Le odi e i frammenti (Pindaro)/Frammenti/Peani

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Peani

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Pindaro - Le odi e i frammenti (518 a.C. / 438 a.C.)
Traduzione di Ettore Romagnoli (1927)
Peani
Frammenti - Inni Frammenti - Ditirambi
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PEANI

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Il peana fu in origine sacro solamente ad Apollo e ad Artèmide: in seguito, se ne composero anche per altri Numi. Omero chiama peana il canto di vittoria degli Achei per la morte di Ettore. Erano, in genere, cantati da giovani.

I papiri ci hanno fatto conoscere un numero relativamente grande di frammenti di peani; ma si può dire che nessuno di essi aggiunga alcuna nota nuova alla poesia pindarica.


I

Come si ricava dal contesto, questo peana, di cui possediamo la fine, fu scritto per una festa in onore d’Apollo, che si celebrava in Tebe al principio della primavera. L’attacco della seconda strofe ha il tòno di ritornello.

PEI TEBANI


Prima che presso ci giunga l’esosa vecchiaia,
all’ombra d’un cuore sereno
ripari ciascuno lo spirito,
lontano dall’ira,

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tenendo misura,
a quello badando
che gli offron le proprie sostanze.

Viva, viva! Ché l’anno or compiuto,
e l’Ore, figliuole di Tèmide,
a Tebe pervennero, amica
dei corsieri, recando i banchetti
amici dei serti,
per Apollo. Deh, a lungo il suo popolo
il Nume precinga coi fiori
del saggio governo.


II

Quando Arpago intraprese la conquista della Ionia, gli abitanti di Teo fuggirono dalla patria, e fondarono una colonia sulla sponda sinistra del Nesto, in un luogo ove già altre volte avevano cercato d’istallarsi i Greci, ma senza successo.

Nei frammenti che ci rimangono di questo peana, Abdera stessa racconta la propria storia, che è dunque storia d’una impresa coloniale.

Gli avi degli Abderiti, conquistarono la terra, scacciandone gli abitatori oltre il monte Athos (?). Poi, facendo gli indigeni varii ritorni offensivi, seguirono vittorie e sconfitte. Una vittoria, specificata, dinanzi ad una «foresta nera». Una sconfitta, sulle rive d’un fiume (il Nesto?). Ma Pindaro espone i fatti nella maniera lirica, ossia per accenni, e senza tener conto della cronologia: sicché, mancandoci assolutamente notizie d’altra fonte, non potremmo specificare.

La «madre della madre», di cui Abdera parla nell’epodo I, è Atene, metropoli di Teo, come questa era metropoli d’Abdera. E l’incendio di cui si parla, è quello dei Persiani. [p. 217 modifica]

Secondo ogni probabilità, il peana fu composto quando era definitivamente dileguato il timore di nuove invasioni persiane.

Questa la storia. Poi c’era il mito, velato di nebbia, e che forse contiene anch’esso qualche parte di verità. E narrava, tra altro, che il primo fondatore della colonia fu un Abdèro, figlio di Posídone e della Ninfa Tronia. Di lui si parla nella prima strofa.


PER GLI ABDERITI


Strofe I

Figliuolo di Tronia
la Naiade, Abdèro
dal corsale di bronzo, a cui padre
Posídone fu, per la gente
di Ionia, da te
cominciando, vo’ questo peana
cantar, presso Apollo
Derèno, e Afrodite.


Mancano la fine della prima strofe, l’antistrofe e il primo verso dell’epodo. A questo punto vediamo che entra a parlare direttamente Abdèro.


Epodo I

. . . . . . . . . . la terra di Tracia
m’è soggiorno, ferace di vigne,
pomifera. Oh, debole rendermi
il tempo futuro
non debba col lungo suo repere!
lo sono città
costrutta da poco; e la madre
vid’io di mia madre,

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sterminata dal fuoco nemico
dal vertice al fondo.
Se alcuno, a soccorso d’amici,
affronta feroce i nemici,
la pena sofferta in buon punto
gli arreca la vita serena.
Viva, viva, Pean!
Viva, viva, Pean!
Mai non taccia il tuo canto.


Mancano la strofe II e il principio dell’antistrofe II.


Antistrofe II

. . . . . . . . quanto
nelle leggi e nel savio consiglio
ha radice, fiorisce in eterna
serena dolcezza.
Il Nume a noi tanto concede.
L’invidia che macchina danni,
sta lungi dagli uomini
che da tempo si spenser. Conviene
che i figli compartano agli avi
la parte ch’essi ebber di gloria.

