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La miseria di Napoli/Parte I - Gl'ipogei/Capitolo II. I trogloditi

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Parte I - Gl'ipogei - Capitolo II. I trogloditi

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CAPITOLO SECONDO.

I trogloditi.


Questa lettera mi consolava, da una parte, dimostrandomi che gl’immensi sforzi fatti dall’Inghilterra e da individui ordinati in società e dal Governo che coll’istituzione del sistema del governo locale arroga a sè il diritto di provvedere all’igiene, all’istruzione e alle necessità della vita per tutti i suoi sudditi, non sono rimasti infruttiferi; e d’altra parte m’incoraggiò a narrare ciò che vidi co’ miei occhi. Questa lettera ha saldate le mie convinzioni; cioè che in nessun paese d’Italia e d’oltralpe la miseria umana giunga al grado assoluto di quella di Napoli, e che, giunta a quel grado, il peso di un sol grano di sabbia di più significhi la morte. Accettai dunque l’offerta del proprietario del Pungolo di descrivere le mie impressioni nel suo giornale; e devo dire che egli mi diede ampia libertà, non esimendosi da pubblicare varie mie cose, le quali di certo non dovevano saper di dolce ai suoi lettori.

Essendo ogni articolo separato e compiuto in sè, trattai prima quegli argomenti, per cui avevo più pronto il materiale. Ora riproducendoli, seguirò piuttosto l’idea che m’informava nelle gite: ed era, da una parte, di conoscere la miseria genuina; dall’altra, gli [p. 18 modifica]sforzi delle presenti e delle passate generazioni per alleviarla e diminuirli.

La cortesia della signora Scwhabe aveva messo a mia disposizione un appartamento nell’ex-Collegio medico, ove essa ha stabilito lo stupendo Giardino d’Infanzia, di cui più tardi parleremo. Nelle Lettere Meridionali, una delle pagine che mi occupò di maggior pensiero fu la descrizione delle grotte delle Spagare. Il lettore si ricorderà che l’autore descrive queste grotte, ove vivevano o morivano venti o trenta famiglie, e da dove la Scwhabe ha sottratto a morte certa una madre con cinque bimbi, affamati, nudi, orridi d’insetti schifosi. E questa madre doveva, la notte, vegliare costantemente, perchè i topi non cibassero la carne delle sue creature. La vista delle quattro figlie di costei, ora sane, robuste, allegre e studiose, e l’udir da capo dalle maestre di quella Scuola descrivere, quali testimoni oculari, lo stato in cui esse furono trasportate a quell’ospitale asilo (trasportate, mi piace di ricordare, in carrozza e in braccio da quella nobile Tedesca che non indietreggiò davanti alla nausea e al pericolo di malattia contagiosa, perchè il tifo regnava nella grotta), destava sempre più il mio desiderio di visitare il luogo, da cui furono tolte. Accompagnala da un amico e da un delegato di Pubblica Sicurezza, andai dunque al quartiere di Monte Calvario al di sopra dei giardini di Santa Lucia al Monte.

Il delegato, i membri del Municipio, ed altri, mi avevano assicurato che queste grotte non servivano più di abitazione umana, ma che gli abitanti [p. 19 modifica]furono tramutati a spese del Municipio in più salubre quartiere.

Difatti, giunti alle falde del Monte d’Echia, abbiamo trovate per la più parte queste grotte occupate da greggi di pecore e di vacche, che con campanelle al collo girano mattina e sera per le belle vie di Napoli, i loro proprietarii urlando: latte da vendere, latte da vendere, per chi vuole e per chi non vuole prestarvi orecchio. Una di tali grotte però era ingombra da parecchie famiglie, ed io penetrai fino in fondo ripopolandola, coll’immaginazione, di quelle trenta famiglie che vi stavano pochi anni fa. Le grotte, che somigliano precisamente alle catacombe di Roma, sono scavate nel monte; epperò chi possiede l’appartamento all’entrata può stimarsi inquilino del piano nobile a cagione dell’aria e della luce abbondanti.

