La sifilide/Libro II
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LIBRO II.
Or qual la vita da tenersi, quale
La cura intorno a danno tanto, e il tempo,
(Che del mio canto l’altra parte è questa)
E i mirandi dirò dell’uom trovati:
5Che al nuovo caso sbalordito, in pria
Molto tentava invan, sin che maggiore
Fessi l’ingegno nella stretta, e crebbe
Per l’uso esperïenza; allor gli aiuti
Potè lunge recar, frenar la peste,
10E vincitrice al cielo erger la fronte.
Io credo ben, che la superna aîta
Molto c’insegni, e ne sien guida i fati.
Che sebben fera la stagione, e inique
Fosser le stelle, non del tutto a noi
15Mancò il Nume, e il favor di ciel benigno.
Se un insolito mal, se tristi guerre,
Se noi vedemmo de’ Signor nel sangue
Tinte le case, e le città, le rocche
Arse, e i regni distrutti, e i templi, e l’are
20Contaminate; se all’urtar dei fiumi
Rotte le sponde, i colti invasi, e l’acque
Rapir le selve, e coi pastor le greggie,
E penuria crudel premer le terre;
Questa pur, questa età medesma (quello
25Che il destin negò agli avi) il mar poteo
Tutto solcar quanto Anfitrite il cinge,
Nè dall’ultimo Atlante ai golfi Esperii
Giunger bastolle, e sotto l’Orsa a Prasso,
Veder di Rapto i lidi alpestri, e addurre
30Dal mar Carmano ed Arabo le merci;
Ma più si giunse alla Titania Aurora
Sopra Indo e Gange, ove al noto orbe dava
Catigara confin, Ciambe lasciata,
E le d’ebano e noci altere selve.
35Dal nostro un mondo al fin per genti e cielo
Diverso, e chiaro per maggiori stelle,
Toccammo, i Dei reggendo il corso ardito.
Insigne un Vate anco vedemmo, al canto
Di cui fer plauso Partenope bella,
40L’ombra di Maro, e il placido Sebeto.
Degli astri il giro egli cantava, e gli orti
D’Esperia, e quante à il ciel mutabil piagge.
Ma di te per lacer e d’altri, cui
Fama appo morte, e le future etadi
45Porranno a paro degli antichi, o BEMBO;
Di quel non tacerò, dono a noi dato,
Magnanimo LEON, per cui s’estolle
Il Lazio, e la gran Roma, e dal suo letto
A Roma trïonfante il Tebro applaude.
50D’esso al favor, le avverse stelle al mondo
Già cessan di far onta, e Giove regna
Diffonditor di pura luce in cielo.
Sol Ei, appo tai pene e lunghi stenti,
Agli ozii dolci le fuggenti Muse
55Richiamò, e al Lazio il prisco dritto e il retto,
E la pietà tornata, in mente volge
Sante per Roma e per la Fede imprese.
L’ampie bocche del Nilo indi, e l’Eufrate,
E d’Asia treman l’onde a tanto nome,
60E fugge l’Egea Dori agli istmi suoi.
Finch’altri adunque sì gran cose, e i fasti
Di Lui racconterà, tu stesso mentre
Vita gli vuoi dar forse in carte eterne,
Noi, cui non chiama il fato a tanto, i nostri
65Scherzi seguiterem con tenue Musa.
Prima, perchè non una il sangue affetto
Indole serba, di quel mal più spera
Che sangue puro invase: in quel cui l’atra
Bile fa gonfio, e denso alza le vene,
70Stentasi più, tenace è più la peste.
Val quindi usar incontro a questi i forti
Mezzi, nè perdonarla ai membri infetti.
Anzi tutti sperar lieti i successi
Quegli può, che scoprir seppe alle prime
75La tabe occulta, e serpeggiante addentro;
Che quando dopo lungo pasto in forza
Venne, e fermò nel sangue il suo veleno,
Quanto a riaver tua libertà di stento!
Dunque ai primi principii opponi ogni opra,
80E serba i miei precetti in mente fermi.
E pria non d’ogni ciel ti voglio amico:
Fuggi, ve’ spira austro perpetuo, o fango, .
O grave odor manda palude immonda.
Meglio l’aperto campo, e i larghi spazii,
85E in colli aprichi anco le aurette, e i molli
Zeffiri, e d’Aquilon l’äer battuto.
Qui, il comando, non ozio, e non riposo:
Non indugiar; in caccia faticosa
Ratto insegui il cinghiale, e l’orso insegui,
90Nè ti sia grave, dell’aerie rupi
Vinto il dorso, fugar rapido cervo
In valle, e in cerca gir pel bosco a lungo.
