La sesta crociata, ovvero l'istoria della santa vita e delle grandi cavallerie di re Luigi IX di Francia/Parte seconda/Capitolo XXXII

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Capitolo XXXII

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Capitolo XXXII.

Come fu menato il Trattato per la diliveranza del Re e nostra.


Poco appresso c’inviò il Soldano il suo Consiglio a parlarci, e questi dimandò a quale di noi egli [p. 139 modifica]direbbe il messaggio del Soldano. E tutti ci accordammo che ciò fusse al Conte Piero di Bretagna per uno turcimanno che avevano i Saracini, il quale parlava l’uno e l’altro dei linguaggi, Francesco e Saracinesco. E furono tali le parole: Signori, il Soldano c’invia di verso voi per sapere se vorreste punto essere diliveri, e chè vorrestegli dare o fare per la vostra diliveranza ottenere? E a questa dimanda rispose il Conte Piero di Bretagna, che molto volentieri vorremmo esser diliveri delle mani del Soldano, e aver già fatto e indurato ciò che ne fosse possibile per ragione. Ed allora il Consiglio del Soldano domandò al Conte di Bretagna se noi vorremmo punto donare per nostra diliveranza alcuno de’ castelli o piazze forti appartenenti ai Baroni d’Oltremare? Ed il Conte rispose che ciò non potevamo noi fare, per ciò che li detti castelli e piazze erano tenuti dallo Imperadore d’Allemagna che allor ci vivea, e che giammai egli non consentirebbe che il Soldano tenesse cosa sotto di lui. Di ricapo domandò il Consiglio del Soldano, se noi vorremmo rendere nullo de’ Castelli del Tempio o dello Spedale di Rodi per nostra diliveranza. Ed il Conte rispose similmente ch’egli non si poteva fare perchè ciò sarebbe contro il saramento accostumato, il quale è che quando si mette li Castellani e Guardie dei detti luoghi, essi giurano a Dio che per la diliveranza di corpo d’uomo essi non renderanno nullo dei detti Castelli. Allora li Saracini insembre rispuosono ch’egli sembrava bene che noi non avessimo nullo talento nè inveggia d’essere diliverati, [p. 140 modifica]e ch’essi ci andrebbono inviare li giucatori di spade, li quali ci farebbono come agli altri. E sovra ciò se n’andaro. E tantosto appresso che il Consiglio del Soldano se ne fu andato, ecco qui venire a noi un Saracino molto vecchio e di grande apparenza, il quale aveva con lui una frotta di giovani Saracini, i quali tenevano ciascuno una larga spada a lato, donde fummo tutti molto ismarriti. E ci fece dimandare quell’antico Saracino per uno turcimanno, il quale intendeva e parlava la nostra lingua, s’egli era vero che noi credessimo in un solo Dio, che era nato per noi, crocefisso e morto per noi, ed al terzo giorno appresso sua morte risuscitato anche per noi. E noi rispondemmo, che sì veramente. Ed allora egli ci rispuose che poi così era, noi non ci dovevamo disconfortare d’avere sofferto nè di sofferire tali persecuzioni per lui, dacchè ancora non avevamo noi punto indurato la morte per lui, com’egli avea per noi fatto, e che s’egli avea avuto podere di sè risuscitare, che certamente egli ci dilivrerebbe tra breve. E allora se ne andò quel Saracino con tutti li suoi garzoni, senza farci altra cosa. Donde io fui molto gioioso e ringagliardito, perchè m’era inteso ch’essi fussono venuti per mozzarci il capo a tutti; e già non tardò appresso guari di tempo che noi avemmo novelle della nostra diliveranza.

