La novella d'inverno/Atto quinto

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Atto quinto

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William Shakespeare - La novella d'inverno (1608-1611)
Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1859)
Atto quinto
Atto quarto

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ATTO QUINTO


SCENA I.

Sicilia. — Una stanza nel palazzo di Leonte.

Entrano Leonte, Cleomene, Dione, Paolina ed altri.

Cleom. Signore, voi avete fatto abbastanza, adempiendo a tutti gli obblighi d’un religioso pentimento: se avete commessi falli, gli avete anche troppo espiati; ora fate quello che il Cielo ha già fatto, dimenticate le vostre offese, e state in pace.

Leon. Fin ch’io mi sovverrò di lei e delle sue virtù, non potrò dimenticare la mia ingiustizia: penso sempre al fallo che commisi, togliendo gli eredi al mio regno, e privandomi d’una delle più care spose che mai facessero lieto un mortale.

Paol. Quand’anche aveste sposate tutte le donne una dopo l’altra, e quando da tutte quelle ch’esistono aveste preso qualche pregio, e li aveste accumulati per farne una donna perfetta, quella che avete uccisa, rimarrebbe sempre senza uguale.

Leon. Lo credo. Uccisa! Io l’ho uccisa! Sì, questo ho fatto, ma voi, Paolina, assai mi ferite crudelmente dicendomi che l’ho uccisa. Questa parola è così amara per me nella vostra bocca, come lo è nella mia ricordanza: cara Paolina, non me la dite che di rado.

Cleon. Non gliela dite mai, signora: avreste dovuto impiegare ogni altra parola più conveniente, e più conforme alla bontà del vostro cuore.

Paol. Voi siete uno di quelli che vorrebbero ch’ei si rimaritasse.

Dion. Se voi nol volete, è che non sentite alcuna pietà dello Stato, e non nutrite alcun affetto verso il suo augusto nome. Pensate quali pericoli, se Sua Maestà non lascia eredi, possono attorniare questo regno per condurlo in ruina. Che di più santo, che il rallegrar nel suo sepolcro l’estinta regina? Ella ne godrà. Quali motivi più puri di quelli della conservazione del nome reale, della consolazione del re, del bene futuro dello Stato, e del veder di nuovo la felicità a sorridere sopra di tutti, mercè la degna compagna che sceglierà Sua Altezza?

Paol. Non ve n’è alcuna che possa tenere il loco dell’estinta. [p. 340 modifica]Inoltre gli Dei vorranno che i loro segreti disegni si compiano. Il divino Apollo non ha egli risposto, e non è il senso dell’oracolo che il re Leonte non avrà eredi, finchè trovata non sia la fanciulla ch’ei cacciò da sè? La speranza che si possa ritrovare è così contraria all’umana ragione, quanto lo è che il mio Antigono rompa il suo sepolcro, e ritorni fra le mie braccia, perocchè egli certamente perì colla bambina. Il vostro consiglio è dunque che il nostro sovrano debba avversare il Cielo, ed opporsi alle sue volontà? Non pensate agli eredi, (al re) la corona ne avrà sempre. Il grande Alessandro lasciò la sua al più degno e così ebbe a successore il migliore dei sovrani.

Leon. Cara Paolina, voi ben degnamente onoraste la mia Ermione... ah! perchè non mi lasciai io condurre dai vostri consigli? Ora potrei contemplar anche i suoi begli occhi, e cogliere un tesoro di delizie dalle sue labbra.

Paol. Lasciandole più ricche ancora dopo il dono che v’avrebbero fatto.

Leon. Dite il vero, donne simili a quelle non se ne trovano più, e alcuna non gliene debbo quindi sostituire. Una sposa al disotto di lei, e meglio da me trattata, farebbe ricomparire la sua anima a questo mondo per venirmi a rimproverare.

Paol. Se lo potesse fare, ne avrebbe una giusta ragione.

Leon. Sì, e mi obbligherebbe a lasciare quella che avrei sposata.