Che ben vid’io, chi nel sudore estinse,
E lasciò il morbo nelle selve. Stendi
95All’aratro la man, col vomer curvo
Lungo apri il solco, e colla marra il suolo
Fendi, e le dure glèbe, a lutta lena.
Dà di bipenne al piè dell’ardua quercia,
E strappa l’orno dall’ime radici,
100E in casa ovunque esercitarti adopra;
Gioca al mattin, di palla al vespro gioca;
Fa di sudar in dura lotta, e al salto
Vinci il malor; nè ti seduca un lento
Incessante desio d’ozio e di letto:
105Tu del letto fidar, fidar del grave
Sopor non ti vorrai: nutr’egli il morbo,
E in aspetto di pace inganna, e il cresce.
Nè sfuggir men quanto la mente attristi.
Caccia l’ire, le cure, e tutto intendi
110Di Minerva agli studii, ai carmi, ai cori
Di giovani e fanciulle insiem commisti:
Sol che Vener tu fugga, e i piacer molli,
Fatali in ver, poi ch’odiano il contagio
Le tenere donzelle, e Cipria istessa.
115Poi del vitto gelosa aver dèi cura
A null’altra maggior. — E pria che tutto
Quanti pesci od in fonte od in palude
O nei liquidi laghi àn vita, o in mare,
Tutti gli vieto: pur ve n’à cui l’uso
120Concedo liberal, se l’uopo il voglia.
Bianca, non dura, e non tenace àn questi
Carne, sbattuta fra gli scogli e l’onde.
Tai van pel mar le ficidi e le orate
Splendenti, e i gobii, e del sassoso amanti
125Le perchie: tal dei dolci fiumi in riva
D’erbe pasciuto il ruminante scaro
Solo in fra i sassi. Neppur lodo uccelli
Vaghi di stagni, e d’alte fonti, o d’onde
In cui cerchino cibo: a te diniego
130L’anitra pingue, e l’oca ancor più cruda
(Meglio ella vegli al Campidoglio); schiva
La quaglia tarda per grassezza: il ventre
Tu, le interiora, e il tergo, ah il tergo! fuggi
Della scroffa ricurva, e del cinghiale,
135Sia pur in caccia da te colto, il lombo.
Poi nè il duro cocomer, nè il tartuffo,
Nè ’l carcioffo, ne ’l bulbo ti disfami.
Latte e aceto non lodo, non spumose
Tazze di pretto vin, quale i Cirnei
140Od i Falerni od i Pugliesi campi
Mandano, o qual da piccolo racemo
La Retic’uva: è meglio il vin Sabino,
Dalle Naiadi domo a larghe linfe.
Che se dell’orto il cibo ami, e le mense
145Care a Numi; non compre e semplici erbe,
Lieto sisimbrio, verdi mente, ed ài
Cicorea, e sonco in fior pel verno tutto,
E ’l sio che delle fonti ognor tra i rivi
Di godersi fa mostra, ed ài le timbre
150Soavi, e l’odorose calaminte.
Liete cògli melisse, e le buglosse,
U’ l’onda scorre, e a piene man l’eruca
Nel campo, e salso critmo, e bieta, e romice;
Danno il lupolo i dumi, e qui raccolgi
155Asparagi, e vitalba che non aggia
Rami e mani distese, e non suoi verdi
Corimbi ancor. Ma annoverarle ognuna
Lungo e vano sarebbe, e già mi chiama
Altra impresa, e le Muse a selve nuove
160Di Natura vo’ trar dall’ombre Aonie.
Onde se non vorranno alla mia fronte
Dar un serto d’alloro, e l’onor magno;
Alle mie tempie almen, per tante e tante
Vite salvate, lo daran di quercia.
165Se il morbo in primavera od in autunno
Ange talun, fresco degli anni, e pieno
Di sangue, la regal vena o la media
Giova che incida a trarne il fluido impuro.
Ma in qual l’assalga poi tempo la peste,
170Non ti gravi cavar l’umor corrotto,
E il contagio depor dal facil ventre.
Sol prepara l’uscita; i densi umori
Risolvi; attenua i crassi, e taglia i lenti.
Dunque il coricio ed il panfilio timo
175Ch’esce a timbra simil, d’essa più duro,
A cuocer corri, e la volubil fronde
Del lupolo, e finocchio, e l’apio, e i germi
Del capno amaro; aggiungi pur, imago
Di polpi irsuti, il polipodio, schivo
180D’acque l’adianto, e l’infecondo aspleno,
E la pinta fillite; il che beuto
Più di prima, e l’umor crudo concotto
Con acre scilla, e colicintid’aspra
Ti cura e con elleboro, e coll’erba
185Che surta in riva al mar, cangia tre volte
Al dì il color de’ fiori, e al nome il dice.
