Le vespe
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LE VESPE D’ARISTO-
FANE. COMEDIA. VI.
Persone de la favola.
| Doi servi, Sosia, e | Precone, |
| Santhia, | Cidateneo, |
| Bdelicleone, | Tesmotete, |
| Filocleone, | Donna che vende ’l pane, |
| Coro de vecchi ch’erano Vespe, | Un certo Euripide, |
| Figlij. | Accusatore, |
| Cane. |
sosia.
Sa. Son insegnato fare notturna veghia.
So. Che hai tu sopra le spalle, qualche gran male?
Sa. Non sai tu che fiera custodiamo?
So. Sò, ma vien mi voglia di dormire.
Sa. Tu dunque ti porrai a’l pericolo, però che non so che di dolce mi è sparso ne le palpebre mie.
So. Vai tu giù, ò sei matto?
Sa. Nò, ma un certo sonno di Dionisio mi ritiene.
So. Dì tu prima.
Sa. Io mi stimava, che quell’aquila grandissima, che volava ne’l foro pigliando il scuto con le ongie, che ella il volesse portare in cielo, et che Cleonimo poi volesse gettarlo giu.
So. Nessun dubbio ne dà Cleonimo, in che modo alcuno contarà à li compotatori, che quella bestia medesima in terra, in cielo, in mare, habia gettato via il scudo?
Sa. Oime, certamente mi avenirà qualche male, havendo veduto tal’insogno.
So. Non ti curare. imperò che nessuna cosa ti sarà grave, ne pericolosa. non per li dei.
Sa. E cosa grave, che un’huomo getti via l’arme. hor dirai il tuo.
So. Egli è grande, egli è circa tutta la nave de la cità.
Sa. Dillomi hormai, in che è ’l fondo de la cosa?
So. Mi è parso circa ’l primo sogno in Pnice predicare à pecore assentate, che havevano bastoni, et veste. poi mi pareva predicare à queste pecore con una balena Pantoceutria, che haveva la voce d’enfiammata, e grassa porca.
Sa. Oime.
Sa. Cessa, cessa, non dir più. questo insogno sente di cordovan marzo.
So. Poi la sordida balena havendo la bilancia, mi statuì la bovina grassa.
Sa. O infelice, ei vuole separare, e far partire il nostro popolo.
So. Poi mi pareva Teoro in terra sederli apresso, havendo il capo di corvo: poi Alcibiade balbutiendo mi disse, vedi che Teoro ha la testa di corvo.
Sa. Giustamente Alcibiade hà balbutito.
So. Non è estraneo, che Teoro sia fatto corvo?
Sa. Non, ma non è cosa ottima.
So. In che guisa?
Sa. In che guisa? egli era huomo poi di subito è divenuto corvo, dunque egli è cosa manifesta da intendere, che elevatosi da noi n’andarà i corvi.
So. Poi non lo condurrò io dandoli doi oboli, narrante si manifesti insogni.
So. Non dice niente.
Sa. Per Giove. Ma da se medesimo pensa il male.
So. Nò. ma Filo è principio de’l suo male.
Sa. Tu dici Sosia à Dercilo, che egli è Filopota.
So. A nessun modo, imperò che questo male è da huomo da bene.
Sa. Poi Nicostrato Scambonide dice essere Filothita, ò Filosseno.
So. A’l sangue d’un cane ò Nicostrato, non è Filosseno, imperò che questo Filosseno è cinedo.
Bd. O Santhia, ò Sosia dormite?
Sa. Oime.
So. Chi è quello?
Sa. Bdelicleone è levato su.
Bd. Non correrete hormai quà uno di voi? mio padre entrato ne la cucina, vȧ come un sorzo, et s’e nascosto ne’l soglio. ma osservate che’l non ha il fondo ond’ei non suga. et tu stà à la porta.
Ser. O Messere lo rè Nettuno, che sirepito si fà in questa cucina? in che sei tu?
Fi. Il fumo che riescie.
Bd. Sei il fumo? hor ch’io veda, di che legna tu sei.
Fi. Di fico.
Bd. Per Giove, quello è acutissimo de tutti i fumi. ma non uscirai. dove è il crevello? entra presto. hor che vi metta dentro te, e la legna, hor troua altra inventione. povero me piu che huomo a’l mondo, il quale adesso sarò chiamato fumo di mio padre.