Epodo II

Con la guerra la terra ferace
conquistarono quelli, fondarono
lor prospera sorte, poi ch’ebbero
dall’alma nutrice
scacciati i guerrieri Peóni
di là dall’Atòo.

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Ma poscia, li oppresse il Destino;
e ancor, dopo i mali,
i Numi concessero l’esito.
Chi compie bell’opere,
avvampa nel fuoco dei cantici.
E altissima luce per essi,
dinanzi alla negra foresta,
di contro ai nemici brillò.

Strofe III

Ma un giorno verrà
che di fronte a un esercito grande
vicini alle rive del fiume
li porrà con poc'arme. Sarà
il giorno primiero
del mese. E la vergine dal piede di porpora,
Ecàte benevola,
aveva annunziato il futuro
bramoso di nascere.


Mancano la fine della strofe, l'antistrofe III, e il primo verso dell'epodo III.


Epodo III

. . . . . . . . t’invocano i cantici
in Delo fragrante.
E sopra le altissime rupi
parnasie, le vergini
di Delfo, dagli occhi fulgenti,
le danze intrecciando
pie’ veloci, con bronzëe voci
intonano gl’inni.

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E a me di buon grado la grazia,
Abdèro, di glorie concedi,
e dei cavalieri l’esercito
conduci alla guerra suprema.


IV

Di questo peana mancano il principio e la fine. Fu composto per gl’isolani di Cèo, anzi, come si ricava da un frammento dell’antistrofe I, per Carnèa, una delle quattro città che costituivano la tetràpoli di Ceo.

Nella parte, abbastanza estesa, che rimane tuttora intelligibile, parla direttamente l’isola, e intesse il proprio elogio. Fra altro, narra il mito locale dell’eroe Eusanzio. Ad Eusanzio fu offerto il condominio di Creta; ma egli rifiutò, per non abbandonare la sua isola. Di questo episodio non sappiamo se non quanto si ricava dal peana stesso. Anche da altre fonti ci è noto invece il racconto che segue, e che risale ai primi tempi dell’isola. Una volta, Giove e Posídone fecero inabissare nel mare quasi tutta l’isola, lasciandone intatta solo una piccola parte, e, in questa, la casa della madre d’Eusanzio. Sicché egli non poté misconoscere il favore palesemente dimostratogli dai Numi con quel salvataggio. Superfluo soggiungere che questo mito ha la sua base reale in qualche terribile sommovimento tellurico.

Tra i proprii fregi, l’isola ricorda anche la poesia: cioè Simonide e Bacchilide, i due rivali di Pindaro. Se esisté, come sembra piú che probabile, qualche animosità fra i poeti, questo elogio fa certo onore alla generosità di Pindaro. [p. 221 modifica]


PER L’ISOLA DI CEO

Mancano la strofe e l’antistrofe I.


Epodo I

Di certo, sebbene uno scoglio
abito, noto sono io
per elleniche prove d’agoni:
noto sono io per la Musa
onde io pur mi fregio:
i campi mi crescono il filtro
vitale di Bacco,
che vince ogni ostacolo.
Cavalli non ho, sono ignaro
di pascere mandrie;
ma pure, Melampo non volle
lasciare la patria,
deporre il suo dono profetico,
e in Argo esser re.
Viva, Peane, a te.

Strofe II

Gli amici, i parenti, la patria città,
son questi gli amori
che paghi far debbono gli uomini:
gli stolidi pregiano le cose remote.
Perciò la parola d’Eusànzio
io lodo, che ai suoi coetanei
oppose rifiuto del regno,
rifiuto d’avere la settima parte
di cento città

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coi figli di Pàsife.
Ei disse, narrando un prodigio:
«Io temo la guerra di Giove,
e il Nume che tuona profondo,
che scuote la terra.

Antistrofe II

Entrambi la terra mia patria, ed il folto
suo popolo, un giorno
scagliâr col tridente e la folgore
nel Tartaro fondo, lasciando mia madre
intatta, e la salda sua casa.
Ora io, per amor di ricchezza,
la legge che i Numi segnarono
a me nel mio suolo, respinger dovrei,
e, lungi di qui,
tra grandi ricchezze,
trascorrer la vita? — No, troppo
timor graverebbe su l’anima!
Distògliti, o cuor, dai cipressi,
dai pascoli d’Ida.