Ma penetrandovi e spartendo questa lunga grotta in trenta quartieri, appena può idearsi la condizione di coloro che vivono in fondo, ove l’atmosfera è di carbonio puro, ove nulla difende questi infelici dall’umidità, onde son sature la vôlta e la nuda terra, ove una semplice marca convenzionale divide l’una dall’altra famiglia, come segno di proprietà, e ove codesti infelici ospiti spagari, lavorando ciascheduno 18 ore al giorno, pervengono a torcere 50 matasse di spago per guadagnare 15 grani; dai quali deducendone sette di spesa, restano otto grani per vivere. Ognuno deve possedere la propria ruota per avvolgere il canape e svolgerlo in fili più o meno sottili; e miseri fanciulli affamali girano lunghe ore il perno fissato nell’asse della ruota. [p. 20 modifica]

Però, uscita una volta dalle orribili caverne e fermatami a parlare colle spagare, non potetti a meno di rallegrarmi dell’aria purissima e della stupenda vista del mare e della città stesa sulle sue sponde e dell’ampio spazio del cielo azzurro, mentre nei quartieri bassi, per cui eravamo passati, l’aria mancava e le case altissime, che sembrano toccarsi in cima, precludevano la vista e del sole e del cielo.

Domandai alle poche spagare rimastevi, dove fossero andate le altre; esse mi risposero, che una ricchissima milady Inglese aveva provveduto a molte e che alle altre aveva pensato il Municipio.

«Siamo noi le infelici, – soggiunsero, qui rimaste; e Lei non vede il peggio; bisogna aspettare l’estate, quando non c’è una goccia d’acqua da dissetarci, quando per due mesi la Vergine maledetta non ci manda un filo di pioggia, e bisogna andare fino al Vico Giardinetto e pagare un tornese la secchia; allora si che si capisce che cosa vuol dire Monte Calvario!»

«E parea voi, — proruppe un vecchio, con la fisonomia beffarda, ma non cattiva, — che siano andati a stare in Paradiso quegli altri? Vi dico che laggiù stanno ancora peggio di voi quassù, e chi vuol capacitarsene ci vada . E qui indicava un sito, di cui non ricordo il nome, al delegato di Pubblica Sicurezza ben conosciuto. Io gli dissi di voler andarvi, e per arrivarci abbiamo dovuto traversare gran parte della stupenda nuova strada detta Corso Vittorio Emanuele. Ivi le case fabbricate sono belle, e anche le camere a pianterreno abitabili. [p. 21 modifica]

Ma rientrando nel vecchio quartiere si giunse ad un vicolo in figura di scalinata; in fondo del quale la bocca aperta di una fogna esalava i più mefitici odori. Bambini quasi nudi vi brulicavano intorno, e all’ingiro case diroccate, nel cui pianterreno quella mefite permaneva come in proprio regno.

Presi alcuni dei bambini in braccio, essi serba vano appena sembianza umana; teste sproporzionate, occhi infossati, rachitici tutti, magri da inorridire.

Dalla scalinata centrale si diramano a destra altri scalini, ed io seguivo sempre la guida . Scesi o piuttosto scivolai. Egli fermandosi ad una apertura fece: «Ecco alcune delle spagare che in altri tempi abitarono le grotte.» M’introdussi in un sotterraneo col fango per pavimento, i muri fradici, e dal soffitto a’ volta grondava umidità . Ivi contai quindici esseri fra donne e bimbi chè chiacchieravano intorno ad un mucchio di paglia, ove giaceva col tifo una ragazza appena diciottenne, la faccia scolorata, le labbra annerite e delirante. Parlai con alcune di loro, le quali mi dissero essere otto famiglie differenti e quello l’unico alloggio per tutte; averle il Municipio snidate dalle grotte dando loro una mezza mesata, ossia lire cinque per famiglia. Soggiunsero di non posseder più ruote, ossia istrumenti per esercitare il proprio mestiere, ne avere altro lavoro, nè altri mezzi per campare la vita. E avrebbero potuto aggiungere, «nè speranza alcuna, salvo la morte.»

Quasi soffocata mi ritirai col cuore gonfio, pensando quanto sarebbe stato meglio averle lasciate sul Monte Calvario, ove almeno, se dovevano passare la [p. 22 modifica]notte nelle grotte, potevano di giorno almeno sotto il baldacchino dei cieli rinfrescarsi il corpo e lo spirito coll’aria balsamica.

