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La lirica nei canti popolari romani

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Francesco Sabatini (filologo)

Indice:Francesco Sabatini - Il volgo di Roma - 1890.pdf La lirica nei canti popolati romani Intestazione 14 luglio 2024 25% Da definire

Questo testo fa parte della raccolta Il volgo di Roma


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LA LIRICA

NEI CANTI POPOLARI ROMANI.


IN molte di quelle opere, piene di erudizione e di curiose notizie, in cui dotti stranieri fanno cenno dei canti del popolo di Roma, viene con facile entusiasmo levata a cielo la nostra lirica popolare, e si confondono perfino canti prettamente toscani con quelli della nostra plebe. Se sia giusto il riconoscere nel volgo romano una sua lirica, propria e caratteristica, lo vedremo in seguito, ora osserviamo solo che alle parole degli stranieri (perdonabili in parte) fanno pur eco le conclusioni dei folkloristi italiani, anzi della stessa Roma. Infatti Luigi Zanazzo nella sua raccoltina di ritornelli romaneschi, ch’egli ostinatamente (non so con quanta ragione) chiama aritornelli, somiglia questi fiorellini della poesia popolare a «volo di fringuelli da un ombroso recinto, nel sole», a «fuggevoli raggi di luce sul placido letto di un lago», [p. 36 modifica] a «gocce di brina che splendono un attimo al sole, e cadono lucendo dai rami»1.

Eppure lo stesso Zanazzo, otto anni or sono, nella prefazione ad un suo libriccino di poesie romanesche,2 parlando dell’immenso amore che egli nutriva per la plebe romana, scriveva: «E questo amore non mi fa velo; sicchè io m’illuda ed esalti il valore del nostro volgo; anzi mi spinge a presentarlo in tutta la sua verità. Esso, certo, manca d’immaginativa, per il che non può renderci una poesia popolare ispirata e simigliante a quella che ci offrono le provincie meridionali».

Veramente il nostro poeta romanesco diede in questa umile prosa un miglior giudizio della poesia popolare romana, che non abbia fatto nella vaporosa e poetica prolusione de’ suoi ritornelli; nella quale più oltre aggiunge queste parole, ch’io qui riferisco, e che confermano il suo convincimento intorno alla lirica romanesca. «Il nostro linguaggio amoroso - egli dice3 - non è cavalleresco e cortese come il toscano, dove si parla di dame, di servente amoroso e di serventese. Ma in compenso è lucido ed espressivo, e risponde al caldo impeto del nostro sangue. Sono infatti pieni di profondo sentimento questi stornelli:

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Ciavete l'occhio ner’ e ’r petto bbianco,
De cqua de llà du làmpene d'argento:
Chi vve vo’ bben’ a vvoi diventa santo.
4

A la viola,

Quanno ve vedo da lontano, o ccara,
Abbasso l’occhi, e pperdo la parola
.5

Angelo d’oro,

Tu ccanti li stornelli, e io l’imparo,
Tu spasimi pe’ mme, io pe’ tte mmoro
.6

«I critici - prosegue il Zanazzo vi potranno trovare qualche asprezza, qualche sillaba di meno: [p. 38 modifica]ma che importa tutto ciò? Il vero è che la parola calda e vibrata sgorga dal cuore per naturale impulso: che l’immagin poetica è schietta e determinata nella sua semplicità, e che l’ultimo verso assai sovente balza dall’animo con lirico entusiasmo».

Anch’io credetti un tempo, che nella poesia del popolo di Roma fosse nascosta una potenza lirica, se non superiore, da uguagliare almeno il lirismo dei canti siculi e toscani;7 ma la continua analisi mi condusse a convincermi del contrario e a constatare che il popolo di Roma poesia propria non ha, e che tutto quel tesoro di lirica che possiede lo ha tolto dai canti dell’Italia centrale e delle provincie meridionali, per i contatti continui cogli abitatori di quelle contrade. Così ho fatto un opposto viaggio; e mentre il Zanazzo dal mondo vero saliva alla idealità,8 io dalla illusione discendevo al positivo e al reale.

Ma perchè il mio non sembri un asserto gratuito, esporrò qui una prova non dubbia di quanto affermo, analizzando un gruppo di canti [p. 39 modifica]romaneschi, scelti in parte dalla raccoltina del Zanazzo, in parte dal mio Saggio pubblicato nel 1877, e in parte dalla mia collezione inedita.9

CANTI.


1. Bella, che ccinquecento ve chiamate,
 Che ccinquecento innammorati avete.
 De cinquecento gnisuno n’amate.

Questo ritornello, come la lezione umbra e marchigiana,10 discende da un’ottava siciliana, della quale si trova una lezione in Terra d’Otranto,11 che incomincia:

 'Na donna cinquecentu sse chiamava,
 Ca cinquecentu innamurati avia....

Un rispetto toscano, con diverso movimento d’idea, incomincia:

 Bella, che censessanta ne chiamate,
 E cent’ottanta innamorati avete.12


2. Alzando l’occhi al ciel vidi una tazza
 E ddrento c’era l’indorata treccia:
 Era la treccia de la mi’ regazza.

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Note

  1. Zanazzo, Aritornelli romaneschi, p. 13.
  2. Id., Quattro bbojerie romanesche, p. v.
  3. Id., Aritornelli, p. 14.
  4. È da notarsi come la lezione marchigiana di questo canto (Gianandrea, p. 77, c. 135):
         Giovinottina, da ’sso petto bianco
    Ce li portate du pomi d’argento;
    Chi sse li goderà diventa santo,
    Si me li godo io, moro contento,

    sia più completa e più poetica; forse passaggio dalla lezione originale toscana alla romanesca. E veramente non so quanto lirismo vi sia nello assomigliar le candide mammelle a due lampade; mentre già è resa felicemente l’idea dai pomi d’argento. Qui osservo come, pure ammettendo col D’Ancona (La poesia popolare italiana, p. 285) una forma originaria sicula, possa l’origine de’ canti romani, specialmente dei tristici, riferirsi ad una lezione toscana.

  5. D’origine toscana. Il Tommaseo (p. 106, c. 9) riferisce un rispetto dell’Amiata, da cui si tolsero poi gli elementi di questo stornello.
  6. Questo canto non è romanesco, ma prettamente toscano. Il Tigri (p. 321, c. 7) così lo riferisce:

    Angiolo d'oro,

    Tu canti li stornelli, ed io gl’imparo;
    Tu spasimi per me, io per te moro.
  7. Sabatini, Saggio di canti pop. rom., p. 52.
  8. Nei Fiori d'acanto il Zanazzo ha innalzato il nostro umile dialetto ad un lirismo forse un po’ esagerato. Anche il Trilussa ne’ suoi madrigali romaneschi: Stelle de Roma, tentò applicare il nostro dialetto ad una lirica fuori del suo carattere. Ma è da notarsi che il Trilussa rivolge il suo lirismo al ceto aristocratico; mentre il Zanazzo si rivolge al plebeo: solo difetto del Trilussa è lo aver egli parlato in dialetto ad una classe, che non lo parla, e però non lo intende.
  9. I canti editi dal Zanazzo verranno distinti colla iniziale Z, e quelli del mio Saggio colla S.
  10. Marcoaldi, p. 68, c. 90; Gianandrea, p. 130, c. 45.
  11. Casetti-Imbriani, II, p . 235, c. IV.
  12. Tommaseo, p. 279, c. 17; Tigri, p. 247, c. 909.