Epodo II

Retaggio ben piccolo è il mio:
roveri e macchie. Ma crucci
ignoro e sommosse.....



V

Non si vede bene se questo peana sia stato scritto per gli Ateniesi o per gli Eubòici. Non era composto di sistemi, bensí di otto semplici strofe. Nelle prime parole si parla degli Ionii [p. 223 modifica] partiti da Atene per colonizzare le isole del mare Egeo. Asteria era figlia di Coo, e sorella di Latona. Per isfuggire all’amore di Giove, assunse la forma d’una quaglia, e si precipitò nel mare, dove fu trasformata nell’isola Asteria od Ortigia, che in séguito fu chiamata Delo.


PER DELO


Strofe VI

. . . . . . . . l’Eubèa, v’abitarono.

Strofe VII

Evviva, o Apollo delio!
E l'isole Spòradi, pingui
di greggi anche presero, e stettero
a Delo, ché Apòlline ad essi,
chioma d’oro, concesse che il corpo
d’Asteria abitassero.

Strofe VIII

Evviva, o Apollo delio!
E quivi, di Lato o figliuoli,
con cuore benigno accogliete
me, vostro ministro, che giungo
con la voce, piú dolce del miele,
del sacro peana.


VI

La prima strofe di questo peana espone poeticamente le circostanze materiali della composizione. I Delfi dovevano celebrare le Teossènie (vedi introd. all’ode Olimpia III), e non [p. 224 modifica] avevano cori virili (Pindaro dice che «il murmure delle bocche di bronzo di Castalia» — particolare grazioso — sono orfane di cori). Ricorrono a Pindaro. E Pindaro viene, docile come un bambino al richiamo della mamma, recando certamente, oltre al peana, anche i giovani che dovevano cantarlo.

Segue una lacuna. L’epodo I contiene una generica invocazione alle Muse; e nella strofe II si allude alla origine della festa, fondata dai Delfi, sembra, per allontanare una carestia.

Nella medesima strofe II, si inizia la parte mitica. Il mito scelto, è quello della morte di Neottòlemo, assai noto, e già esposto nell’introduzione alla Nemea VII. Non sappiamo se, per qualche ragione che ci sfugge, questo racconto, in cui Neottòlemo non è posto sotto la luce migliore, potesse riuscire accetto ai Delfi. Certo, spiacque agli Egineti; e Pindaro dové farne onorevole ammenda nella già ricordata Nemea VII, per l’egineta Sògene. Del resto, già nelle strofe III di questo peana c’è un magnifico elogio dell’isola d’Egina; il quale prova, ad ogni modo, che il ricordo di Neottòlemo non implica mala intenzione contro la patria di lui.

Prima del mito di Neottòlemo, si accenna con qualche insistenza alla parte che ebbe Apollo nella difesa di Troia. Anche qui, a causa delle lacune, non vediamo se la scelta di questo mito avesse altra ragione, oltre allo scopo generico di esaltare il Nume nella sede del suo piú celebre santuario.

Famosa divenne, appena scoperto il papiro, l’immagine onde Pindaro assicura Egina che anch’essa avrà la sua parte di canto: «Non ti manderemo a letto (o piuttosto: non t’adageremo sul lettuccio del convito) senza cena di peani». [p. 225 modifica]


AI DELFI, PER PITO


Strofe I

In nome di Giove ti supplico,
o aurea Pito,
dai responsi famosi — e le Càriti
son meco e Afrodite —
in questi santissimi giorni,
delle Dive Pïèridi accogli
l’insigne profeta.
A me giunse la fama che il murmure
di Castalia, sovresse le bocche
di bronzo, era orbato
di cori virili; e qui giunsi,
per toglier d’impaccio gli amici,
per crescere onore a me stesso.
E, come un fanciullo al richiamo
della madre diletta, son giunto
d’Apollo alla selva, nutrice
di feste e di serti.
Qui spesso, in onore dei figli
di Latona, le vergini delfiche,
d’intorno all’ombroso umbilico
della terra, cantando, percòtono
il suolo col piede leggero.


Mancano la fine di questa strofe, tutta l’antistrofe, e il principio dell'epodo.


Epodo I

E questo, lo possono i saggi
saper dagli Dei. Ma possibile
non è che lo trovino gli uomini.