Di fatto Monte Calvario è una delle sezioni meno infelici dei poveri di Napoli, specialmente se confrontata colle sezioni di Porto, Pendino e Mercato. Esteriormente la Sezione di Porto è migliorata dal 1860, quando uomini e bestie, legumi in istato di putrefazione, carne corrotta e pesce puzzolente, facevano miscuglio in mezzo alla strada. Ora l’abbiamo girata di giorno e di notte, ed il giorno di mercato abbiamo visto gli asini relegati in una piazza, i banchi e i botteghini confinati sui lastrici, la carne ed il pesce esposti per la vendita sani e freschi.

Moltissime case imbiancate facevano risaltare di più l’indecenza di certi palazzi coll’accumulata sporcizia di secoli sulla facciata. E la gente ci disse che questi miglioramenti si devono ad un ex vice-sindaco molto energico e probabilmente un tantino prepotente. Fatto sta che egli fu troppo equo per un paese, ove la camorra domina. Ebbe l’assurda pretesa che, avendo fatto imbiancare tutte le catapecchie, anche un gran signore, consigliere, commendatore, deputato, imbiancasse il palazzo proprio. Costui si appello al sindaco di allora, il quale rispose che un Napoletano con tanti titoli aveva il diritto di conservarsi sporco a suo piacimento. Il vice-sindaco rappresentava al sindaco che la sua autorità sarebbe compromessa, e che non oserebbe forzare gli altri a fare ciò che costui rifiutava. Il sindaco volle rispettato il deputato e la sua sporcizia. Il vice-sindaco, con la pelle fina proverbiale [p. 23 modifica]in Italia, si dimise dall’officio. Così fece gl’interessi dell’avversario, lasciando incompiuta l’opera propria e molto desiderio di sè nel quartiere.

La storia delle dimissioni è, del resto, una singolarità di questa penisola. Un Anglo-Sassone non la può capire. Il Bright e il Cobden furono soli nel domandare alla Camera la revoca delle leggi sul grano, e non li rimeritarono che con derisione e con insulti i loro colleghi, con brickbats (selci) e con uova guaste il popolo. Ciò fece raddoppiare i loro sforzi, stettero eglino sulla breccia finchè vissero, ed il libero commercio è opera loro. «Speriamo, — mi disse il popolo di Porto, — che col nuovo Municipio ci ritorni il vecchio vice-sindaco. Lo speriamo anche noi, perchè continui l’opera cominciata, e porti la nettezza, che si principiava a vedere di fuori, anche dentro le abitazioni.

Io credo che una qualunque Commissione sanita ria ordinerebbe la distruzione di moltissimi dei fondaci di Napoli, o almeno decreterebbe che essi non debbano servire se non come magazzini di mercanzia e non di carne umana. Visitai parecchi sotterranei: per arrivare ad uno, passando per il Chiassuolo, fu difficile vincere il ribrezzo che mi assaliva per quattro dei cinque sensi, perchè il solo gusto non c’entrava. Ascesi, çol pericolo di cascare, la scala esterna di fango, e una dopo l’altra, entrai in tutte le stanze. C’erano sei piani, una media di sette stanze per piano, e la media di abitanti di varie famiglie era di otto. La pigione mensuale di ogni stanza variava da otto a quattordici lire; eppure scommetto che le mura in[p. 24 modifica]terne non odorarono di calce dopo il 1837, quando grazie alle stragi fatte dal colèra queste tombe di vi venti furono per ordine superiore imbiancate. I soffitti crollavano, molte delle stanze totalmente buie, l’una ricevendo luce dall’altra, e questa dalla porta, oppure da buchi chiamati finestre; ma senza vetri. Questo speciale fondaco (differente da altri visitati, i quali non hanno neppure un cesso) aveva quasi in ogni camera un buco nel muro. E tutti questi buchi scolano giù nella cloaca, che, ben inteso, fraternizza col pozzo. Tenendo bene in mente che molte delle camere sono occupate da due ed anche tre famiglie, se ne comprende facilmente tutta la luridezza. Alcune delle famiglie posseggono mobilia sufficiente, altre appena un letto. In una delle soffitte vidi un mucchio di paglia che letteralmente camminava da se, a cotal punto che lo credetti un nido di formiche. Ma erano ben altri insetti! come mi capacitò la mia cameriera, con infinita nausea, al mio ritorno in casa.

