La poesia cavalleresca e scritti vari/La poesia cavalleresca/V. L'Orlando Furioso/12. Zerbino

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V. L'Orlando Furioso - 12. Zerbino

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i2. — Zerbino.

Siete ben disposti per Zerbino: s’è arrestato, nell’atto di uccidere Medoro, innanzi alla bellezza del giovane. È ciò che di più sensibile ha creato l’Ariosto. È l’anello tra la Cavalleria oltrenaturale e la Cavalleria umana (Tasso). Zerbino è il modello di Tancredi. Dategli un po’ di malinconia e di sentimentalità, ed avrete Tancredi. In che consiste questa «umanità» di Zerbino? Non è un cavaliere errante come gli altri; non fa [p. 159 modifica]saltare asini e frati a tre miglia di distanza: rimane nelle condizioni umane. Quando lo vedete alle prese con quegli esseri soprannaturali, palpitate per lui. È innamorato; è amico in vita e in morte di Orlando: l’amore e l’amicizia lo rendono interessante. Ma innamorati sono anche gli altri; amici sono anche gli altri: perché Zerbino debb’essere più interessante? Perché quelli rimangono in una sfera d’immaginazione, non ci sono vicini. In Zerbino sentiamo noi stessi; ecco perché fa in noi maggior effetto. Queste qualità non rimangono inerti in Zerbino; vi sono situazioni che le sviluppano. Vedendolo alle prese con que’ cavalieri di forze straordinarie, fremiamo pensando al suo pericolo. Dapprima crede morta Isabella, poi la ritrova, poi muore ai suoi piedi. Orlando salva la vita a Zerbino, l’onore ad Isabella, e Zerbino muore per difenderne le armi. Cosi c’interessa come guerriero, innamorato ed amico.

La vita di Zerbino è semplicissima; potreste farne una tragedia; rimane come un fiore staccato nel poema. Formiamo questa tragedia. Tre atti ed un prologo. Il prologo sarebbe un’azione, preludio della tragedia. Avete una caverna oscura, una vecchia, Gabrina, che vi custodisce Isabella: sopraggiunge Orlando, che stermina i malandrini e libera Isabella. Qui trovate anche il nòcciolo dell’azione. Isabella, separata da Zerbino, è liberata da Orlando. Avete gli antecedenti dell’amore, il germe dell’amicizia, e l’apparizione di Gabrina.

Il primo atto è un lungo scroscio di risa, che finisce in un grido lugubre. Il secondo vi dá Zerbino sulle forche, e riscosso da Orlando: Zerbino è felice. Atto terzo: Zerbino combatte e muore. Nessun personaggio esterno si mesce nella storia di Zerbino.

Nel primo atto incontrate Gabrina in abiti da sposa. Più gli abiti saranno belli, piú la bertuccia è ridicola. Stuzzicate la scimia, o la vecchia; s’incollerirá e diventerá vie piú brutta. Quest’è il fondo di una stupenda ottava:

     Avea la donna (se la crespa buccia
Può darne indicio) piú della Sibilla,
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E parca, cosí ornata, una bertuccia.
Quando per muover riso alcun vestilla;
Ed or piú brutta par, che si corruccia,
E che dagli occhi l’ira le sfavilla;
Ch’a donna non si fa maggior dispetto
Che quando o vecchia o brutta le vien detto.

E Zerbino aveva detto vedendola: — Quanto è brutta questa vecchia! — . È accompagnata da Marfisa. Zerbino comincia a motteggiare con Marfisa:

...— Guerrier, tu sei pien d’ogni avviso
Che damigella di tal sorte guidi.
Che non temi trovar chi te la invidi
.   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .
Ben vi sete accoppiati: io giurerei,
Com’ella è bella, tu gagliardo sei.

Questo è quello che ho chiamato uno scroscio di risa. Marfisa sa rispondere con spirito. Zerbino si lamenta di aver trovata costei invece di Isabella. Ma Gabrina finisce per disgustarvi, dopo avervi fatto ridere. Giura di vendicarsi dell’odio di Zerbino.

Il secondo atto è lo sviluppo dell’odio di Gabrina. Trovano Pinabello morto. Gabrina va dal padre di Pinabello; denunzia Zerbino, ch’è tratto alla forca quando sopravviene Orlando, che lo libera, e gli ridá Isabella. Pure pare che l’autore non abbia preso interesse a questa parte; il solo interesse è l’agnizione di Zerbino e d’Isabella.