Ser. Regazzo sara la porta, sara bene, e fortemente, et io anchora vegno. et guarda bene, custodisse la chiave, et il cadenazzo, e che’l non mangi la chiavatura.
Fi. Che farete? non l’aprirete? ò sceleratissimo. giudica che io. ma fugerà, Dracontide.
Fi. Apolline liberatore de mali, da’l vaticinio, pregoti di gratia che non mi offendi.
B. Per Nettuno mai Filocleone.
F. Mangierò io con arrabiati denti la rete.
B. Se non hai denti?
F. Infelice, à che modo ti ammazzerò? à che modo? datemi la spada prestissimamente, ò una tavoletta giudiciale.
B. Costui vuol fare certamente qualche male.
F. Non in vero per Giove, voglio vendere l’asino, medandolo con li proprij canthelij. Hoggi è il primo de’l mese.
B. Io voglio venderlo.
F. Non. come farò io?
B. Per Giove anchora meglio. mena fuora l’asino.
Ser. Che iscusa è questa, cosi finta che prestamente se meni fuora?
B. Ma non l’ha dislegato, io sapeva bene l’openion sua. ma voglio menarlo fuora, acioche il vecchio piu non fuga. canto che piangi, che hoggi sarai venduto? va intanti presto, che gemiscitu, se non porti qualche Ulisse.
Ser. Ma per Giove, fà che con costui qualche altro ne sott’entri.
B. Quale? ch’io lo vega.
Ser. Costui.
F. Nessuno per Giove.
B. Tu donde sei?
F. Ithacese da Drasippide.
B. Se nessuno sarai per Giove, non te alegrerai. tiralo di sotto prestamente. ò scelestissimo, dove sei andato sotto? veramente ei pare il muletto de’l trombetta.
F. Se non mi lasciarete chetamente: faremo lite.
B. Di che vuoi far lite con noi?
F. De l’ombra d’un asino.
B. Sei cattivo veramente, e pazzo.
F. Son cattivo? non per Giove. non sai tu, che io son da bene, quando tu mangi il cibo de’l giudice
vecchio?
B. Caccia l’asino et te medesimo in casa.
F. O giudici compagni, e Cleone aiutatemi.
B. Chiamalo dentro e sara la porta: rivolgi quà à la porta molti sassi, et metti la chiave ne la chiavatura un’altra volta, et metti una grande balla a’l trave, poi moveti, et affrettati.
Ser. Oime, dove son io iscapucciato in una gleba?
B. Forsi il sorzo l’ha fatta venire de sopra.
Ser. Il sorzo? non per Giove, ma qualche giudice, sotto à i coppi è sotto entrato.
Ser. Horsu, poi che havemo cacciato dentro costui, non sarà piu luogo dove egli si possa nascondere. che non havemo noi dormito, tanto, quanto è un triente.
B. O vilano veneranno poi li soi compagni giudici, à chiamarlo.
Ser. Che dici? adesso è grande hora.
B. Per Giove che tardamente semo levati, da che me chiamarono da mezzanotte, havendo la lucerna, e cantando canti antichi di Frinico, con i quali chiamavano costui.
Ser. Dunque se’l sarà di bisogno, lo lapidaremo, e’l coperchiaremo di pietre.
B. O vilano, s’alcuno irrita questa sorte de vecchij, guardi bene ch’è simile al galavrone: imperoche hanno da’l lato il stimolo acutiddimo, con il quale stimulano, et gridando saltano adosso, et come scintille abbrusciano, e percuttono l’huomo.
Ser. Non ti curare di ciò, imperoche se piglio d’i sassi, dispergerò et lapiderò tutti questi giudici galavroni.
Fil. Guarda’l fango ò padre.
Co. Piglia un stizzetto, et instizza la lume.
Fi. Nò, ma penso ben da istizzarla.
Co. Che te hà insegnato à far su il stoppino co’l deto, huomo grosso. l’oglio è poco? gia te non morde, quando bisogna comprarlo.
Fil. Per Giove, se un’altra volta ne riprenderete, amorzarò cò i pugni la lucerna, e cosi n’andaremo à casa, et forsi in questa oscurità privato di lume torbiarai il fango come un’ Attaga. veramente ne punisco di te magiori assai.
- Canto de’l Coro.