In una camera abitava una madre con sette bambini, l’ultimo attaccato inutilmente all’arido petto, e così su su sino all’età di dodici anni, sei scheletri che mi ricordavano l’ossario di Solferino. E di che potevano nutrirsi? Il padre, poco abile al lavoro per recente tifo, guadagnava da un ottonaio una lira al giorno, e ne pagava nove mensuali per la camera. Una bambina filava, un’altra portava in braccio una piccina ammalata. Io soffriva à vederle, e a non poter nulla per esse. In tanta miseria parmi crudeltà fare distinzioni fra i miseri. In un’altra stanza c’era un [p. 25 modifica]vecchio del tutto inabile al lavoro, e, da quel che capii, mantenuto dalla carità degli altri inquilini della camera — ed erano sette, ed i letti erano tre! —

Dal qual fondaco io uscii coi miei compagni, ambedue Napoletani, oppressa dal senso della troppa rassegnazione di tutto e di tutti. La pazienza delle bambine ammalate ed affamate farebbe piangere qualunque madre, che sa quanto deve aver sofferto e patito una creatura di tre, quattro o cinque anni, prima di aver capito l’inutilità del lamento. E sostando nell’uscire, in mezzo di un gruppo di bambini, feci quasi inconsapevolmente i miei pronostici sull’avvenire di ciascheduno. Questo (parlo dei maschi, per ora), dissi fra me e me, poco soffrirà e poco farà soffrire: costerà tutto al più al Municipio quattro tavole per la cassa. Cotesto invece, con quegli occhi avidissimi, quel piglio audace, che guarda dentro una bottega di pane, non aspetta altro che il fornaio volti la testa per involare quell’appetitoso ciambellone coll’uovo di Pasqua nel centro. Primo gradino della scala che lo condurrà per facile salita a Sant’Efremo, ove avrà lavoro provveduto e pagato, ed ove con la sua industria si ciberà di piselli con prosciutto, o se di più gli verrà talento, di fragole o lamponi o qualunque frutto di stagione. Una terza categoria ne inchiude molti; i segni del vizio prematuro, ereditato ed alimentato coll’esempio quotidiano, additano i futuri rei; i Caini dell’avvenire, colla mano contro tutti, e con le mani di tutti contro loro. Essi senza volerlo vendicheranno i torti della società; pur troppo saranno gl’innocenti che cadranno sotto il loro coltello, o nel loro laccio. [p. 26 modifica]

E le ragazze? Troppo facile, troppo terribilmente sicuro torna il leggere il libro della loro vita.

Senza per ora toccare la più tremenda delle tre mende piaghe sociali, che esistono in tutte le grandi città, ed in Napoli forse primeggia, io vorrei che qualche madre napolitana conducesse le sue figlie, non a Porto, sarebbe forse troppo pretendere, ma al Vico Nuovo a San Biagio, numero 4, Sezione Pendino, per vedere la povertà onesta che lotta senza speranza di vincere. Ivi nel sotterraneo di una casa appartenente al Demanio, o, come dice il popolo, al demonio, se i carabinieri non l’hanno già cacciata, troveranno una famiglia di cinque persone, fratelli e sorelle. Il padre mori di tifo agl’Incurabili, la madre morì di parto. La ragazza maggiore guadagna mezza lira al giorno, lavorando da un sarto per uomini. Un’altra guadagna da una crestaia mezza lira la settimana; un piccino, malatissimo quando io visitai quella bolgia d’inferno, sarà, speriamo, già morto: se no, sono ancora cinque persone che debbono campare con cinquantasette centesimi il giorno, e pagare nove lire al mese per quella pozzanghera che abitano.