Appresso queste cose di sovra dette il Consiglio del Soldano rivenne a noi, e ci disse che ’l Re avea tanto fatto ch’egli avea procacciato le nostre diliveranze, e che gli inviassimo quattro tra di noi per [p. 141 modifica]udire e sapere tutta la maniera del trattato. Ed a ciò fare gl’inviammo Monsignor Giovanni di Valery, Monsignor Filippo di Monforte, Monsignor Baldovino d’Ebelino Siniscalco di Cipri, e Monsignor Guidone d’Ebelino suo fratello Connestabile di Cipri, che era l’uno dei belli e dei ben condizionati Cavalieri ch’unqua io conoscessi, e che molto amava le genti di quel paese. Li quali quattro Cavalieri di su nomati ci rapportarono tantosto la fazione e maniera della nostra diliveranza. Sappiate dunque che per assaggiare il Re, il Consiglio del Soldano gli fece tali o somiglianti dimande ch’egli ci avea fatte qui innanzi, ed in così che piacque a Nostro Signore, il buon Re San Luigi loro rispose altrettale o somigliante risposta a ciascuna delle due domande come noi avevamo fatto per la bocca del Conte Piero di Bertagna. Di che i Saracini, veggendo che ’l Re non voleva ottemperare alle inchieste loro, il minacciarono di metterlo in ceppi, o come l’uom dice in bernoccoli, che è il più greve tormento ch’essi possano fare a chicchessia. E sono due gran ceppi di legno che s’intertengono a l’un de’ capi, e quando essi vogliono mettervi dentro alcuno, sollevano un ceppo ed all’uomo sfratato in terra attraversano le gambe di grosse caviglie, poi su vi abbassano l’altro ceppo sospeso, e fannovi assedere un uomo sovra. Donde elli avviene ch’e’ non dimora a colui che vi ha le gambe insertate un mezzo piede d’osso che non ne sia rotto o schiacciato. E per peggio fargli, a capo di tre dì gli rimettono le gambe, che sono [p. 142 modifica]grosse ed enfiate, di dentro que’ bernoccoli, e le ritriturano di ricapo, il che è cosa orribilmente crudele solo allo intendere, non che al provare. E ben sappiate che essi anco legano il martoriato a grossi nervi di bue per la testa, di paura ch’elli di là entro non si rimuova. Ma di tutte quelle minacce non fece conto il buon Re, anzi disse loro ch’egli era prigioniero, e ch’essi potevano fare di suo corpo a lor volere.

Quando i Saracini videro ch’e’ non potrebbono vincere la costanza del Re per minacce, ritornarono a lui e gli domandarono quanto vorrebbe donar di finanza al Soldano oltra Damiata ch’egli renderebbe loro. Ed il Re rispose che se il Soldano voleva prendere prezzo e riscatto ragionevole, manderebbe egli a la Reina, ch’ella il pagasse per la redenzione di sue genti. E i Saracini gli domandarono perchè voleva egli mandare a la Reina; ed egli rispuose loro che ben a ragione doveva ciò fare perch’ella era sua Dama e Compagna. Adunque il Consiglio si tornò al Soldano per sapere quanto esso domanderebbe al Re, e saputolo, si ritornò ad esso Re, e gli dissero che se la Reina voleva pagare un milione di bisanti d’oro, che allora valevano cinquecento mila lire, ch’ella libererebbe il Re, ciò facendo. Ed il Re domandò loro per saramento se il Soldano consentirebbe la diliveranza, ove la Reina pagasse loro le cinquecento mila lire. Perchè essi ritornaro al Soldano per sapere s’egli lo voleva così fare e promettere, e ne rapportarono ch’e’ lo volea bene e gliene fecero il saramento. E sì tosto che li [p. 143 modifica]Saracini gli ebbono giurato e promesso in lor fede di così fare e di così liberare, il Re promise ch’egli pagherebbe volentieri per la redenzione e diliveranza di sue genti cinque cento mila lire, e pel suo corpo ch’egli renderebbe Damiata al Soldano, poich’elli non era punto tale ch’e’ volesse redimersi, nè volesse avere per alcuna finanza di danaio la diliveranza del corpo suo. Quando il Soldano intese la buona volontà del Re, uscì dicendo: Fe’ di Macometto! franco e liberale è il Francesco, il quale non ha voluto bargagnare sovra sì gran somma di danaio, ma ha ottriato fare e pagare ciò che l’uomo gli ha dimandato: or gli andate dire, fece il Soldano, che io gli dono sul riscatto cento mila lire, e non ne pagherà più che quattro cento milia.