Co. Và ò giovanetto: ma dimi. che vuoi che ti compri? ma penso che dici fratello che vorresti de dati.
Fil. Per Giove sì. ma piu presto de li fighi, che sono piu dolci.
Co. Non per Giove, se fuste appicati voi.
Fil. Non per Giove. ti lasciero l’impacio à te.
Co. Di questi pochi danari, bisogna che io con la terza parte habia farina, con l’altra legne, con l’altra il companatico, et tu mi domandi fighi.
Fil. Horsu ò padre se il patrone non fà sedere il giudicio, donde aquistaremo il decenare? hai buona
speranza per noi? ò pur la Grecia vuol dare il sacro tributo?
Co. Non, nò. oime, per Giove non so in che modo cenaremo.
Fi. O infelice e misera mia madre, perche dunque me hai parturito? che non m’hai dato qualche arte, onde mi potess’io pascere?
Co. Ch’io dunque ò borsa mia te habi per ornamento inutile?
Fi. Oime, oime, quà suspirar mi conviene.
Co. Ch’è quello che ti tien in tempo? sera la porta, et dillomi: che lo dirai ad huomini benevoli.
Filo. Mio figlio: ma non gridate, imperoche egli mi dorme quà inanzi, ma non fate strepito, astenetevi.
Co. Questo astenire ò inepto vuole che tu facci tal cose. quale è la causa?
Filo. Non mi lascia ò huomini giudicare, ne fare nessun male: ma vuole ch’io mangi et beva, et io non voglio.
Co. O Cleonico governatore questo scelerato ha habuto ardimento di dir tal cosa, se pur dici la verità de le navi.
Filo. Veramente questo huomo non havria habuto ardire à dirlo: se non gli fusse alcun congiuratore.
Co. Da questi vede di aquistar qualche nuova sentenza, la quale nascostamente ti faccia fugire.
Filo. Ciascuna che vi sia cercatela voi, ch’io farò il tutto. cosi desidero passare per carte giudiciali havendo li suffragij.
Filo. Ogni cosa è otturata, et non c’è buco (ne vi anderò dentro) da passare: ma bisogna che voi cercate altro. non è, che forame far se possa.
Co. T’arricorditu che ne la militia tu robavi li spedi, che tu mettevi per i muri, quando morì Nasso?
Filo. So bene. ma che bisogna questo? imperoche niente è simile. io era giovane, et poteva robare, et poteva da me stesso, che nessuno mi servava, e mi era lecito fugere senza paura: adesso gli huomini armati, appogiatisi à li cantoni et crosali mi osservano. et questi amendoi su le proprie porte, mi fanno la guarda havendo li spedi, si come fuss’io un gatto robatore de carni.
Co. Hor ritrova una inventione prestissimamente, che adesso è l’aurora ò delicatetto e dolcino tu.
Filo. E cosa ottima, ch’io dunque arroseghi la rete: et Diana à le reti perdona.
Co. Ciò è d’un’huomo che cerca di liberarsi: ma porgili homai la massella.
Filo. Questa è divorata, ma di gratia non gridate: ma osserviamo che Bdelicleo non senta.
Filo. Hor cercarete di darmi tra le mani à costui? et farmi stracciare in casa? che farete? dite.
Co. Ti daremo aiuto facendoti buono animo, et faremo ch’egli non ti possa havere. sì faremo veramente.
Fi. Farò ciò che vi piace: et sapiate, se qualche cosa io patisco, pigliarmi, et gettarmi sotto à le banche, ò tavolati.
Co. Niente patirai, di niente haverai paura. fratello con audacia mandati giu, pregando i Penati dei.
Filo. O Lico signore, baron vicino: sempre hai fatto favore (cosa che soglio io) à le lacrime de fugienti à i pianti: sei dunque venuto quà, per intendere queste cose, et tu solo de baroni hai voluto sedere presso di quello, che piagne? habimi compassione, et aiuta il tuo vicino: che mai à le tue canne ne piserò, ne farò ciò che gli siegue.
Bd. Sù presto.
Ser. Che cosa?
Bd. Una certa voce mi pare havermi conturbato.
Ser. Il vecchio è trapassato per qualche luogo?
Bd. Non per Giove. ma se manda giu legatosi.
Ser. Che fai sceleratissimo? non ti mandarai giu.
