La porta della gioia/L'erede

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L’erede

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L'uncino Dèdalo, padre d'Icaro

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L’EREDE

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— Spòsati e dammi un erede — consigliò a suo nipote Anselmo il vecchio conte Ciro Lucentani, invece di rispondere col solito amabile ma fermo diniego alle ripetute richieste di danaro che gli rivolgeva da qualche tempo il giovane troppo pordigo. — Spòsati, abbi un figlio ed io diverrò per te il più gentile e il più generoso di tutti gli zii.

Anselmo Lucentani s’incastrò nell’orbita il monocolo cerchiato di tartaruga e sogghignò sarcastico contraendo tutte le precoci rughe della sua faccia glabra pallida e scimmiesca di gaudente trentottenne. Quindi allargò le braccia in un gesto di rassegnato consenso.

— Sta bene — disse, e masticò nervosamente il suo sigaro con un’aria meditativa, — giungerò anche a questo per compiacerti: io, lo scapolo ultra impenitente, il giocatore, il donnaiolo, il vizioso, il nottambulo, mi rassegnerò alla parte leggermente ridicola di marito integerrimo e di padre esemplare affinchè non s’estingua con me, ultimo e indegno rampollo, la nobile razza dei Lucentani. Ma esigo una cosa sola. [p. 72 modifica]

— Cioè?

— Che la sposa mi sia scelta, apparecchiata, portata nell’onesto talamo senza ch’io debba darmi la pena di andarla a scovare e di farle la corte. Pensaci tu.

— Ci ho già pensato, — ripose prontamente il vecchio, — ho già trovato la gemma di tutte le perfezioni nella persona della signorina Doretta Dari, una fanciulla di nobile famiglia decaduta, figlia di un mio defunto amico, graziosa come un amore, candida come un agnellino e appena ventenne. Ella si trova tuttora in un convento e non anela che ad uscirne e a prender marito.

— E sia, — consentì Anselmo, ripetendo il suo sogghigno scimmiescamente beffardo, — vada per l’agnellino ed auguriamoci ch’io non le faccia l’effetto del lupo, capace di mangiarsela in un boccone.

Ma il vecchio con un arguto riso gli battè più volte la mano sulla spalla:

— Via, non esageriamo coi formidabili appettiti, — esclamò ammonendolo; e accompagnò il nipote alla porta appoggiandosi famigliarmente al suo braccio e discorrendo dei suol propositi con pacata gaiezza.

Così avvenne che il conte Anselmo Lucentani, lo scapestrato, il dissipatore noto in tutti i ritrovi del vizio elegante, si presentasse un [p. 73 modifica]mattino dinanzi all’altare della Cappella gentilizia tutta parata a festa per l’occasione, accompagnandovi una candida vergine ventenne, vestita di bianco, incoronata di fiori d’arancio, tiepida come una colombella spaurita, e vi pronunciasse il sacramentale che doveva legarli l’uno all’altra per tutto il resto della loro vita.

Subito dopo, toccati appena i cibi rarissimi e i vini delicati d’una sontuosa colazione gli sposi si diressero alla stazione accompagnati dal conte Ciro, il quale li abbracciò raggiante di letizia, e con molti saggi consigli, li collocò paternamente nel treno di lusso diretto a Parigi.

Quindi se ne ritornò lietamente a casa sua pensando con parecchi sospiri di sollievo, che l’eredità del suo sangue, del suo nome e delle sue sostanze era ormai assicurata.

Senonchè trascorsi due mesi e mezzo, quando la coppia tornò dal suo viaggio di nozze, questa certezza non pareva ancora sul punto d’avverarsi ed il conte Anselmo lo diceva col suo solito sogghigno falsamente motteggiatore, mentre Doretta nella camera accanto cantarellava aiutando la cameriera a disfare i bauli.

Il conte Ciro, sdraiato in una poltrona, la ascoltava con tenerezza e pensava che ella non poteva certamente mancare alla sua missione di madre.

Egli la vedeva passare e ripassare nel vano della porta spalancata, con la bella persona [p. 74 modifica]avvolta in una vestaglia di finissime trine antiche, alta ed agile, florida e bruna come una dea della giovinezza e della salute e il suo vecchio cuore si rallegrava di quella vista, già immaginando il piccolo essere deliziosamente bello, sano e forte che quella magnifica creatura gli avrebbe un giorno donato.

Ma passarono altri tre mesi; ne passarono sei, un anno intero trascorse senza che la speranza sempre viva dello zio accennasse a farsi realtà.