Giovan le sue radici, unite al zenzero,
Al cocomero anguineo, e al Nabateo
Incenso, e a mirra, a bdelio, a panacea,
190E liquore ammoniaco, e bulbo colchico.
Ciò fatto, se per sorte ài freddo e molle
Sortito il core, nè tentar le acerbe
Ti piacerà sì tosto, e spegner presto
La peste, ma sol vie placide a tempo;
195Ai lasciati fomenti il far ritorno
Sol ti resta, ed opporti al germe reo,
In ammirandi modi a serper uso.
Giovino adunque gli essicanti, e quelli,
Ch’ostano resinosi a sanie putre.
200Tal della mirra è il pianto, e tal l’incenso,
L’aspalato, il cipresso eterno, e il cedro,
Ed il cipero, e il calamo odoroso.
Casia adunque non manchi, e non amomo,
Noci moscate, agalloco, canella.
205V’è pur nei prati, e alle paludi appresso
Scordio a veleni, e a tutte pesti, avverso,
Erba, che a lieve stento aver tu puoi:
La chioma à verde, ed il camedrio imita;
Rosseggia il fior; d’aglio à sapore e nome.
210Di questa alla prim’alba il crin frondoso,
E cuoci la radice, e bevi a josa.
Nè taceran di Te miei carmi, o Cedro,
Gloria d’Esperie e selve Mede, e quivi,
Benchè lodato pria dai sacri vati,
215Non sdegnerai la mia medica Musa.
Così verdeggi ognor tua chioma, e folta
Sempre, e per nuovo fior fragrante, e carca
D’auree pendenti poma, orni la selva.
Dunque i ciechi a sturbar germi del morbo
220L’ammiranda preval citerea pianta,
Che a lei Ciprigna, Adone suo piagnendo,
Molte accrebbe virtudi, e diede i doni.
Nel concavo talun di vitreo vaso
Che oblungo à il collo, e tondo il ventre in giro,
225Manipoli d’Ideo Dittamo, o d’Edra
Cuoce, o d’Iride illiria, o la radice
Negra del Ramno, o l’Enula: il vapore
Alto n’esala, e lieve il vuoto n’empie.
Ma come l’aere incontra, e il freddo vetro,
230Stringesi denso in umida rugiada,
E pel canal trascorre in vago rio.
Dell’acqua distillata ai primi albori
Recano un nappo a ber, indi nel letto
Comandano il sudor, nè invan, ch’ei vale
235Le reliquie del morbo a scior nell’aure.
Se intanto t’ange le convulse membra
Maligno duol, t’affretta di lenirlo
Con olio masticino, esipo, o lento
Grasso dell’oca; arrogi emulso il muco
240Di lin, narcisso, ed enula, con fluido
Mele e croco coricio, e d’olio schiuma.
Che se il viso e le fauci erpete reo
T’assal, con nitro ed acqua medicata
D’erugin verde, il mal, che serpe, aduggi.
245Pur dei caustici sol potrà la forza
L’ulceri consumare, aggiunta ad essi,
Che gli addentri con sè, parte di grasso.
Così qual altra piaga i membri infetti
Pasca, e i duri potrai calli disciorre.
250Se poi tentato invan ciò pur ti sembri,
O ad ogni prova ài spirto e forze pronte,
Nè vuoi protrarre, anzi le acerbe agogni,
Più presto a consumar la peste infame;
D’altri rimedii ti dirò, che quanto
255Aspri son più, tanto più presto i guai
Cessan del male: dappoichè la cruda
Tabe, tenace assai, ma che per molto
Fomite, ardita, le vie dolci e miti
Sdegna, cura non vuole, e più resiste.
260V’à dunque chi storace, e chi cinabro
Usa alle prime, e minio, e stimmi, e trito
Incenso, e il corpo con profumo acerbo
Vapora, ad assorbire il reo contagio.
Ma in vero tal rimedio in parte è duro,
265Fallace in parte, poichè il fiato arresta
Nelle fauci, e l’anela anima appena
Dall’uscir si contien pel corpo tutto.