Filo. O Smicithione, Tisiade, Chremone, e Ferodipne, quando mi darete aiuto se non adesso, nanti che sij menato dentro?
Co. Dimi, che tardiamo movergli quella ira? che quando alcuno instigherà il nostro same, subitamente quello stimolo di superbo animo, et acuto, con il quale si punisse, gli sarà caciato ne la vita. ma pigliatevi presto le vesti, à guisa de putti prestissimamente correte, et gridate, et annunciate queste cose à Cleone: et fate ch’egli venga contra di costui, che ha in odio la cità, ch’è huomo pazzo, et ha detto, che non bisogna giudicare le giudiciali carte.
Bd. O gentil’huomini udite la cosa, et non gridate.
Co. Per lo celeste Giove, ch’io non lascierò costui.
Bd. Queste cose non sono di haverne per male? et la tirannia non è manifesta?
Co. O cità. ò inimicitia di Teoro contra li dei, et se alcun’altro de voi è adulatore.
Ser. Cancaro, hanno i stimoli. non vedi tu patrone?
Bd. Con li quali hanno ammazzato Filippo quello di Gorgia ne la giustitia.
Co. Ti ammazzaremo anchora te. et ogn’uno quà, se volgi contra à costui, ben ordinatevi, et fortificatevi à stimularlo empetosamente: à ciò ch’ei ben conosca, che same ha instigato.
Co. Lascialo stare: se non, io ti aFFermo che dirai che le testudini sono beate, et felici de la conca loro.
Filo. Hor giudici, vespe acute di cuore, volategli accoraciate ne’l loro buco di dietro, et altre pungeteli gli occhi d’ogn’intorno, et altre à cerco à cerco le dita.
Bd. O Mida, ò Frige aiutatemi quà, ò Masinthia pigliatelo, et no’l lasciate: et se non lo legate con legami grandi, et grossi, non decenarete, ma io so bene il suono de bastoni, che molte volte l’ho udito.
Co. Se non lasciarai costui, non so che ti sarà ficato ne’l cuore.
Filo. O Cecrope rè, barone, questi draconi à li piedi? veditu in che guisa son pigliato io da gli huomini barbari? i quali io gli ho insegnati piu di quatro volte à piagnere, havendo le boghe à i piedi.
Co. Che molti e gravi mali non ha veramente la vecchiezza? hor pigliano questo vecchio patrone per forza, mai ricordatisi de le pelizze, e de le vesti, le quali gli ha comprato? et de le berette, et altre cose, che l’inverno non gli lasciava havere fredo à i piedi? ma costoro non hanno ne gli occhi soi una sola rubescenza de le antiche calce, et vestimenta.
Co. Veramente di queste cose sarete ben puniti: ne troppo n’andarete à la lunga: à ciò che vediate, che cosa è il costume de gli huomini acuti d’animo, et de giusti, et di che guardano i nasturcij.
Bd. Bastona, bastona Santhia le Vespe fuor di casa.
San. Farò volentieri, et tu fà de’l fumo assai.
So. Non ve n’andate à le forche? non andate via? battilo con un pezzo di legno.
San. E tu abbruscia Eschine di Selartio. non doveremo iscaciarvi mai?
Co. Per Giove non si facilmente ne scaciarete, anchora che mangiaste i canti di Filocleo, e le sue compositioni.
Sem. Non è questa una tirannia manifesta à i poveri? anche nascostamente mi hai assaltato: se tu ò pessimo e superbo ne impedisci da le legi, le quali ha fatte la cità? ne havendo altra occasione, ne un parlar faceto vuoi signoregiar tu solo?
Bd. E meglio che sanza lite, et parole facciamo la pace.
Bd. Per Giove vorrei piu presto esser assente da mio padre, che ogni dì à tanti mali contrastare.
Co. Non è alcun luogo, non è ne l’apio, ne anchora ne la ruta: havemo interposto queste parole à le balze: ma niente adesso senti di dolore, ma ben quando l’avocato l’interrogarà, et dimandarà i testimoni, e congiuratori.
Bd. Mai per li dei vi partirete di qui? ò pure à me è computato questo d’essere battuto ogni dì, e battere?
Co. Ne mai si partiremo, fin che gli resta niente de’l mio. ò infelice te, che sei venuto ne le nostre mani, e tirannia nostra.
