Le opere e i giorni (Esiodo - Romagnoli)/L'agricoltura

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Esiodo - Le opere e i giorni (Antichità)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1929)
L'agricoltura
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L’AGRICOLTURA


     Quando le Plèiadi, figlie d’Atlante, si levano in cielo,
tempo è di mietere; quando tramontano, è tempo d’arare.
385Esse quaranta giorni rimangono ascose, e quaranta
notti; e di nuovo, poi, volgendosi il giro dell’anno,
quando si arrotan le falci, ritornano, e brillano in cielo.

     Questa è la norma, dunque, dei campi, per quelli che al mare
vicino hanno soggiorno, per quelli che lungi dal mare
390hanno dimora in valli profonde, su pingui terreni:
di seminare ignudi, di spingere ignudi l’aratro,
indi badare al ricolto, se l’opre di Dèmetra tutte
compier si vogliono a tempo: ché ogni opera, a tempo compiuta
essere deve, se pure non vuoi, pel bisogno mendico,
395andare all’altrui casa, chiedendo, ma nulla ottenendo,
come or da me venisti. Ma nulla io ti vo’ regalare,
nulla vo’ in prestito darti. Lavora, stoltissimo Perse,
all’opre che i Celesti prescrissero agli uomini, attendi,
se pur non vuoi, crucciato nel cuor, con la sposa e coi figli
400chiedere un pane ai vicini, che cura di te non si dànno.

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Forse otterrai per due volte, per tre; ma se ancora li secchi,
nulla ti dànno piú, sperderai le tue chiacchiere al vento,
nulla ti gioverà la tua parlantina. Per questo,
paga i tuoi debiti, dico, provvedi a schivare la fame.

     405Prima di tutto, una casa provvedi, ed un bove, e una donna,
moglie non dico, ma serva comprata, che attenda ai giovenchi.
Poi nella casa tutti gli arnesi in bell’ordine poni,
sí da non chiederli ad altri, che poi te li neghi, ti lasci
senza, e il momento opportuno trascorra, il lavoro ne soffra.
410Né rimandare a dimani le cose, né a dopodimani:
ché l’uomo scioperato, quell’uomo che sempre rimanda,
mai non riempie il granaio: l’assidüa cura dà frutto:
l’uomo che sempre rimanda, lottar deve sempre coi guai.

     Appena poi la rabbia cocente del sole desiste
415dalla calura che fiacca, che stempra, e le piogge d’autunno
versa il possente Giove, tramutan le membra dell’uomo,
si fanno piú leggere di molto: ché l’astro di Sirio
poco sovresse le teste degli uomini nati a morire
volgesi il giorno, e piú a lungo viaggia la notte pel cielo.
420Anche se il ferro le stronca, le selve non tarlano allora,
spargono a terra le foglie, desiston dal mettere germi.
Questo è, ricorda, tempo propizio a tagliare le selve.
Taglia un mortaio largo tre piedi: tre braccia il pestello,
e sette n’abbia l’asse: è questa la giusta lunghezza:
425se d’otto piedi, puoi tagliarne di giunta un mazzuolo.
E di tre spanne un cerchione, pel carro che avrà dieci palmi;
ed abbi legno asciutto, ben curvo; la bure, dovunque
la trovi, al monte, al piano cercandola, portala a casa:
di leccio sia: ch’è il legno piú adatto ad arare coi bovi,
430allor che l’abbia il fabbro d’Atena confitto sul ceppo,
e coi cavicchi compaginato vicino al timone.
D’aratri, averne poi devi due. Costruiscili in casa:

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tutto d’un pezzo l’uno: compàgina l’altro. È un gran bene:
ché, se si spezza l’uno, tu aggioghi a quell’altro i giovenchi.
435D’alloro o d’olmo sia, piú immune dai tarli, il timone,
di quercia il ceppo sia, di leccio la bure. I due bovi
sian maschi, di nove anni, ché intatte hanno allora le forze,
di giovinezza nel fiore, ché rendono meglio al lavoro:
non avverrà che questi, cozzando nel mezzo del solco,
440spezzin l’aratro, e resti cosí non compiuto il lavoro.
Ed un garzone dovrà seguirli, che sia sui quaranta,
ch’abbia la sua pagnotta a croce, con otto porzioni,
che badi al suo lavoro, che tracci diritto il suo solco,
e non s’incanti, gli altri ragazzi a guardare, ma invece
445stia con la testa al lavoro. Nessuno dei giovani meglio
spartisce la semenza, né schiva la semina a doppio:
s’imbambola un ragazzo, occhieggia con gli altri ragazzi.