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Ma voi, tutto quanto sapete,
o vergini Muse, col padre
Signore dei nuvoli negri,
con la madre Mnemòsine: tale
è il vostro retaggio.
Uditemi: ch’ora il mio labbro
effondere il miele soave
desidera, mentre all’agone
io scendo, in onore d’Apollo,
e i Numi sono ospiti nostri.

Strofe II

Ché s’offrono vittime a gloria
per l’Ellade tutta:
la gente dei Delfi lo volle,
per lungi tenere la fame.


Mancano parecchi versi, nei quali si effettuava il trapasso alla parte mitica.


. . . . . . . . E il Nume,
le sembianze di Pàride assunte,
lo tenne lontan dalla pugna,
e fece che il giorno fatale
di Troia piú tardi giungesse.

Antistrofe II

Il figlio di Teti marina
dai riccioli azzurri,
degli Achei baluardo securo,
con forza di strage
frenò. Quante volte con Era
dal candido braccio contese
con forza invincibile,

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quante volte con Palla! E se Febo
non l’avesse protetta, ben prima
di tanti travagli,
cadeva la rocca di Dàrdano.
Ma sopra le nuvole d’oro
d’Olimpo, e sui vertici, Giove,
che vigila i Numi, sedendo,
non osò render vano il Destino.
Voleva il Destin che per Elena dall’alta cesarie
la fiamma del fuoco avvampasse,
distruggesse la rocca di Pèrgamo.
Poi ch’ebber con molti compianti
nella tomba composto il Pelíde,
gagliardo cadavere, mossero
sui flutti del pelago, giunsero
a Sciro; e con sé Neottòlemo
possente condussero,

Epodo II

che d’Ilio distrusse la rocca.
Ma poi, né la madre diletta
vide piú, né pei campi degli avi
eccitò dei cavalli Mirmídoni
le schiere coperte di bronzo.
Ma giunse alla terra Molòsside,
nei pressi del Tòmaro, e i venti
non seppe deludere,
né il Dio che lontano saetta.
Apollo giurò
che l’uomo che Priamo
aveva sgozzato, mentr’egli
cercava rifugio
all’ara di Giove domestico,

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non tornasse piú lieto alla patria.
E mentre coi suoi sacerdoti
contendea la sua parte di vittime,
lo uccise nel tempio suo, presso
l’umbilico del mondo capace.

Intonate, intonate,
su, giovani,
dei peani il numero.

Strofe III

Tu sorgi, tu dòmini il pelago
di Dòride, o isola,
o rutila stella di Giove,
degli Èlleni re.
Perciò, non dovrai senza pasto
di peani seder nel convivio;
ma i flutti dei cantici
accogliendo, dirai quale Dèmone
t’accordò delle navi il dominio,
e l’equa giustizia
per gli ospiti. Il Nume che tutto
all’esito adduce, concesse
a te la fortuna tua grande,
il figlio di Crono, il Signore
che lo sguardo su tutto distende.
Su l'acque dell’Àsopo, un giorno,
la vergine Efíria,
dall’alta cintura, mentr’ella
dalla soglia moveva, rapí.
Allora, le chiome dell’ètere

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tutte d’oro, nascosero, ombrarono
il dorso di vostra contrada,
perché sopra il talamo ambrosio....

· · · · · · · · · · ·

Sono perduti, il resto della strofe, tutta l’antistrofe, e quasi tutto l’epodo, i cui ultimi versi contengono un accenno a Troia e alle Muse.


VIII

Dai miseri frammenti sembra che vi si alludesse al mito d’Ergino, re d’Orcomeno, che, per vendicare l’uccisione del padre Climeno, costrinse i Tebani a tributo, e che fu poi ucciso da Ercole. Nell’unico brano intelliggibile, troviamo la nota profezia di Cassandra ai Troiani.


E súbito il cuore profetico
suonò di Cassandra,
con lugubri gemiti;
e tutto, con simili vertici
di parole predisse: «O Croníde
che tutto contempli, che limite
non hai, la sciagura, da tempo
predetta, or tu compi,
quando Ècuba disse ai Dardànidi
il sogno che fece, mentr’ella
quest’uomo recava nel grembo.
Le parve di dare alla luce
un’Erinni che fiamma spirava,
che avea cento braccia,
che tutta Ilio con dura ferocia
al suolo abbatteva.