Paol. Adoprerei come essa, e se fossi l’ombra che tornasse sulla terra, vi direi d’osservar gli occhi della vostra nuova sposa e di dirmi poscia per quali attrattive l’avreste scelta: gemerei quindi un grido, e svanirei.

Leon. Le stelle, le stelle stesse, e tutto quello che v’è di più splendido nell’universo, non è che fosco, comparato ai suoi occhi. Non ì temete ch’io voglia di nuovo ammogliarmi; non isposerò più alcuna donna, Paolina.

Paol. Volete giurare di non mai prender moglie fuorchè col mio consenso?

Leon. Giammai, Paolina; lo giuro sulla salvezza della mia anima.

Paol. Voi l’udite, signori; siate tutti testimonii del suo sacramento.

Cleom. A troppo rischio ponete la sua fede.

Paol. Se però un’altra donna, somigliante ad Ermione come un ritratto, non gli si presenti...

Cleom. Cara signora... [p. 341 modifica]

Paol. Ho detto abbastanza. Nondimeno se il mio re vuol riprender moglie... sì, se voi lo volete, signore, e che non vi sia mezzo di togliervi tal fisima dal capo, affidate a me la cura di eleggere una regina: ella non sarà così giovane come la prima, ma sarà tale, che se l’ombra della vostra prima sposa ritornasse sulla terra, ella si rallegrerebbe vedendovi fra le di lei braccia.

Leon. Mia Paolina, noi non prenderem moglie che per tuo suggerimento.

Paol. Ed io ve ne darò, allorchè la vostra prima sposa ritornerà in vita: non però prima. (entra un Gentiluomo)

Gent. Un uomo che s’annunzia pel principe Florizel, figlio di Polissene, colla sua principessa, la più bella donna ch’io m’abbia mai veduta, chiede d’essere introdotto da Vostra Maestà.

Leon. Come mai venne? Il suo subito ed imprevisto arrivo, senza alcuna pompa degna della grandezza di suo padre, ci dice abbastanza che questa non è una visita volontaria, ma un colloquio a cui è forzato da qualche bisogno. Chi ha con sè?

Gent. Poche persone, e non ricche.

Leon. E seco è anche sua moglie?

Gent. Sì, il capo d’opera più incomparabile che il sole abbia rischiarato colla sua luce.

Paol. Oh Ermione! come il secolo presente si loda, e si pone al disopra del secolo passato: ora che tu sei scomparsa, tu cedi il passo ad oggetti che di nessun valore sarebbero stati quando tu vivevi. Voi stesso, gentiluomo, diceste e scriveste, (ma ora i vostri scritti son più agghiacciati di quella che ne componeva il soggetto) che ella non era mai stata, e mai non sarebbe agguagliata. Bisogna che siate ben mutato per dir adesso che ne avete veduta una più bella.

Gent. Perdonate, signora, quell’altra l’ho quasi obbliata, e quando avrete veduta questa, essa avrà ottenuto anche il vostro suffragio: questa è così bella, che se volessi fondare una setta, potrebbe spegner lo zelo di tutte le sette opposte, e far un proselito in chiunque le piacesse.

Paol. Come! Le donne almeno non le correrebbero dietro.

Gent. Le donne l’amerebbero, perchè il suo merito è straordinario. Gli uomini l’ameranno, perchè è la più egregia delle femmine.

Leon. Ite, Cleomene, e accompagnato dai vostri illustri amici, fatelo venir a ricevere i nostri abbracciamenti. (Cleomene esce coi Sign. e i Gent.) Strano è che ei venga così furtivamente a presentarsi dinanzi a noi. [p. 342 modifica]

Paol. Se il nostro giovine prìncipe (la perla dei fanciulli) fosse vissuto fino a quest’ora, egli avrebbe ben figurato al fianco di quest’altro giovinetto: non v’era un mese di differenza nella loro età.