Bd. Quanto ogni cosa è à voi tirannia, et congiuratori. Vi è sempre alcuno che accusa ò di puoco, ò d’assai. non ho io udito il nome di tirannia, in cinquant’anni, adesso è divenuta degna di molta sale: per il che è anchora il suo nome ne’l foro. se alcuno compra orsi, et che’l non vogli membradi, il venditore subito dice, costui si pensa comprare ne la tirannia: et se vuole alcun porro, cosa dolce ne l’Asie, quella che vende l’oglio ad un’altro dice, dimi dimanditu un porro? ne la tirannia? ò pensitu che Atene debia darti cose dolci?
Bd. Queste cose à costoro sono dolci d’ascoltare, et io voglio liberare mio padre da queste misere, disgratiate usanze, et che egli viva generosamente, io si come Morico ho la causa di far ciò, d’essere congiuratore, e pensare la tirannia.
Filo. Giustamente per dio. io non piglierei latte di galina per la vita, de la quale tu mi privi. io non mi
alegro de Bati, ò d’anguille, ma piu dolcemente mangiarei un giudicietto cotto ne la olla.
Bd. Per Giove, sei solito à dilettarti anche di cotal cose, ma se tacendo tolerarai, et intenderai il parer mio, penso di farti toccar con mano, che in ogni cosa tu falli e pecchi.
Filo. Ch’io pecco giudicando?
Bd. Non senti se sei bertegiato da gli huomini, i quali tu adori quasi, ma servandogli, ciò ti nascondono.
Filo. Non mi dire à me di servitu, il quale signoregio à tutti.
Bd. Non vuoi tu? gli servi pensando di commandargli. però dimi ò padre, che honore hai tu che galdi la Grecia?
Filo. Bene, il voglio concederlo à loro.
Bd. Anchora io. lasciatelo tutti, et date à me la spada, che se io sarò vinto ne’l dir, morirò con questa spada. dimi che cosi non starai à dieta?
Filo. Mai beverò la mercede de la buona fortuna.
Bd. Che mi portà quà una cista presto?
Co. Tu parerai quello che serai, se non vorrai dire contra questo giovane, imperò che tu vedi che hai gran battaglia: et d’ogni cosa (e ciò non accadi) costui vuol vincere.
Bd. Di quello che dirai semplicemente, ne scriverò io et farò un memoriale.
Filo. Che cosa dicete voi, se costui mi vincerà ne’l disputare?
Bd. Non piu é utile la moltitudine d’i vecchi, ne pur un poco, però che se siamo ingiuriati portando li rami per tutte le vie, onde siamo chiamati, cortici de congiurationi. hor ciascuno, che vuoi contradire à la domination nostra, confidandoti, dimandane ad ogn’uno.
per questo primo refugio.
Bd. Questo mi sia un memoriale de sti deprecanti.
Filo. Poi entrato son ripregato, havendo lasciata la ira dentro, et di quello ch’io dico non havendo fatto niente: ma io odo tutte le voci, de chi vengono a’l resugio. hor ch’io vega un poco che cosa non è, à udire la adulatione che fassi a’l giudice? costoro piangono la povertà propria, et vi agiongono mali sopra mali, fin che s’hann ugualato à qualch’uno de mei. Quelli altri ne contano qualche favole, altri qualche ridicola cosa d’Esopo: altri dicono astutie, à ciò ch’io rida, e metti giu l’ira: et se da loro non siamo persuasi ne fanno venire inanti i figliuoli nostri, e le donne, e cosi udimo, et quelle inchinatesi di compagnia ne
adorano. il padre per essi tremendo pregami come dio di liberarli da’l giudicio: dicendo: Se ti alegri per la voce d’un’agnello, habi compassione de’l fanciullo che ti prega: se de li porchetti, mi alegro che sij persuaso con la voce de la figlia. et noi à l’hora rilassamo il piciol seno de la colera. questa dunque non è grade dominatione? un bertegiar di ricchezze?
Bd. Secundariamente iscriverò, il bertegio de le ricchezze, et ricordati di quelli beni che hai, dicendo che hai la dominatione de la Grecia.
B. Laudo io questo tuo ornamento, che hai detto: ma poi fai ingiuria à costui impedendogli il testamento.
B. T’empirai et pascerai dicendo: è necessario però che tu cessi: ma serai dimostrato un eccellente buco di secchiaro da la denomination tua honestissima.