Questo basso sotterraneo, al quale si scende per cinque scalini, è difeso da un’enorme porta a grandi catenacci; non vi ha altra apertura, nè io capisco come la notte non vi si muoia asfissiati. Al dire di tutto il vicinato, il padre, laborioso e sobrio, lavorava e man teneva con quanta decenza può osservarsi in detta casa la sua famiglia, nè si diparti dal banco di falegname che quando già delirava per febbre. Pagò anticipatamente ogni mese la sproporzionata pigione. Oggi le [p. 27 modifica]ragazze non possono pagare, ed il giorno in cui io abbandonai Napoli un sabato mi dissero, che erano già state avvertite che il lunedì i carabinieri le avrebbero messe sul lastrico. Ne io indico questa famiglia come più miserabile di un centinaio di altre che vidi. La indico solamente perchè quella strada ove abitano può visitarsi dalla più schifiltosa dama napoletana; e dirò soltanto, che se tale miseria, così coraggiosamente ed onestamente sopportata, esistesse in qualunque città inglese, il rettore della Chiesa anglicana, ovvero il pastore battista, anabattista o metodista, avrebbe avvertito le signore della rispettiva congregazione, affinchè provvedessero. Ma io in tutti i giri che feci a Napoli, non trovai mai nè prete nè frate in questi tugurii: al contrario li vidi a centinaia alla festa di Portici, alle corse di cavalli fuori di città, ai giardini pubblici, ovunque il dolce, far niente era anche rallegrato dal sole e dalla bellezza della natura.

Se mai queste nostre parole incitassero qualche pietosa, la quale non trovasse più la Giovanna Trotti, ed i suoi fratelli nel mentovato sotterraneo, si rivolga al fornaio di faccia, al numero 4, o ad altro dei vicini, che molto hanno a cuore cotesti derelitti. Volendo poi esplorare il quartiere di Pendino in lungo ed in largo, ricorra al delegato di Pubblica Sicurezza del quartiere, uomo intelligentissimo e di buon cuore, e si faccia dare a guida una guardia calabrese, che conosce per filo e per segno le persone e i canili, e può narrare storie strazianti, che superano le più tragiche vicende dipinte dal veridico roman[p. 28 modifica]ziere Francesco Mastriani nelle sue Ombre, Vermi e Misteri di Napoli.

Del resto, per formarsi un’idea netta e schietta di ciò che importi una popolazione accovacciata nei bassi, nelle sottoscale, nei bassolini, bisogna proprio visitare la Sezione di San Lorenzo. Manca in quasi tutti i cortili lo scolo per le acque sporche e per le materie infette; in Vico Donna Regina dei bassi vi difetta la ventilazione al punto che per la conseguente infezione nessun padrone di casa napolitano vi metterebbe i porci, e certamente i conigli vi deperirebbero; in Vicolo Freddo c’è un bassolino, ove non entra un fiato di aria pura e ci abitano dieci persone. Le sottoscale non hanno che una breve porticina d’accesso.

Molti dei bassi giacciono al di sotto del livello della strada e del cortile, onde la feccia del cortile vi s’infiltra.

Chi teme ch’io carichi le tinte, interroghi il libro citato di Marino Turchi intorno alle 12 Sezioni di Napoli, e visiti uno per uno i 330 bassi o sottoscale che l’autore esplorò nella Sezione di San Lorenzo nel 1866 e ci dica i progressi compiuti in questa Sezione. Le ore proprie di passare in rivista la popolazione dei bassi, che somma a 12 mila anime, sono le mattutine quando i mesti abitatori si affrettano di uscire da quei sozzi e stomachevoli canili, ove non evvi acqua nè caminetto per cucinare, nè cesso nè altro, sicchè tutte le funzioni della vita si esercitano in istrada. Uomini e donne, presso a poco in istato di natura; nessun pensa a lavarsi, ma le donne s’inge[p. 29 modifica]gnano di pettinarsi scambievolmente e di estirpare almeno porzione della famiglia che abita nelle loro teste, e mentre la pettinatrice sta in piedi e la pettinata seduta in terra, questa si occupa a sbucciare piselli e fagiuoli per il vicino mercato, e credo che colui, il quale ha assistito a questa operazione, preferisca di sbucciare da sè i proprii legumi.

La pigione di tutti questi bassi è sempre enorme, eppur nessuno costrinse ancora gli esosi padroni di casa di fornir gl’inquilini delle cose di elementare necessità per la decenza, e si può dire per la vita stessa.

E se alcuno di codesti bassi fu chiuso per ordine del Municipio, che il visitatore si dia la pena di verificare dove finirono gl’infelici cacciati. Spesso il Municipio ne chiuse per forza, ma gli abitanti sono gettati sul lastrico, e nove volte sopra dieci obbligati di rifugiarsi in un tugurio peggiore, ma non tanto in evidenza.