Leon. Tacete; voi sapete che egli muore per me una seconda volta, quando ne odo parlare. Allorchè vedrò questo giovine, i vostri discorsi, Paolina, potranno farmi impazzire; eccoli che si avanzano. — (rientra Cleomene con Florizel, Perdita e seguito) Principe, vostra madre fu ben fida al suo letto nuziale, poichè quando vi concepì, ricevè l’impronta perfetta dell’imagine dell’illustre padre vostro. Se non avessi che ventun anni, (così è scolpita l’effigie di lui in voi, e così ne avete ogni moto ed ogni sembianza) io vi chiamerei fratello, come chiamavo lui con tal nome, e vi parlerei di alcune follíe giovanili, che commettemmo insieme. Voi siete ricevuto qui con tutta la tenerezza, e la vostra sposa è una vera Dea. Oimè! ho perduto una coppia di figli, che avrebbero potuto brillare fra il cielo e la terra, ed eccitare quell’ammirazione, che voi, amabili giovani, eccitate! Io perdei ancora, per la mia avventatezza, l’amicizia del vostro virtuoso padre, che desidererei di rivedere un’altra volta nella mia vita, quantunque essa sia piena di sventure.

Flor. Signore, è per suo ordine ch’io son venuto in Sicilia, ed ei mi commise di farvi tutti quegli augurii, che un fratello può fare ad un fratello. Se l’infermità, da cui è domo, gli avesse lasciato un po’ di vigore, egli avrebbe varcato lo spazio che divide i vostri troni, per godere del piacere di riveder voi, che egli ama (sono le espressioni che mi ha comandato di usare) più che tutti gli scettri, e più che tutti i re vivi che li portano.

Leon. Ah mio fratello, principe degno, gli oltraggi ch’io ti ho fatti risvegliano nella mia anima tutto il mio dolore, e tanta tua bontà mi fa sentire doppiamente il rimorso della mia ingratitudine! Siate il benvenuto alla mia Corte, come lo è la primavera sulla terra. Ed ha egli dunque esposta ancora questa meraviglia di beltà ai crudi trattamenti dell’insensibile Nettuno, per venire a salutar un uomo che non merita nulla?

Flor. Mio caro principe, ella viene dalla Libia.

Leon. Dove il bellicoso Smalo è tanto temuto?

Flor. Sì, viene di là, e dalla Corte di quel principe, le di cui lagrime, al momento che se ne è separata, provato han bene che ella era sua figlia. È da quel paese che, secondati da un gagliardo vento di mezzodì, abbiam preso le mosse per venir a compiere l’ufficio che affidato mi avea mio padre, di visitare Vostra Maestà. [p. 343 modifica]Ho congedato sulle vostre rive la più splendida parte del mio seguito che ritorna dal re di Boemia per narrargli il mio successo in Libia, e il mio fortunato arrivo in questa Corte.

Leon. Gli Dei propizii tolgano ogni vapor nocivo dalla nostra atmosfera, finchè voi qui soggiornerete! Voi avete un padre rispettabile, un principe fornito d’ogni pregio; ed io, sebben sacra fosse la sua augusta persona, compiei contro di lui un fallo, di cui il Cielo irritato mi ha punito, lasciandomi senza posterità, mentre ei gode della felicità che a me è vietata, possedendo in voi un figliuolo degno delle sue virtù. Qual padre felice sarei stato anch’io, io che potrei aver ancor vivi un figlio ed una figlia, belli al par di voi! (entra un Signore)

Sig. Mio principe, quel che debbo annunziare non meriterebbe alcuna fede, se non potessi darvene ogni prova. Sappiate, che il re di Boemia mi manda a riverirvi, e vi prega di arrestare suo figlio che, spogliandosi d’ogni dignità, è da lui fuggito, ha rinnegati i suoi alti destini, e il tutto per andar colla figlia di un pastore.

Leon. Ov’è il re di Boemia?

Sign. Qui nella vostra capitale: l’ho lasciato testè per recarvi il messaggio. Mentr’egli s’affrettava per giungere alla vostra Corte, inseguendo, da quel che sembra, questa giovane coppia, incontrò sulla via il padre di questa falsa principessa, e il di lei fratello che avevan lasciati entrambi il loro paese, insieme col giovane principe.