Co. Mai udissimo parlar sì puramente, ne sì saviamente.
Filo. Non, ma si pensava sì facilmente vendicare le calunnie, ben hà conosciuto, ch’io cosi, son fortissimo.
Co. Grandemente trascorre ogni cosa, et niente preterisse. però io mi accresceva ascoltando, e parevami giudicare ne le isole de Beati, tanto son alegrato udendolo.
Filo. Il perche costui isbadacchia, et non è in cervello. certamente hogg’io ti farò vedere il corame e le scoregiate.
Co. Bisogna che nel refugio rivolgi le mani, impero che è cosa difficile mitigare questa ira mia non dicendovi nulla. apresso dei ricercare una buona muola, et di nuovo aguccia, se non dici qualche
cosa, ch’el mio furor ritenga.
Bdel. Veramente è cosa difficile et di grave sententia, et di magiore che ne Tragici, sanare un male antico nato ne la cità. ò padre nostro Saturnio.
B. Odi ò patercino aprendo un poco quella tua fronte. prima dei computare con suffragij non vili, aquistandoti cumulatamente il tributo da la man de la cità. che fuora elegerò le spese di cotesto. et molti centenari, magistrati, metalli giudiciali, porti, mercedi, litorij, la somma de tutto ne vien à noi presso à doi mille talenti. poscia metti da canto la mercede de sei mille giudici de un’anno, (et non piu sete ne la cità) che vengono essere à noi cento e cinquanta talenti.
Filo. Ne anchora hai fatto la decima entrata che ne vien à noi.
B. Non per Giove? poi le altre cose dove se volgeno?
Filo. In questi, i quali: ma non ti dò il tumulto Atheniese, ch’io contenderò sempre circa la moltitudine.
Filo. Per Giove da Evcheride hò pur io te mando via tre capi. ma non demostrandomi questa servitude, tu mi attristi.
B. Non è grande servitu haver questi tutti in dominatione, et che elli ad altri siano lusingatori, à che portano la mercede? et se alcuno ti da tre oboli, sei contento, i quali tu impellendo et pugnando à piede et obsidiando, et molto affatticandoti gli acquisti. poi sendoti comandato vai ne’l foro (qual cosa molto mi crucia) quando il giovanetto Cinedo figlio di Chereo, che passa di quà bravoso et delicato, ti dice che da mattina à hora de’l giudicare ti ritrovi là. ma se passa l’hora ogniuno che gli và non guadagna il suo triobolo. e tu gli porti l’advocativa drachma se bene alcuno vi è stato tardo, communicando con qualcuno d’i dominanti. ma se alcuno de quelli che fugono gli dona qualche cosa s’affrettano doi soli à chetar il tutto: poi à guisa di rasseca un tira, l’altro ritira. Hor tu vedi il governatore: et niente hai saputo di ciò, che s’è fatto.
Filo. Tal cose fanno à me? oime che dici? tu mi conturbi il cuore, et piu mi concilij la mente, et non so che mi fai.
Filo. Oime perche, come un gamfo, se isparsa una cosa ne la mia mano? non poss’io tenere la spata, ch’io son languido.
Co. Certamente è savio colui che hà parlato. non giudicar inanti che odi le parole de lun’ et de l’altro. Tu dunque mi sei parso molto piu haver la vittoria, però rilassando l’ira, io metto giu li stimoli. ò compagno e coetaneo obedisce, obedisce à le parole nostre, e non sij pazzo, ne molto austero, ne huomo duro. Dio volesse che io havessi alcun governatore, ò parente che tal cose mi ammonisce. ma è manifesto che alcun de i Dei ti è presente, e ti da aiuto ne le cose tue, et egli ti fà bene: et tu presente sapilo pigliare.
B. Volontieri il nutrirò, dandogli ciascuna cosa che ad un vecchio si può dare, lecar il grano, la chlena molle, la pellizza, una sorella, che gli freghi la capella et i fianchi. egli tace, et niente grugnisse, non può patir ch’io vi sia presente.
Co. S’ha riconosciuto di quello, che faceva sendo infuriato: adesso conosce ben che: et si pensa che quello siagli un gran peccato, quale ei non faceva, tu commandandogli. credi che adesso egli persuadi a’l parlar tuo? ei certo conosce che vuol vivere per altro costume, poi che lo ha arrivato.