Perciò non s’usi, a mio consiglio, e giovi
Ai membri sol, cui pascono chironie
270Ulceri, e informi pustulette. — Meglio
Del vivo argento, ch’à miranda possa,
Valgonsi i più: sia perchè il caldo e il freddo,
Ratto sente, onde presto il nostro foco
Riceve, e gli umor scioglie, e meglio agisce,
275Qual fiamma abbrucia più candente ferro:
Sia perchè l’acri particelle, ond’esso
Consta mirabilmente, svincolate
Come possan nei corpi entrar distinte,
Struggon tumori, ardon di peste i germi:
280Sia che il fato o natura altra gli desse
Virtù, dono è de’ Numi, e tal trovato
Di cui vo’ dire; e chi stupendi i doni
Può ridir degli Dei? — Là della Siria
Nell’alte valli, a glauche selve in mezzo
285Di salci ombrosi, u’ di Calliroe è il fonte,
Fama è che Ilceo, cultor d’orto agli agresti
Dei sacro, e di foreste, e cacciatore
Di belve, colto da cotanto morbo,
Il cipero annaffiando e la fragrante
290Selvetta della casia e dell’amomo,
Così pregasse: — O Dei, che sempre io stesso
O’ venerato, e tu Calliroe santa
Che i morbi fughi, e cui pur ora affissi
D’un cervo e testa e corna ad alta quercia;
295Dei, se infelice a me questa torrete
Peste crudel, che notte e dì mi strugge,
Io le purpuree e candide viole
Prime dell’orticello, e i bianchi gigli,
Le prime rose, ed i giacinti primi,
300Darò in serto odoroso ai vostri altari.
Ivi sorgea verde gramigna, e lasso
Ei si corcò, ciò detto, all’erba in mezzo.
Qui Calliroe la Dea, che al vicin fonte
Bagnavasi, con lene onda scorrendo
305Dal liquid’antro pei muscosi sassi,
Col soave sussurro il senno infuse
Nel giovin sulla ripa ai salci in mezzo,
Ed ei dal sacro fiume uscir la vide,
Ed in sogno così dirgli pietosa:
310Ilceo, o dagli Dei nel mal estremo
Inteso, o tu mia cura, ovunque il Sole
Splenda nell’orbe, non sperar salute.
Trivia, e alla prece sua Febo, t’affligge
Pel sacro cervo che feristi al fiume,
315E per l’orrido capo ai tronchi nostri
Infitto: poi che esanime ella vide
La belva e il mozzo capo, e il suol del sacro
Sangue cosparso, empieo di lai la selva;
Maledisse all’autor. Di tanta suora
320Febo udì il prego, e peste immonda d’ambo
Per l’ire avesti, ovunque splenda il Sole,
Fuor d’aita: indi alla terra in fondo
Fra l’ombre déi cercar, se v’à, salute.
Sotto il monte vicin, da piante chiuso,
325V’à un antro per orror tremendo, dove
Sorge a Giove gran selva, in cui le cime
Dei cedri mandan rauco suon; quì vanne
Come rompa l’Aurora, e negra agnella
Supplice svena in su l’entrar: grand’Opi,
330Dicendo, a te la sveno; indi la Notte,
Le Ninfe, ignote Dee, gli Dei dei boschi,
D’atro cipresso e tia abbiano incenso.
E a te, che narri il caso, e invochi aita,
Non mancherà la Dea, che te nei sacri
335Del suol recessi adduca, e regga attenta.
Or sorgi, nè temer di sogno in questo:
Quella son io, che per i pingui colti,
Scorro con pure linfe, e tu conosci.
Disse, e presto l’azzurra onda l’ascose.
340Egli tolto al sopor mite, s’allegra
Del bene, e voti offre alla ninfa amica:
Sì che ovunque ti seguo, o del vicino
Fonte Calliroe diva; e come ruppe
Nuova l’aurora in ciel, nella di Giove
345Selva, sott’esso l’ardue rupi, l’antro
A sè dimostro entrò: la negra agnella
Ferma sul limitar, e tremebonda
La svena ad Opi, e a Te, grida, la sveno
Grand’Opi; indi la Notte; e della Nolle
350Le ignote Dive invoca, e già il cipresso
Atro, e ardeva la tia, quando una voce
Sotterra al sacro delle Ninfe orecchio
Giunse, di lor c’ànno i metalli in cura.
Tutte scuotonsi tosto, e lascian l’opre,
355Mentre liquidi zolfi, e vivo argento
Trattavano a ritrarne il fulgid’auro,
E li cuocean premendo in frigid’onda
Cento di foco spessi raggi, e d’etere
Abbruciato, e di terra e mar frantumi
360Mescean, semi sfuggenti ai guardi nostri.
Lipare intanto, Lipare che d’auro
E argento à cura, e i sacri arde bitumi,
Di sotterra ad Ilceo ratta sen viene
Per cieche vie; lo racconsola, e dice:
365Ilceo, poichè il tuo nome, ed il tuo morbo,
Ed a che vieni il so, caccia i timori.