Flor. Camillo mi ha tradito, Camillo, il di cui onore, e la di cui fedeltà avevan fin qui resistito ad ogni prova.

Sign. Potrete rimproverarglielo: egli è col re vostro padre.

Leon. Chi? Camillo?

Sign. Sì. Io gli ho parlato, e fu a lui commessa la cura d’interrogare quella povera gente. Non mai ho veduto due infelici a tremar di più: essi si prostravano alle sue ginocchia, baciavano la terra, prodigavano i giuramenti ad ogni parola; ma il re di Boemia si chiudeva le orecchie, e li minacciava delle morti più crudeli.

Per. Oh mio povero padre! il Cielo non vorrà che la nostra unione si compia.

Leon. Siete voi maritati?

Flor. Non ancora, signore, nè v’è speranza che lo diveniamo. Le avverse stelle ci condannano alle lagrime.

Leon. Principe, è ella figlia di un re?

Flor. Lo sarà, quando sia divenuta mia sposa. [p. 344 modifica]

Leon. Ma un tal momento, lo deiamo dalla condotta di vostro padre, sarà anche forse lontano. Duolmi assai che perduto abbiate il suo affetto, che il vostro dovere vi obbligava di conservare, e duolmi anche che la vostra scelta non sia così nobile come è bella, onde voi poteste felicemente possederla.

Flor. Mia cara amante, fatevi coraggio; sebbene la fortuna, che si dichiara apertamente nostra nemica, ci perseguiti, ella non può mutare i nostri cuori e l’amor nostro. Ve ne supplico, signore, vogliate ricordarvi il tempo in cui eravate giovine come io, e pieno delle memorie di quell’età prendete le mie difese: a vostra istanza, mio padre concederà senza esitare le maggiori grazie.

Leon. S’ei volesse farlo, come dite, gli chiederei per voi la vostra preziosa amante, che egli non la stima quanto merita.

Paol. Mio sovrano, voi esaminate quella giovine con occhi troppo teneri; meno d’un mese prima che la vostra sposa morisse ella meritava assai più quegli sguardi appassionati.

Leon. Pensavo a lei, guardando a quella giovinetta. Ma io non ho ancora risposto alla vostra dimanda. (a Flor.) Vado da vostro padre per aprire i negoziati: poichè siete ancora innocente, io vi sarò amico. Seguitemi, ed osservate la strada che prendo: andiamo, caro principe. (escono)

SCENA II.

La stessa. — Dinanzi al Palazzo.

Entrano Autolico e un Gentiluomo.

Ant. Ve ne prego, signore, ditemi, eravate presenti a quel racconto?

Gent. Fui presente all’apertura del piego, e intesi il vecchio Pastore narrare il modo con cui l’avea trovato; allora dopo alcuni istanti di meraviglia ci fu imposto a tutti di escire, e non ho potuto saper altro.

Aut. Sarei ben lieto di apprendere in che modo son finite le cose.

Gent. Io non vi ho descritto che alla grossa quella sorpresa. Ma il cambiamento che vidi sul volto del re e di Camillo era assai strano: pareva, per così dire, che nel guardarsi l’un coll’altro volessero far escir dalle occhiaie le loro pupille: vi era una specie di linguaggio nel loro rapido silenzio, e tutto nei loro aspetti parlava: vedendoli si sarebbe detto che non si trattasse di [p. 345 modifica]nulla di meno che di un mondo salvato, o di un mondo distrutto: tutti i segni del più grande stupore si erano in essi manifestati; ma l’osservatore più arguto non avrebbe potuto comprendere, se quello era stupore di gioia, o di tristezza. (entra un altro Gentiluomo) Ecco chi ne saprà forse più di noi. Quali novelle, Ruggiero?

Gent. Nulla, fuorchè rallegramenti e fuochi festivi; l’oracolo è compito, il re ha trovata la figlia: tante meravìglie si son vedute in un’ora che i nostri giullari non potran mai cantarle tutte. (entra un terzo Gentiluomo) Ecco il maggiordomo di Paolina: egli saprà dircene di più. — Ebbene, signore, come van le cose? La novella che si assicura vera somiglia tanto a un vecchio racconto, che violenti sospetti s’innalzano contro di essa. È vero che il re ha trovata la sua erede?