Termini la gita provvedendosi di qualche disinfettante, segnatamente per Vico Donna Regina vicino al banco Vittorio Emanuele, per Vico e Largo Madonna delle Grazie, per Vico Santa Luciella e pel Vicoletto Consolazione.

Giudicherà poi se questi luoghi immondi debbano portare nomi cotanto graziosi, che aggiungono la satira all’ingiuria.

Chiunque dopo avere esplorato i fondaci, dopo esser calato nei bassi, dopo essersi arrampicato sulle grotte, crede esaurito il povero delle miserie dei poveri di Napoli, s’inganna a partito. Deve invece [p. 30 modifica]girare di notte, vedere le così dette locande, da grana due a grana sei per letto. Nel libro intitolato: Notizie e documenti riguardanti le condizioni igieniche della città di Napoli, di Marino Turchi, leggesi la lista delle locande esistenti nelle varie sezioni. Parlando della Sezione di Porto egli scrive: «In queste locande spesso un solo letto si affitta, a parte, a due e tre individui, e nello stesso letto si trova una famiglia intera». Egli, sempre nella Sezione di Porto, in 105 locande trovo 188 stanze e 2793 letti. Questo calcolo darebbe in media letti cinque e mezzo per camera: ora io, visitando le locande di quella Sezione, vidi sette, otto, fino a nove letti nell’istessa stanza.

In un letto vidi tre persone, e nella locanda, ove contai 95 letti, il cesso per tutti consisteva in una buca aperta in mezzo alla cucina. Le persone costrette a dormire in questi luridi alloggiamenti, vi si riducono perchè senza letti proprii e senza danaro da pagare una pigione mensuale anticipata.

A udire i locandieri, gli uomini stanno da una parte, le donne da un’altra, ma ciò non è vero, come tante volte ha verificato la Polizia nell’occasione di eseguire un arresto. In una camera vidi un ragazzo colpito di epilessia nella sua più tremenda forma; mi dissero i suoi compagni che talvolta l’accesso epilettico rinnovossi due o tre volte la notte; esso non ha mezzi di sussistenza di sorta; ammesso una volta all’Albergo dei Poveri, poi ne fu cacciato.

Bisogna anche notare che le meretrici di quarta classe, senza domicilio fisso alloggiano promiscuamente tra la gente onesta. [p. 31 modifica]

In un’altra locanda mi s’è indicato il ricovero prediletto dei fanciulli da sette a dodici anni, orfani, o abbandonati dalle loro famiglie, che non possono campare se non con mezzi illeciti.

Costoro compongono una famiglia da sè. Chi siano i loro padri, nessun d’essi lo sa e pochissimi conoscono la madre. Non sono nemmeno tutti di Napoli, ma molti, veri nomadi, delle provincie. Ostensibilmente sono cenciaiuoli o raccoglitori di ossa e di vetri rotti o mendicanti, o vanno alle osterie o alle case, ove comperano i residui dai garzoni e dalle serve; ma sono veramente tutti al servizio della camorra, cioè apprendisti camorristi; rubano fazzoletti, nel primo stadio, e cibi esposti dai banchi e dalle botteguccie, e la preda portano agli speciali loro capi camorristi; e hanno un gergo particolare, onde avvertono i maestri ladri dell’avvicinarsi della Polizia, e alla loro tenera età sanno distinguere un poliziotto amico da uno nemico. Nudo il capo, scalzi i piedi, coperti di piaghe, sotto i pochi cenci che indossano, portano coltelli e stili che porgono al bisogno ai loro capi.

Prima di mezzanotte, questi miserelli non tornano alla locanda; ogni vizio, anche quelli innominabili, è loro conosciuto e da loro praticato; i grandi vendono i piccoli sotto la denominazione di guagliuni.

Queste locande dei fanciulli sono la culla del delitto, la prima scuola o l’asilo infantile; sono le carceri giudiziarie, ove ammucchiati crescono nutriti nell’ozio senza ombra di vigilanza. [p. 32 modifica]

E chi non sa, o sa poco, del vizio o del delitto, impara dai più grandi.

Quando eglino non riescono a guadagnarsi il grano per pagare l’alloggio notturno, dormono in istrada; nell’estate sul lastricato, nell’inverno ammucchiati sotto i panconi, sotto le fornaci dei friggitori, sotto i portoni aperti o nel portico vicino alla chiesa di Monserrato.