renda merito, figlio mio.
  7. Nel Leccese si dà ad ogni prete il titolo di papa.
  8. Altri particolari circa la dimora di Ferdinando II a Lecce, particolari d’importanza tutta locale, sono riferiti nell’interessante libro di Niccola Bernardini, che vide la luce a Lecce nel 1895, dal titolo: Ferdinando Il a Lecce.