Gent. Nulla è più vero, se mai vi fu verità provata. La mantelletta della regina Ermione, la sua collana intorno al collo della fanciulla, le lettere d’Antigono rinvenute in lei, i maestosi lineamenti della giovinetta, e la sua somiglianza colla madre, un contegno augusto, molto al di sopra della sua educazione, e mille altre cose dichiarano con sicurezza ch’ella è la figlia del re. — Assisteste al colloquio dei due monarchi?

Gent. No.

Gent. Avete dunque perduto uno spettacolo che bisognava vedere, e che non si può descrivere. La loro gioia nuotava in flutti di lagrime, essi sollevavano le loro mani verso il cielo, e il nostro re fuor di se stesso, invocando la sua sposa, chiedeva perdono al re di Boemia, poi abbracciava suo genero e sua figlia, poi ringraziava mille e mille volte il vecchio Pastore, che stava vicino a lui come un’antica colonna corrosa dall’orma di molti secoli. Commoventissima fu quella scena.

Gent. E di Antigono si è saputo cosa avvenisse?

Gent. Ei fu fatto in brani da un orso, lo assicura il figlio del Pastore, e produce per maggior prova un drappo e certi anelli, ben conosciuti da Paolina.

Gent. E che accadde per la barca e le ciurme?

Gent. Tutti naufragarono nel momento medesimo in cui il loro signore perì, e alla vista di quei bifolchi. — Ma qual nobile combattimento fra la gioia e il dolore si vede in Paolina! Ella piangeva per la perdita del suo sposo, godeva per veder l’oracolo compito, e sollevando da terra la principessa, la stringeva fra le braccia come se avesse voluto attaccarla al suo cuore, in guisa da non temer più di perderla. [p. 346 modifica]

Gent. La dignità di quella scena meritava re e principi per ispettatori, poichè aveva re per attori.

Gent. Uno dei particolari più commoventi di essa, fu un racconto della morte della regina fatto dal re, intantochè sua figlia stava ad ascoltarlo: il dolore, che a gradi a gradi si dipingeva sul volto della giovinetta, finì per strappare a tutti un grido di desolazione.

Gent. Son essi ritornati alla Corte?

Gent. No: la principessa ha inteso parlare della statua di sua madre, posseduta da Paolina, opera che ha costati molti anni di fatica, e che venne eseguita da quel celebre artefice d’Italia, Giulio Romano. Se quel pittore potesse comunicare il soffio dell’eternità alle sue opere, ei si lascìerebbe di molto indietro la natura, tanto è perfetto nelle sue imitazioni! Colui ha fatta Ermione così somigliante, che se le parlerebbe, e si attenderebbe da lei la risposta: essi son tutti andati a vederla e intendono cenare da Paolina.

Gent. M’ero insospettito ch’ella avesse qualche cosa di nascosto in una sua stanza, perchè dopo la morte di Ermione non mancava mai d’andarvi due o tre volte al giorno, e di racchiudervisi sola. Vogliamo raggiungerli, e divider la loro gioia?

Gent. E chi è quello che potendolo nol vorrebbe? La nostra lontananza ne ha fatto perdere anche troppo. Andiamo. (escono i Gentiluomini)

Aut. Ora se non stessero contro di me le pecche della mia antica condotta, gli onori e le ricchezze mi pioverebbero sul capo! Fui io che condussi il vecchio e suo figlio alla nave del principe, e che gli dissi, che li aveva inteso parlare di certo piego e di non so quale istoria; ma era allora inebbriato del suo amore per la pastorella, e cruciato in oltre sì sentiva, insieme con lei, dal mal di mare, ond’è che il segreto rimase inesplorato. Ma già è lo stesso, perchè quand’anche fossi stato io che lo avessi rivelato, esso non mi avrebbe giovato molto a cagione del poco credito che godo. (entra il Pastore e il Clown) Ecco coloro a cui ho fatto un gran bene contro la mia intenzione, ed eccoli di già all’apice della fortuna.