Ormai il conte Anselmo evitava nei suoi discorsi con lo zio questo argomento, ben sapendo come il vecchio soffrisse e s’irritasse da quella attesa ormai troppo prolungata. Se ne indispettiva rabbiosamente egli stesso accorgendosi che la splendida larghezza, la signorile generosità dimostratagli dal vecchio subito dopo il suo docile matrimonio incominciava a diminuire a suo riguardo come se egli lo ritenesse colpevole di una frode o di un inganno e se ne vendicasse e lo punisse nel modo più crudele.

Anche Doretta, istruita delle aspirazioni dello zio, si sentiva ora a disagio dinanzi a lui e dinanzi al marito e mutava a grado a grado la sua giovanile gaiezza e la sua bella salute in una continua tristezza che incominciava a divenire morbosa. [p. 75 modifica]

— Meno male che fu lo zio a cercarmi una moglie ed a scegliere proprio te, — le disse un giorno brutalmente Anselmo, — almeno io non ho nessuna colpa di questa tua disgraziata sterilità. A che ti han servito tanta gioventù, tanta freschezza, tanto candore se sei e sarai sempre incapace di mettere al mondo un figlio?

La contessa Doretta piangeva in silenzio, infantilmente, non sapendo come rispondere nè come difendersi dalle accuse di suo marito.

E venne il giorno in cui il conte Ciro non rivolse più la parola ai nipoti ed il conte Anselmo non rivolse più la parola alla moglie.

Essi abitavano tutti e tre nel medesimo palazzo, s’aggiravano per le stesse sontuose camere, erano serviti dagli stessi domestici, ma vivevano separati da un disaccordo profondo, quasi da un odio irreconciliabile.

La più infelice, perchè maggiormente colpevole di tanto dissidio e perchè più debole e più giovane, era la contessa Dora, la quale dopo tre anni di matrimonio, ancora quasi bambina d’anima e di sentimento, e perciò incapace di ribellione e di proteste, si riduceva a vivere come una vecchia o un’inferma, sola, stanca e avvilita, rinchiusa nelle sue stanze, senz’altra distrazione che qualche passeggiata in carrozza e le frequenti visite alla sua chiesa preferita. [p. 76 modifica]

— Non ne posso più, non ne posso più! — ella gemeva un giorno col volto fra le mani inginochiata ai piedi di un’altare nell’ora ombrosa del crepuscolo vespertino.

E i singhiozzi scuotevano la sua snella persona quasi accasciata su se stessa, quasi abbandonata a terra in uno sconforto supremo di disperazione.

Ella si sentiva così affaticata e così debole dopo quella crisi terribile del suo dolore che nel momento in cui tentò sollevarsi le mancarono le forze, ed ella ricadde in ginocchio con un lamento di sofferenza. Allora qualcuno che l’osservava da qualche tempo al riparo di una colonna si avvicinò, e cortesemente le porse aiuto offrendole la sua mano.

Ella la prese; s’alzò a fatica e timidamente ringraziò, sollevando lo sguardo verso lo sconosciuto.

Egli era giovanissimo, biondo, vestito a lutto, e la guardava con una così pietosa tenerezza ch’ella se ne sentì riconfortata.

— La signora è sofferente? — mormorò il giovine, e poichè ella taceva, nuovamente intimidita, egli soggiunse più piano: — Forse il suo male è nell’anima come il mio.

La contessa Dora s’era seduta al limite di [p. 77 modifica]un lungo banco ed ascoltava in silenzio, non ostante se stessa, le parole del giovinetto.

— Mia madre è morta un mese fa e mi ha lasciato completamente solo. Non per spirito religioso, ma perchè ella veniva ogni giorno a pregare in questa chiesa, io vengo ora qui a cercarvi la sua anima e sento che ciò le fa piacere, e ciò la consola nell’al di là. Ella pure, signora, vi viene spesso. Io lo so, la osservo da qualche giorno e mi pare ch’ella sia molto infelice.

— Oh sì! — esclamò la donna con un sospiro chiudendo gli occhi e portandosi le mani alle tempia. E in quel gesto si racchiuse e si rivelò tutto il suo lungo e il suo vano tormento.

— Io so il suo nome, — disse ancora con un mite sorriso il giovine quando ella s’alzò per andarsene. — Lo chiesi ier l’altro allo scaccino, tanto viva era la mia curiosità su di lei; ed eccole il mio.

Le porse un biglietto listato di nero con le parole: Eugenio Leonardi, seguite dall’indicazione di una via e di un numero.

Ella lo nascose nella borsetta, uscì, salì nella sua carrozza e s’allontanò con un cenno del capo.

Si rividero due giorni dopo nella chiesa deserta ed ella s’accorse di non aver vissuto in quei due giorni che nell’attesa di quel momento. [p. 78 modifica]

Egli osò prenderle ed accarezzarle lievemente una mano, ed ella non la ritrasse, ella non disse quasi parola, ma ascoltò le frasi piene d’ingenuo rapimento ch’egli le sussurrava nell’ombra discreta e complice.