Calliroe mia qui non ti manda invano:
Avrai salute della terra in fondo:
Fa core, e per le mute opache vie
370Seguimi, e duce avrai me stessa al fianco.
Sì disse, e l’antro cieco entrò la prima.
La segue egli, stupìto a quelle vaste
Vie della terra squallide in eterno,
Antri ognor ciechi, e sotterranei fiumi.
375Lipare allor: quant’ampia terra vedi
Di luce muta, a notte sacra, è sede
Di Numi, e n’à Proserpina il profondo,
L’alto i fonti, che fuor dagli antri sacri
Van per vie late romorosi al mare.
380Stan ricche Ninfe in mezzo, onde i metalli
Lucid’or, rame, argento origin ànno.
Ed una io delle suore a te pietosa
Ne vegno, io stessa, che per vie montane
Noti a Calliroe tua fumanti solfi
385Mando: fra terra e fumo ivano intanto. —
Ma già le fiamme crepitar, e i chiusi
Zolfi e di rame strider le fucine
S’odon: quest’è, la Vergin disse, terra
Del metal vario pregna, onde cotanto
390Cale a voi che del ciel l’aure beete.
Mille abitiam noi Dee quest’antri cupi,
Noi figlie della Notte e della Terra,
Piene d’arti e virtù: s’adopran l’une
L’acque a dedur, l’altre a cercar scintille
395E di commisto foco i germi ovunque:
Mescon materie quelle, oppongon queste
Alle masse ripari, e infondon l’acque.
Non lunge a canne aperte etnei Ciclopi
Àn le fucine, e cuocono, e riversano,
400Vulcan stride, e il metal sonante battono.
La manca interna via conduce ad essi:
Ma del rio sacro la diritta all’onde,
Onde d’argento e di metallo vivo,
Speme a salute. — E già tenean le aurate
405Volte, e di spodio le mura grommate,
E di fuligo e glauco zolfo intorno.
Già del liquido argento agli ampii laghi
Stavansi presso, e ne tenean le sponde.
E qui di tanti guai ritrovi il fine,
410Lipare aggiunge; per tre volte asperso
Del sacro fiume, attufferansi in quello.
Disse, e tre volte del salubre argento
L’asperge; tre colla virginea mano
D’acqua, e terge tre volte il corpo tutto
410Del giovane, che ammira, e sè mondato,
E lasciata la rea peste nel fiume.
Dunque tosto che t’abbia il ciel più puro,
Ed il nitido giorno, e il Sol vedrai,
Alla casta Diana, e l’ara appresta
420Del loco ai Numi, e dell’amico fonte.
La Vergin disse, e il giovane che a tanto
Dono grazie porgea, dal sen di notte
Tolto, sano rediva al dì bramato.
La nuova fama acquistò fede, e ovunque
425Disse certo il rimedio, onde da pria
Sugna porcina a fluido argento unissi;
Indi d’Oricio terebinto pece,
E di larice aerio; altri usa ancora
D’orso o cavallo il grasso, o bdelio, o cedria.
430Altri gocce di mirra, o incenso maschio
V’aggiunge, o rosso minio e zolfo vivo.
Nè spiace a me se alcun tritura, e mesce
L’iri esiccante, il galbano, l’elleboro
Graveolente, il lasero, e il salubre
435Di lentisco olio, e zolfo ignoto al foco.
Or ungerne, e coprirti il corpo tutto
Turpe nè osceno ti rassembri, un male
Fuggi così, di cui nulla è più sozzo;
Sol che i molli precordii e salvi il capo.
440Cinganti allor velli di stoppia e fascie;
Molte sul letto poi coltre t’imponi,
Sì che impuro il sudor stilli dal corpo:
Tanto basti iterar per giorni dieci.
Aspro; ma è da soffrir quant’egli è d’uopo.
445Fa cor; certa salute ài già da presso.
Vedi negli escrementi il mal si stempra!
Assiduo sputo ti spumeggia in bocca,
E largo ai piedi tuoi fiume di tabe.
Brutte macchino pur ulceri il volto,
450E tu il bagna con latte, o vuoi con succo
Di spocistìde e di ligustro verde:
Ed or Falerno generoso e Chio,
E spumante in gran nappo il Rezio assento.
Ma già vincesti, e la salute è teco:
455Ti resta una sol cura, e blanda al tutto:
Con stecade, e lavar il corpo e gli arti
Con rosmarin, sacra verbena, e chiome
Amaracine, ed eraclei profumi.