     Sta bene attento, quando dall’alto dei nuvoli senti
la voce della gru discender, che ogni anno ritorna.
450Essa t’adduce il tempo d’arare, t’insegna che giunti
sono la pioggia e il verno: gran cruccio per chi non ha bovi.
Avere in casa allora conviene i cornuti giovenchi:
ché facile sarà dire: «Prestami aratro e giovenchi»;
ma facile anche piú schermirsi: «I buoi sono pei campi».
455Il chiappanuvole dice: che ci vuole a fare un aratro?
Stolto, e nemmeno sa quanti pezzi ci vogliono a farlo:
cento; ed averli in casa dev’essere il primo pensiero.
Or, come dunque appare per gli uomini il segno d’arare,
uscite allora tutti pei campi, gli schiavi e tu stesso,
460all’umido e all’asciutto, e arate, ch’è tempo d’arare,
alla prim’alba, in fretta, ché tutto si compia il lavoro.

     A Primavera dissoda: ché inganno all’Estate le zolle
non ti faranno. Gitta nei solchi ancor soffici il seme:
scaccia il malocchio il maggese, dei bamboli calma le smanie.

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     465Volgi la prece a Giove terrestre e alla pura Demètra,
perché sian gravi, quando maturano, i chicchi del grano,
quando tu prima ad arare cominci, e la stiva all’estremo
manico impugni, e il dorso dei bovi col pungolo incalzi,
mentre il cavicchio tendon le cinghie. E ti segua un ragazzo
470alto cosí, con la mazza, che appresti fatica agli uccelli,
coprendo la semenza. Ché l’ordine è cosa fra tutte
ottima pei mortali: fra tutte il disordine è tristo.
Si curveranno a terra le spighe, cosí, pel rigoglio,
se dell’Olimpo il Sire vuol dare buon esito ad esse.
475E tu le ragnatele dai vasi levare potrai,
e spero che la grazia goderti potrai che possiedi,
senza contare sugli altri. Cosí durerai, sinché giunga
la bianca Primavera: di te gli altri avranno bisogno.

     Se invece arar la terra vorrai nel solstizio d’Inverno,
480seduto mieterai, stringerai poche spighe nel pugno,
le legherai cosí, come vengono, fra il polverone,
senza eccessiva allegria, sufficiente sarà per portarle
un solo cesto; e oggetto d’invidia a ben pochi sarai.
Altro, altre volte, però dispone il volere di Giove,
485che tanto chiaro non è da intenderlo mente mortale.

     Anche se tardi arassi, trovare potresti un rimedio.
Come leva il cuccú tra le foglie alla quercia il suo canto,
e su la terra infinita degli uomini il cuore gioconda,
prega che cada tre giorni la pioggia, né mai s’interrompa,
490sin che uno zoccolo copra di bue, non di piú, non di meno:
del pari andranno allora chi ara presto e chi tarda.
Ma bene attento sta: non ti deve sfuggir, quando giunga,
la bianca Primavera, né quando la pioggia opportuna.

     Davanti alle fucine dei fabbri ed ai luoghi di ciarle
495tira di lungo, l’Inverno. Ché il freddo tien lungi dai campi;
ma chi non è poltrone, può molto concludere in casa,

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sí che miseria né freddo non l’abbia a irretire fra i geli,
e con la mano scarna non s’abbia a scaldare il pié gonfio.
Lo sfaccendato che vive di vane speranze, che pieno
500è di bisogni, si cruccia con molte tristezze nel cuore.
Il pigro che non ha da vivere, e passa il suo tempo
dove si ciancia, ha sempre vicina l’attesa del danno.
Appena a mezzo è giunta l’Estate, ammonisci i tuoi servi:
«Non sarà sempre Estate: pensate ad empir la dispensa».