Past. Vieni, garzone, ho passata l’età per aver figli, ma quelli che nasceranno da te saran tutti gentiluomini.

Cl. Ben vi trovo, signore. Voi rifiutaste l’altro giorno di battervi meco perch’io non era nato gentiluomo: vedete questi abiti, dite ora che non li vedete, e credete che gentiluomo non sono. Datemi una mentita, e vedrete s’io lo sia. [p. 347 modifica]

Aut. So che voi siete nato ora gentiluomo.

Cl. Ero gentiluomo prima di mio padre, perchè il figlio del re mi prese per mano, e mi chiamò fratello, e poscia i due re appellarono mio padre fratello, e poscia il principe mio fratello, e la principessa mia sorella, han chiamato mio padre padre loro, cosicchè ci siam posti tutti a piangere, e versate io ho le mie prime lagrime da gentiluomo.

Aut. Vi scongiuro, signore, di perdonarmi tutti i miei falli, e di volermi raccomandare al principe mio padrone.

Past. Fàllo, figliuolo; i grandi debbono essere generosi.

Cl. Ti emenderai tu?

Aut. Sì, se così piace a Vostra Signoria.

Cl. Dammi la tua mano, e giurerò al principe che sei il più onest’uomo della Boemia.

Past. Glielo potrai dire, ma non giurare.

Cl. Sì, non giurerò più, ora che son gentiluomo.

Past. Ma se poi dicessi una cosa non vera, figliuolo?

Cl. Foss’ella falsa come l’onda, un gentiluomo la potrebbe far sempre divenir vera. Sì, dirò al principe che tu sei un valent’uomo, sebben sappia che nol sii: ma bisogna che tu intenda a divenirlo.

Aut. Farò ogni sforzo a tale effetto, grazioso signore.

Cl. Sforzati, sforzati di divenire onesto, quantunque sia opera assai ardua. Ascolta; i re e i principi nostri parenti sono andati a vedere il ritratto della regina: seguine, e noi ti proteggeremo. (escono)

SCENA III.

La stessa. — Una stanza nella casa di Paolina.

Entrano Leonte, Polissene, Florizel, Perdita, Camillo, Paolina, Signori e seguito.

Leon. Oh buona e saggia Paolina! qual consolazione ho ricevuta da voi.

Paol. Mio sovrano, se i miei sforzi non son stati sempre felici, le mie intenzioni furono sempre oneste. Quanto ai miei servigii, voi me gli avete ben pagati, ma l’onore che m’avete fatto degnandovi di visitare la mia umile casa insieme col vostro fratello coronato, e con questa coppia d’eredi dei vostri regni, accresce all’infinito i vostri beneficii, di cui nel corso della più lunga vita non potrei abbastanza ringraziarvi. [p. 348 modifica]

Leon. Paolina, di qual onore parlate? Noi siam venuti per veder la statua della regina. Attraversando la vostra galleria abbiam tratto molto diletto da quello che essa racchiude, ma non abbiamo veduto quello che mia figlia è venuta a cercare, l’imagine della sua genitrice.

Paol. Viva, ella non ebbe eguali, e conscia sono, che anche effigiata avanza tutto quello che avete veduto, e tutto quello che ha fatto la mano dell’uomo. Ecco perchè io la tengo in un luogo a parte. Ma ella è qui; apparecchiatevi a mirare la vita così imitata, come quando il profondo sonno imita la morte. Mirate; e dite che è una bell’opera. (tira una cortina, e si vede una statua) Il vostro silenzio mi piace, esso prova la vostra meraviglia. Ma parlate, e voi primo, mio sovrano: dite, non si avvicina essa all’originale?

Leon. È rediviva! Caro marmo, fammi udir fieri rimproveri, ond’io possa dire, che davvero sei Ermione! o piuttosto sei ben tu meglio ancora nel tuo generoso silenzio, perocchè ell’era amorosa come la fanciullezza e le grazie. Ma nondimeno, Paolina, Ermione non aveva quelle rughe; ella non aveva l’età che quella statua sembra far credere che abbia.