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IX

Conoscevamo già la strofe, l’antistrofe e l’epodo I di questa bellissima composizione, che solevamo classificare fra gl’iporchemi, per induzione dal testo di Dionigi d’ Alicamasso che li riferiva. I papiri ci consigliano ora piuttosto di comprenderla fra i peani.

Fu scritta, come si vede, in occasione d’un’eclisse di sole. E due eclissi possono essere presi in considerazione, quello del 478, e quello del 463. È difficile decidersi per l’una piuttosto che per l’altra data.


AI TEBANI


Strofe I

Luce del sol, genitrice
di nostre pupille, che investighi il tutto,
che mai disegnasti?
Nel giorno tu il sommo degli astri
rapisti, e malcerta
rendesti l’aligera
sua possa, e la via di scïenza.
Su tramite oscuro, diverso
dal prisco, ti lanci?
Per Giove, ti prego, sospingi i corsieri
sovresso un sentiero che ambasce
per Tebe non rechi.

Antistrofe I

· · · · · · · · · · ·
· · · · · · · · · · ·
· · · · · · · · · · ·
Se un segno tu adduci di guerra,

se scempio di messi,

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se impeto immane
di neve, se strage o sommossa,
o gelo che stringa la terra,
o alido molle
per furia di pioggia,
se tu, sommergendo la terra,
creare vuoi d’uomini
novella progenie,

Epodo I

non io piangerò la sciagura
che insieme con altri me colga.

Strofe II

Per opra d’un Nume
io fui generato nel talamo ambrosio di Mèlia,
perché l’ammirevole
melode giungessi col calamo
sonoro, per voi, coi pensieri.
La prece a te levo,
o Dio che saetti, mentre io delle Muse
all’arti il tuo divo presagio,
Apollo, consacro.

Antistrofe II

Quivi, una volta, la figlia
d’Ocèano, Mèlia, congiunta d’amore,
o Pizio, con te,
nel talamo tuo generava
il valido Tènero,
l’eletto profeta

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del giusto: ed Apollo, di Cadmo
il popolo a lui, la città
commise di Zeto,
pel molto suo senno. E il Dio del tridente
assai lo dilesse. E sovente
movea dall’Eurípo...


X

Tanto questo frammento, quanto il seguente, ci sono pervenuti in condizioni tali, che non consentono alcuna induzione intorno al complesso a cui appartenevano.


INVOCAZIONE A MNEMOSINE


D’Urania alla figlia, a Mnemòsine
dal bel peplo, e alle vergini figlie
la prece rivolgo,
ché l’estro m’accordino.
Ché son cieche le menti degli uomini
che vogliono, senza
l’Elicònidi, muovere in cerca
di Saggezza, sul tramite lungo.
A me, certo, accordano questa
divina fatica.


XI

Ne rimane un frammento, in cui era toccato il mito d’Asteria. (Vedi introduzione al Peana V).


Che mai crederò delle nozze?
Che la figlia di Còo, dell’amore
di Giove sdegnosa...

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Narrare incredibili eventi
mi pèrito: come
fu gittata nel mare, e uno scoglio
lucente sembrava.
E Ortigia da tempo i nocchieri
la chiamano. E andava errabonda
per l’Egèo, senza posa. D’amore
fu punto il possente fra i Numi,
per lei, di dar luce a un figliuolo
maestro dell’arco.


XII

Questo frammento riceve luce da un luogo di Pausania (X, 5, 12), che riferisce le tradizioni intorno alle varie forme assunte, nella vicenda dei tempi, dal tempio di Delfi. Prima fu di rami di lauro, in forma di capanna. Ne succedette uno di cera, in forma d’alveare, costruito dalle api: Apollo lo mandò agli Iperborei. Il terzo, di cui si parla nel nostro frammento, era di bronzo, e costruito da Efesto. Secondo Pindaro, Atena assisté Efesto nella fabbricazione.


IL TEMPIO DI DELFI


Le mani abilissime
d’Efesto e d’Atena l’estrussero.
La foggia qual n’era?
Le pareti di bronzo, e di bronzo
cosí le colonne; e Sirene
tutte d’oro, sovresso il frontone
cantavan; ma gli anni.....


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XIII

Che pensi che sia la saggezza,
per cui poco un uomo
l'altr'uomo soverchia?
Possibil non è che tu scopra
dei Numi i consigli
con mente mortale:
ché figlia è di madre mortale.