     505Ecco il mese Lenèo, brutti giorni, che scòiano i bovi.
Guàrdati bene, schiva la brina che allora si addensa
sopra la terra, nociva pei soffi di Bora, che lungo
la Tracia, di cavalle ferace, sul mare infinito
si leva, ed imperversa. Rimbomban le terre e le selve,
510e molte eccelse querce fronzute ed abeti massicci,
entro i recessi dei monti piombando, sradica e abbatte.
È tutta quanta un ululo allora la selva infinita:
abbrividiscon le fiere, si stringon la coda alle coglia;
ch’ànno di peli ombrata la pelle; ma pure, per quanto
515abbiano irsuto il fianco, di Bora le pènetra il gelo.
E pènetra pel cuoio dei buoi, che non basta al riparo,
spira traverso il fitto pelame alle capre; ma invano
tenta la forza di Bora passar delle pecore il vello,
ché troppo è folto. E fa che si raggomitoli il vecchio;
520ma offendere non può la tenera vergine: in casa
essa rimane allora, vicino alla madre diletta,
ché d’Afrodite, che d’oro s’adorna, i piaceri essa ignora:
monda nel bagno, d’olio cospersa le tenere membra,
entro la casa, ov’è piú segreta, la notte trascorre,
525nei dí d’inverno, quando rosicchia il suo piede il Senzossa1,
nella sua tana priva di fuoco, in funesto soggiorno,
ché non gli mostra il sole un pascolo ov’egli si volga,
ma sopra le città, su le turbe degli uomini negri

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si gira, e breve tempo de l’Ellade ai popoli appare.
530Quante ha la selva fiere, cornigere o prive di corna,
con miserevole streper di denti, via fuggono allora,
per i selvaggi burroni, ché tutte hanno sola una cura:
dove, cercando un rifugio, rinvengano anfratti profondi,
concavi spechi. E, simili a vecchi poggiati al bastone,
535calan le orecchie sul dorso, rivolgono i musi alla terra:
simili a quelli vanno, fuggendo la candida neve.

     Indossa allora, come ti dico, a riparo del freddo,
un camiciotto lungo, che tenga ben caldo, e un mantello
soffice, dove poco l’ordito, e sia molta la trama:
540cingiti questo, ché poi non debba venirti la pelle
d’oca, e pel brivido i peli non debban rizzartisi addosso.
Stringiti poscia ai piedi calzari, di bue macellato,
bene assestati; e dentro, di lana una fodera aggiusta.
Le pelli prendi poi di capretti di prima figliata,
545cucili con minugia di bue, come arrivano i freddi,
che ti riparino il dorso dall’acqua; e sul capo, un berretto
bene aggiustato, ché poi le orecchie bagnarti non debba:
perché gelida è l’alba nei giorni che soffia la Bora;
e sul mattino cala, dal cielo stellato a la terra,
550sui campi ai fortunati, un’aura che il grano matura,
che, poi che l’acqua attinse dai fiumi che corrono eterni,
ed alta, via da terra, balzò, con la furia del vento,
ora si scioglie in pioggia sul vespero, ed ora, se troppo
mulina il tracio Borea le nuvole, in vento si perde.
555Tu dunque il tuo lavoro sollecita, e a casa poi torna,
pria che dal cielo il buio t’avvolga con l’umida nebbia,
che la tua pelle inzuppi, t’infracidi tutte le vesti.
Guàrdati bene, ché questo fra i mesi è il piú duro di tutti.
Occorre allor metà del cibo pei bovi, per l’uomo
560di piú: le lunghe notti risparmiano a quelli il lavoro.

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Conviene a ciò badare, per tutto il trascorrer dell’anno,
a compensar le notti coi giorni, sin quando i suoi frutti
torni a produrre la terra, la madre di tutte le cose.