Pol. Oh! no certo.

Paol. Questo è quel che prova ancor più l’eccellenza dell’arte dello statuario, che lascia trascorrere uno spazio di sedici anni, e la rappresenta tale, quale sarebbe oggi se ancora vivesse.

Leon. Come avrebbe potuto vivere, per darmi una consolazione così grande, come è il dolore di cui la sua vista mi empie l’anima. Oh! ecco quale era il suo portamento e il suo aspetto maestoso (piena di vita allora, come è qui insensibile e agghiacciata), la prima volta ch’io le parlai d’amore. Sono compreso di vergogna dinanzi a questo marmo! Oh capo-lavoro augusto! vi è nella tua maestà una magica forza, che evoca nella mia memoria tutti i miei delitti, e che ha privato de’ suoi spiriti tua figlia in ammirazione: ella pure è divenuta un’altra statua.

Per. Ah! lasciatemi seguire il movimento del mio cuore, e non dite che è una superstizione, s’io cado alle sue ginocchia e la prego, perchè mi benedica. Cara madre, adorata regina, che cessasti di vivere, allorchè io a viver cominciai, dammi la tua mano, perch’io la baci.

Paol. Fermatevi, non vi appressate a quella statua.

Cam. Signore, troppo crudelmente ancora risentiste i dolori, che sedici anni non han potuto alleviare: ora è tempo che vi calmiate. [p. 349 modifica]

Pol. Caro fratello, permettete che quello che è stato cagione di tanti guai, valga a togliervi quell’affanno, che prende egli stesso per sua parte.

Paol. In verità, signore, se avessi potuto prevedere che la vista della mia statua vi avesse fatta sì grande impressione, non ve l’avrei mostrata.

Leon. Non chiudete le cortine.

Paol. Non dovete mirarla di più; la vostra imaginazione arriverebbe forse a persuadersi che ella si muove.

Leon. Ah, piacesse al Cielo! Vorrei esser morto, se non mi pare di già... Chi è l’uomo che l’ha fatta? Guardate, signori; non credereste che ella respirasse, che il sangue circolasse ancora per le sue vene?

Pol. È un capo-lavoro; la vita spira dalle sue labbra.

Leon. Il suo occhio, sebben fisso, sembra mobile, tanto è grande l’illusione dell’arte.

Paol. Vuo’ tirar la cortina; il mio sovrano è così infiammato, ch’ei crederà ch’ella ancor viva.

Leon. Ah mia cara Paolina! lasciatemi crederlo per venti anni di seguito; non v’è ragione che produr possa il piacere, che genera in me questo delirio. Lasciatemela vedere.

Paol. Son dolente, signore, di avervi cagionato quest’eccesso d’emozione, ma potrei affliggervi anche di più.

Leon. Fatelo, Paolina, perchè questa tristezza ha più dolcezze, che le più care consolazioni. Parmi che dalla sua bocca esca una specie di soffio; qual sottil scalpello potè ritrar l’alito! Niuno rida della mia frenesia, io voglio abbracciarla.

Paol. Oh mio caro sovrano! fermatevi. Il vermiglio delle tue labbra è umido ancora. Voi lo guastereste baciandolo, e lordereste le vostre coll’olio della pittura. Chiuderò io la tenda?

Leon. No, per pietà!

Per. Resterei qui sempre a contemplarla.

Paol. Calmatevi, e lasciate questa stanza, o apparecchiatevi ad esser commossi da una meraviglia ancor più grande. Se voi potete sostenerne la vista, io farò muovere quella statua, la farò discendere dal suo piedestallo, e venirvi a prendere per mano; ma allora crederete che io sia aiutata dalle potenze infernali.

Leon. Tutto quello che è in vostro potere di farle fare, sarò contento di esserne testimonio; tutto quello che è in vostro potere di farle dire, sarò contento d’intenderlo: perocchè vi sarà del pari facile il farla parlare, come il farla muovere. [p. 350 modifica]

Paol. È necessario che vi accendiate tutti di fede. Su via, rimanete immobili, e quelli che credono ch’io compia un’opera illecita, si ritirino.