Filo. Oime.
B. Che gridi tu?
B. Horsu caro padre per amore de li dij persuademi.
F. Che vuoi che te persuada?
B. Di quello che vuoi eccetto questo solo.
F. So ben di che cosa tu ragioni.
B. Di non giudicare.
F. Pluton discernerà questo nanti ch’io sia persuaso.
B. Tu dunque poi che t’alegri facendolo, non anderai piu là: ma vorrei che stesti quà, giudicasti i famigli.
Filo. Di che? che zancitu?
B. Di quello che qui si fà: perche la fante nascosamente ha aperta la porta, giudica questa sola pena di costei. imperoche et là sovente questo facevi. cio ragionevolmente, se’l Sole à buon’hora leva, à buon’hora ne starai a’l Sole: et se uno urini a’l fuogo sentato facendo l’inverno lo giudicherai, et se levi da mezzo dì, nessuno osservator de la lege da’l cancello ti scaccierà.
Filo. Questo mi piace.
B. Apresso, se alcun recita una lunga procura, non havendo fame l’aspettarai, mordendo te medesimo, et il respondente.
B. Molto meglio: e per cio che i giudici, dicendogli il falso i testimonij, à pena hanno conosciuto la cosa anchor che rimastichino.
F. Effettualmente mi persuaderei: ma non mi dici anchora, che mi darà mercede?
B. Io.
Fil. Ben. imperò che Lisistrato conviciatore, et vilanegiatore meco turpissimamente s’è portato, pigliando con meco poco inanti una drachma, et venendo la divise in pesci, et mi diede à me tre scaglie de Cefali, et io mi inclinai, e pensavami che’l mi desse oboli: et poi ver lui odorandoli gli spudai, et gli trai dietro.
Bd. Esso lui che rispose à questo?
Fil. Che? ch’io haveva un ventro di gallo, dunque presto padirai l’argento, egli disse cosi?
Bd. Vedi quanto guadagno farai?
Fil. Non molto poco, ma fa ciò che ti piace.
Bd. Aspettami, ch’io venerò, et ti porterò queste cose.
Filo. Ecco, le parole in che modo sono fatte perfette. hai udito che gli Ateniesi alcuna volta giudicavano giustitie ne le case. et s’alcuno edificava ne gli antiporti, gli facevano un giudicietto, come l’Hecateo, denanti à le porte.
Filo. Ciò savio et utile è ad un vecchio, manifestamente hai ritrovato un rimedio à la stranguria.
Bd. Et ecco il fuoco, ch’è à la lentecchia, se n’haverai bisogno sorbirne alquanto.
Filo. Anchor questo è atto, et accommodo. s’haverò la febre, haverò mercede da questo, imperò che sorberò la lentecchia.
Bd. Hor portatemi quà un’augello, à ciò che se dormi rispondendoti alcuno, questo di sopra cantando ti ecciti.
Filo. Questa sol cosa anchora io desidero, poi tutto mi piace.
Bd. Che?
Filo. Se in alcun modo mi porti il Teoro de Lico.
Bd. Egli è quà, et il patron anchora.
Filo. O messer barone, sei difficile da vedere, si come à noi appare Cleonimo.
Filo. Non ha dunque nanche il baron le arme.
Bd. Se presto tu sedessi, presto chiamarei il giudicio.
Filo. Chiamalo, che già un pezzo son sentato.
Bd. Hor, qual causa io primamente debo indure? che è quello di casa, ch’ha fatto qualche male? Trassa gia poco inanti abbrusciasti il lavezzo.
Bd. Per Giove non vi è. ma io correndo subito il porterò fuora. che cosa vi è? quanto è grave l’amor de’l luogo.
Filo. Gettalo à i corvi, notrir un cane cosi fatto?
Bd. Che gli è?
Filo. Non è venuto Labe il cane ne’l forno? e pigliando la Siciliana forma di formagio ha divorata.
Bd. Bisogna dunque che io apporti primamente questa ingiuria à mio padre, et tu presente accusalo.
Filo. Per Giove non io, ma un’altro cane dice che l’accusera, se si puo vedere la scrittura, che alcuno la porti dentro.
Bd. Hor menali quà presto.
Filo. Cio far bisogna.
Fi. Che cosa vi è?