     Quando sessanta giorni di gelo abbia Giove compiuti,
565dopo il solstizio d’inverno, la stella d’Arturo abbandona
allor d’Ocèano l’acque divine correnti, e si leva,
la prima volta, tutta fulgente, al tramonto del giorno.
Di Pandïóne quindi la figlia, la rondine, appare
nel luminoso cielo; ché torna la nuova stagione.
570Tu previenila; e pota le viti; ché tempo è propizio.

     Quando la Casingroppa trasmigra dal suolo alle piante,
ché dalle Plèiadi fugge, non è piú stagione di vigne,
ma d’affilare le falci, di scuotere i servi dal sonno,
e di fuggir gli ombrati soggiorni ed i sonni su l’alba,
575quando è di mieter l’ora, che il sole dissecca la pelle.
Sbrigarsi allora, e a casa conviene portare la mèsse,
sorto all’aurora, se vuoi che da vivere mai non ti manchi.
Perché la terza parte Aurora fa lei del lavoro,
Aurora dà l’avvio, sollecita l’opere Aurora,
580Aurora, come appare, tanti uomini spinge per via,
ch’escono, tante spinge cervici di buoi sotto il giogo.

     Quando poi sboccia il fiore del cardo, e d’un albero in vetta
l’armonïosa cicala, dal fitto vibrare dell’ali
spande l’arguto trillo, del caldo è la grave stagione.
585Son molto pingui allora le capre, dolcissimo il vino,
tutte lascivia le femmine, gli uomini tutti fiacchezza,
perché l’astro di Sirio debilita teste e ginocchia,
e per il caldo, la pelle viene arida e secca. Abbi allora
entro una roccia ombrosa riparo, abbi vino di Biblo,
590una focaccia, carne di capre, e non siano in caldo,
carne di manza pasciuta nei boschi, e non abbia figliato,

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e di capretto nato primíparo; e bevici sopra
limpido vino, all’ombra seduto, ben sazio di cibo,
rivolto il viso verso la brezza di Zefiro fresca,
595verso una polla tersa perenne che sgorghi dal monte.
Mesci tre parti d’acqua, la quarta dev’esser di vino.

     Imporre devi ai servi che il grano di Dèmetra sacro
battano, come prima si mostri il selvaggio Orïóne,
in qualche luogo asciutto, su l’aia spianata. E nei moggi
600poi lo raccolgan con garbo, ne faccian misura. Poi, quando
n’abbian raccolto tanto che basti ai bisogni di casa,
senza famiglia un servo procúrati, e senza figliuoli
una fantesca: ché sono molesti, se han figli; ed alleva
un can coi denti aguzzi, né far che gli lesini il cibo,
605ché poi non debba il Dormidigiorno rubarti i tuoi beni.
Poi radunare fa la paglia e la pula, ché serva
tutta la lunga annata, pei bovi e pei muli. Ed allora
concedi pur che i servi riposino; e sciogli i giovenchi.

     Quando Orïóne e Sirio toccato hanno il sommo del cielo,
610e vede Aurora, dita di rosa, la stella d’Arturo,
tutte vendemmia, o Perse, le vigne, ed i grappoli aduna.
Per dieci giorni devi, per dieci continuë notti2,
tenerli esposti al sole: all’ombra per cinque; ed al sesto
nei tini i doni infondi di Bacco, letizia dei cuori.

     615Quando le Plèiadi poi, le Íadi, e il forte Orïone
scendono in mare, ricorda che quella è stagione d’arare.
Bene pei campi cosí sistemato sarà tutto l’anno.


Note

  1. [p. 278 modifica]Il Senzossa (Ἀνόστεος) è creduto in genere il polpo (erroneamente tutti i commentatori dicono polipo, che è tutt’altro animale: anche il Wilamowitz; se non che pare che Polyp in tedesco significhi anche regolarmente polpo). Ma le parole che seguono sembrano indicare chiaramente che si parla di un animale vivente sulla terra, e non già nel mare. Intenderei quindi il bruco.
  2. [p. 279 modifica]Il testo dice proprio cosí: esposti al sole dieci giorni e dieci notti; naturalmente, significa a ciel sereno.