Leon. Cominciate: nessuno fiaterà.

Paol. Musici, svegliatela, fate udire i vostri suoni. (s’ode musica) È tempo; discendi, cessa, cessa di essere una pietra insensibile. Avvicinati, ed empi di stupore tutti quelli che stanno a contemplarti. Vieni, io chiuderò la tua tenda; discendi dalla tua base e rendi alla morte quel sopore, perchè una vita fortunata si riscatta dalle sue braccia. (Ermione scende dal piedestallo) Voi lo vedete. Ella si muove. Non trasalite; le sue opere saranno così innocenti, come l’arte che io adopero dinanzi a voi: non la evitate se prima non la rivedete morire una seconda volta, perchè due volte allora le avreste data la morte. Su, offritele la mano; allorchè era più giovane, voi le facevate la corte, ora è essa che vi previene.

Leon. (abbracciandola) Oh, io sento il calore della vita! Se questo è l’effetto di un poter magico, possa egli durare eternamente.

Pol. Essa lo abbraccia!

Cam. E si appende al suo collo! se viva è ancora, perchè non parla?

Pol. Sì, parli, e ne dica dove è vissuta tutto questo tempo, e come è sfuggita agli artigli della morte.

Paol. Se vi si fosse detto ch’ella era ancor viva, avreste riputato menzogna quella novella; ma i vostri occhi son testimonii che ella respira, quantunque ancora non favelli. Osservate intanto. — Vorreste voi, bella principessa, (a Per.) gettarvi fra lei e il re, cadere alle di lei ginocchia, e chiederle una benedizione? — Addirizzate qui i vostri sguardi, cara regina, (a Ermione, presentandole Perdita che se le inginocchia dinanzi) La nostra Perdita è ritrovata.

Er. Oh voi. Dei, volgete qui gli occhi vostri, e dalle vostre urne sacre versate tutte le vostre grazie sulla testa di mia figlia! Dimmi, figlia, dove sei tu stata fin’ora? Come sei vissuta, come hai trovata la Corte di tuo padre? Avendo saputo da Paolina che l’oracolo faceva sperare che tu fossi anche in vita, io rimasi a questo mondo per rivederti.

Paol. Vi sarà tempo abbastanza per tali racconti. Per tema che gli spettatori, mossi dal vostro esempio, non vogliano turbar la vostra gioia con simili esposizioni, ite insieme voi tutti che ora siete felici, e comunicate agli altri la vostra esultanza: io [p. 351 modifica]tortorella invecchiata, andrò a posarmi su qualche ramo secco, e là gemerò sulla perdita del mio caro sposo, che non ritroverò mai, fuorchè discendendo io stessa nella tomba.

Leon. Calmatevi, Paolina: voi dovreste prendere un nuovo consorte col mio consenso, com’io prendo una sposa col vostro; è un patto fatto fra di noi, e confermato dai nostri giuramenti. Voi avete trovata la mia sposa; ma come? me ne risponderete, perchè a me parve di vederla morta, e molte volte andai a pregare sul suo sepolcro. Non muoverò molto lungi, (perchè conosco in parte i suoi segreti sentimenti) per trovarvi un onorato marito. Avvanzatevi, Camillo, e prendete la sua mano; il suo merito e la sua virtù son ben riconosciuti e attestati qui dalla fede di due re. Lasciamo questi luoghi. — Voi fissate i vostri sguardi su mio fratello, (a Er.) e perdonatemi entrambi d’avervi potuto sospettare capaci di colpa. Ecco vostro genero, il figlio del re, che per volere del Cielo ha impegnata la sua fede colla figlia vostra. — Cara Paolina, conducetene in un luogo dove possiamo con agio interrogarci, e risponderci mutuamente sulla parte che ognuno di noi ha compita in questo lungo intervallo di tempo che è trascorso dall’istante in cui siamo stati separati: affrettatevi a guidarne. (escono)


fine del dramma