— Temevo che non venisse più, che il mio ardire l’avesse offesa. Ma ora sento che non mi sdegna, che forse già un poco mi è amica. E sono felice perchè oggi non piange come ieri l’altro e forse soffre un po’ meno perchè io le sono vicino e le impedisco di pensare al suo dolore.

Ella sorrideva languidamente sotto gli arabeschi del suo velo fitto e gettava al giovane qualche sguardo pieno di dolcezza.

Nessuno mai le aveva detto parole così tenere con una voce così insinuante; e veramente l’infelicità della sua vita, il disprezzo dello zio, la brutalità di suo marito le parevano ora, sotto il fascino di quella voce, lontani e quasi inesistenti.

Per giorni e settimane Doretta Lucentani tornò ad ascoltare con compiacenza sempre più profonda le parole sempre più fervide del suo nuovo amico e ciascuna volta, ritornando al suo triste palazzo fra il taciturno sdegno dei parenti, sentì verso di essi un odio così intenso ed invincibile da renderle ormai intollerabile la loro vicinanza. [p. 79 modifica]

Essi, assorti nella loro ostile indifferenza, non s’avvidero che qualche cosa di mutato animava di una vitalità più ardente gli occhi della giovane donna e continuarono a trattarla con la loro sdegnosa e umiliante freddezza.

Ma una sera il conte Ciro e il conte Anselmo aspettarono inutilmente che Doretta rientrasse dalla sua passeggiata.

Ella aveva quel giorno rifiutata la carrozza ed era uscita a piedi nelle prime ore del pomeriggio avvertendo la sua cameriera che si recava in chiesa.

I due uomini senza toccar cibo l’attesero inquietissimi fino a ora tarda, quindi spedirono in vari sensi i domestici alla ricerca della signora.

Ma in nessun luogo ella era stata veduta e alla chiesa, a quell’ora chiusa, non si potevano ottenere notizie. Tutta la notte in casa Lucentani si vegliò in ansia e in collera aspettando il mattino per tentare l’ultimo passo a rivolgersi alla Questura. Ma all’alba arrivò un biglietto di Dora con queste laconiche frasi:

«Vi prego di non cercarmi perchè mai più o porrò piede in una casa dove sono disprezzata e odiata. Fuggo con chi mi ama e sarò sua per sempre».

Furente il conte Anselmo si precipitò all’Ufficio del Commissario di polizia per conoscere almeno il nome del rapitore e dopo una [p. 80 modifica]settimana seppe che una signora i cui connotati corrispondevano a quelli della contessa Lucentani s’era imbarcata il giorno innanzi a Brindisi diretta verso l’oriente in compagnia del signor Eugenio Leonardi, un giovane ventenne appartenente ad ottima e doviziosa famiglia.

— Ecco il candido agnellino che tu mi hai dato in moglie — sogghignò dopo queste notizie il marito tradito rivolgendosi allo zio, il quale s’era chiuso da una settimana in un ostinato mutismo. — Incapace di darmi un figlio, è anche una... Veramente la gemma di tutte le perfezioni, come tu la definisti.

E continuò a sogghignare scimmiescamente beffardo ed a pungere di aspri motteggi il vecchio conte Ciro ogni qual volta gli si porgeva il destro di ricordare e di nominare la moglie infedele.

Ma non era ancora trascorso un anno dalla sua fuga, quando il legale di casa Lucentani si presentò un giorno al conte Ciro chiedendogli con urgenza un colloquio e gli pose sott’occhio un telegramma giuntogli allora dal Cairo.

Il telegramma era di sua nipote Dora e diceva:

«Pregovi avvertire mio marito e mio zio che ieri divenni felicemente madre di un bel maschietto. Sono felice. Perdonatemi».

Il conte Ciro meditò lungamente su quelle [p. 81 modifica]parole, poi congedò il legale, fece chiamare suo nipote e in silenzio gli porse il telegramma.

Il conte Anselmo lesse, rilesse, si morse le labbra con ira e guardò sbalordito lo zio che lo fissava ironico attraverso i suoi occhiali mentre un silenzioso riso, saturo di scherno gli scuoteva le spalle curve.

— Povero Anselmo! Sei stato spodestato e, lo devi riconoscere, anche sorpassato. Ma Doretta è felice, ed anch’io.

Suo nipote gli lanciò uno sguardo bieco.

— Tu che c’entri? E perchè devi essere felice?

Il vecchio si drizzò sulla persona con una gioconda fierezza; e rispose calmo:

— Perchè tua moglie m’ha dato finalmente l’erede.