Terzo atto: Zerbino deve espiare la sua felicitá. Trovano in una campagna le armi d’Orlando, sparse qua e lá, ed apprendono la sua follia. Zerbino fa un trofeo di quelle armi, e vi scrive sopra:

«Armatura d’Orlando paladino»:
Come volesse dir: — Nessun la mova
Che star non possa con Orlando a prova — .

Sopraggiunge Mandricardo, che prende Durindana. Zerbino gli si precipita addosso. Che differenza di forza fra’ due [p. 161 modifica]antagonisti! L’interesse è tutto per Zerbino, anche esteticamente Mandricardo non esiste: è una torre, una macchina; alza ed abbassa la spada, non altro: ciò che è animato nel duello è Durindana, non Mandricardo. Ma dall’altra parte ci è tutto l’uomo. Zerbino supplisce alla mancanza di forze col coraggio e la destrezza. Mandricardo riman fermo come un cinghiale, assalito da cani:

Benché Zerbin piú colpi e fugga e schivi,
Non può schivare alfin ch’un non gli arrivi.

Questa ferita è tanto leggiera che il poeta vi dice: — Guardate Zerbino quanto è bello — :

     Cosi talora un bel purpureo nastro
Ho veduto partir tela d’argento
Da quella bianca man piú ch’alabastro,
Da cui partire il cor spesso mi sento.


Vi rattempera l’angoscia della tragedia. Isabella si accosta a Doralice:
E la priega e la supplica per Dio,
Che partir voglia il fiero assalto e rio.


Si separano i guerrieri. Zerbino deve morire solo con Isabella.

I cavalieri erranti sogliono morire d’una morte sconsolata di pianto. Sono interessanti solo in vita; ma muoiono come cani. Ma non così i guerrieri dell’Ariosto che appartengono all’elemento umano. Brandimarte muore con un amico vicino che piange, con una moglie lontana che piange. Cosi Zerbino muore accanto alla sua amata. Nella morte di Zerbino il cuore si affaccia per la prima volta nella poesia moderna. La poesia cavalleresca è crudele come un fanciullo che vuol ridere; l’uomo spunta quando il cuore comincia a palpitare. La Cavalleria è come i romani che gridavano: — Viva! — al gladiatore che cadeva bene. [p. 162 modifica]

La morte di Zerbino è espressa in poche ottave. Un poeta volgare presenterebbe subito Zerbino come morente. La collera non fa avvertire il dolore. Zerbino non sente il dolore delle ferite, incollerito contro Mandricardo e contro sé stesso. Non pensa: — Sono un uomo morto — :

     Il lasciar Durindana si gran fallo
Gli par, che piú d’ogni altro mal gl’incresce,
Quantunque appena star possa a cavallo.
Pel molto sangue che gli è uscito ed esce.

Potrei citarvi una situazione simile del Tasso. Clorinda e Tancredi sembrano non aver più forze, e pur continuano per ira a battersi:

Oh che sanguigna e spaziosa porta
Fa l’una e l’altra spada, ovunque giugna,
Nell’arme e nelle carni! e se la vita
Non esce, sdegno tienla al petto unita.


Nel Tasso non solo una forma patetica (esclamativa), ma il concetto della forza morale che rimpiazza la fisica; ché Ariosto afferrava immediatamente la natura in ciò che ha di reale, senza aver bisogno di riflettere. Il Tasso ha riflettuto sulla situazione.

Ma, passata la collera, comincia ad avvertire il dolore:

Ma, poiché dopo non troppo intervallo
Cessa con l’ira il caldo, il dolor cresce.


Che naturalezza! Il dolore non cresce; ma è avvertito. Né solo sente cresciuto il dolore, ma presente la morte:
Cresce il dolor si impetuosamente,
Che mancarsi la vita se ne sente.

Cade di cavallo vicino una fontana:

Per debolezza piú non potea gire.
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L’endecasillabo nella sua struttura inchiude tutti gli altri versi. Per pronunziare questo verso secondo le regole, bisognerebbe fermarsi su «più»; ma sarebbe un controsenso. «Per debolezza» deve essere separato; «potea» dovrebbe essere accentato; ma l’accento cade sulla nona invece che sull’ottava; vi sono quattro pause: «Per debolézza piú nón potéa gire».

Zerbino agonizza; guardate Isabella; è disperata. Vi ricordate Ugolino immobile innanzi al figlio che dice: «Padre mio, ché non m’aiuti?». È la statua della disperazione. Isabella tace disperatamente:

Non sa che far, né che si debba dire.
Per aiutarlo, la donzella umana.

Ugolino è natura chiusa ed energica, che rimane chiusa fino all’ultimo. Isabella, debole ragazza, prorompe:

Ella non sa, se non invan dolersi.

Prima i suoi lamenti sono parole inarticolate, poi acquistano un senso. Zerbino raccoglie le sue forze per calmar Isabella, e consolarla. La forma della sua consolazione ricorda Farinata, quando dice:

E ciò mi pesa piú che questo letto.

L’infinito dell’altro mondo rende colossale il dolor morale. Nell’Ariosto, non vi sono le circostanze gigantesche. L’immagine d’Ariosto non è sublime, ma patetica. Il sublime non si descrive.

Zerbin, che i languidi occhi ha in lei conversi.
Sente piú doglia ch’ella si querele.
Che della passion tenace e forte
Che l’ha condotto ornai vicino a morte.

Zerbino parla. C’è in lui, ora, qualcosa che lo fa profondamente interessante. Muore, e r amore gli sopravvive, e si mostra geloso. Non dice: — Temo che mi tradisca — brutalmente:

— Cosi, cor mio, vogliate (le diceva).
Dopo ch’io sarò morto, amarmi ancora.
[p. 164 modifica]Mentre siete inteneriti, un rève grazioso sparge bellezza sul lamento:
Ché se in sicura parte m’accadeva
Finir della mia vita l’ultima ora.
Lieto e contento e fortunato appieno
Morto sarei, poich’io vi moro in seno.


Virgilio dice: «o terque quaterque beati!». Ariosto dice: «Lieto e contento e fortunato appieno».
     Ma poiché ’l mio destino iniquo e duro
Vuol ch’io vi lasci, e non so in man di cui;
Per questa bocca e per questi occhi giuro.
Per queste chiome onde allacciato fui...


È unita la ricordanza del primo incontro e il dolore di lasciarla. Scoppia la disperazione:
Che disperato nel profondo oscuro
Vo dello ’nferno, ove il pensar di vui.
Ch’abbia cosí lasciata, assai piú ria
Sará d’ogn’altra pena che vi sia.


Vi ricorderete il «ciò mi tormenta piú» ecc.

Isabella capisce la gelosia: e gli s’inchina e lo bacia in bocca; sono «les fiançailles de la mort». È un momento si bello che l’Ariosto si ferma a guardarli, e con la grazia d’un paragone addolcisce lo strazio:

     A questo la mestissima Isabella,
Declinando la faccia lagrimosa,
E congiungendo la sua bocca a quella
Di Zerbin, languidetta come rosa.
Rosa non côlta in sua stagion, si ch’ella
Impallidisca in su la siepe ombrosa,
Disse: — Non vi pensate giá, mia vita,
Far senza me quest’ultima partita.
[p. 165 modifica]Quant’è ben scelto quel: «mia vita»!
     Di ciò, cor mio, nessun timor vi tocchi;
Ch’io vo’ seguirvi o in cielo o nello ’nferno... — .

E sèguita a baciarlo; e come Ariosto esprime questo bacio! Non vi è nulla di voluttuoso:

Cosi dicendo, le reliquie estreme
Dello spirto vital che morte fura,
Va ricogliendo con le labbra meste,
Fin ch’una minima aura ve ne reste.

Zerbino sente ritornar ima nuova forza e pronunzia le sue ultime parole, esortandola a non uccidersi, ma ancora di non dimenticarlo:

     Zerbin, la deboi voce rinforzando.
Disse: — Io vi priego e supplico, mia diva.
Per quell’amor che mi mostraste, quando
Per me lasciaste la paterna riva;
E se comandar posso, io ve ’l comando,
Che, finché piaccia a Dio, restiate viva;
Né mai per caso pogniate in oblio
Che, quanto amar si può, v’abbia amato io...— .

Dopo quest’ultimo sforzo si sente venir meno. Impressione straziante d’Isabella:

Chi potrá dire appien come si duole.
Poiché si vede pallido e disteso.
La giovinetta, e freddo come ghiaccio,
Il suo caro Zerbin restar in braccio?

Sentite quanto cuore aveva l’Ariosto! Questa rappresentazione ha due sorelle: abbandono di Olimpia e morte di Brandimarte.