Filo. L’albio de porchi di casa.
Fi. Poi mi meni i sacrilegi?
Filo. Non, ma à ciò ch’io fracassi alcuno, comminciarò da la Vesta dea.
Fi. Guidami prest’alcuno, che mi pare volerlo punire.
Bd. Adesso porto le tavole, et le scritture.
Fi. Oime che tardarai, et il dì n’andarà via. io giudicava notar il luogo, ecco chiamalo presto.
Bd. Homai.
Fi. Ch’è il primo?
Fi. Dove corri tu?
Bd. A le urne.
Fi. Non, ch’io haveva ben queste urne.
Bd. Ben dunque. ogni cosa havemo, de le quali havemo bisogno eccetto l’horologio.
Fi. Che dunque è questo? non è l’horologio?
Bd. Bene hai questa. e civilmente, ma prestissimamente alcuno mi porti di fuora il fuoco, et i mirti, et l’incenso. che primieramente faciamo sacrificij à li dei.
Co. Et noi ne li sacrificij, et supplicationi laudaremo voi, che generosamente di guerra, e contentione vi sete accordati.
Bd. La laude primamente vi è concessa.
Co. Insieme ti pregamo, et cantamo i novi toni, a’l rispetto de superiori. siamo benevoli, poi che vedemo che’l popolo ti ama, meglio che altro da questi giovani.
Bd. Se qualche giudice entra ne la porta, come diranno, non li riceveremo.
Fi. Ch’è costui che fuge? come serà ei pigliato.
Tes. Hor udite, che scrittura ha scritto il cane accusatore che vuol distruere Labete Essonea, ch’egli solo ha divorato il formagio Siciliano: la punitione sua è un pistolese di fico.
Fi. Dunque gli venirà la morte canina, se’l piglio pur un tratto.
Bd. Labe è quì fugendo.
Fi. Sto scelerato. et in che modo, e ladrescamente guarda. come si pensa ch’io il voglia ingannare. et dove il cane accusatore che’l non perseguita?
Ca. Au, au.
Bd. E quì un’altro Labe, buon da baiare, et da lecar le olle.
Pre. Taci, sedi, et tu và su, et accusalo.
Fi. Hor, buttandola sottosopra, io la sorberò.
Tes. O giudici havete udito questa scrittura ch’io ho scritto di costui. la gravezza de le facende mi ha fatto me, et Rhippape. imperò che egli corso in un cantone ha mangiato molto formagio, et à l’oscuro molto bene s’è ripieno.
Tes. Niente ha partecipato ne con meco, che gli son famigliare.
Fi. L’huomo è caldo non manco, che la lentecchia.
Bd. Per li dei no’l rifutare ò padre, nanti che tu odi tutti doi.
Fi. O compagno la cosa è manifesta, essa da per se grida.
Tes. Non lo lasciare: come che’l sia huomo anchora per essere voracissimo di tutti i cani, il quale circumnavigando il mortaio à cerc’à cerco, mangia il sporco de’l formagio de le cità.
Fi. A me non è possibile, nanche fingere una lagena.
Ca. Apresso, punitelo (che una selva non puo notrire doi erithaci ucelli solitarij) à ciò che io non habia vanamente, ne mattamente gridato: se non, da quì indietro non griderò.
Fi. Oime, oime, quante scelerità egli arguisce. La facultà de l’honor se gli puo robare. non è vero ò Gallo? per Giove, mi fà cenno. Tesmotete. dov’è costui? che’l mi dia l’orinale.
Bd. Non te cheterai ò molesto, et cattivo, massime à li fugienti, che strettamente gli pigli?
Fi. Vien su, risponde, di quello che hai taciuto.
Bd. Costui non poter isprimere il concetto suo?
Fi. No, ma mi pare che egli quello patisca, che alcuna volta fugendo ha patito Thucidide, che su le masselle di subito è stà percosso.
Bd. Damilo per li piedi, ch’io ti risponderò. è cosa difficile huomini che gli accusati rispondino sopra il cane. pur ti dirò. egli è buono, et iscacia i lupi.
Fi. Costui è ladro, e congiuratore.
Bd. Per Giove sì. ma è il migliore di tutti i cani, buono di guardare, e custodire molte pecore.
Fi. Che viltà è questa dunque, d’haver mangiato il formagio?
Bd. Che ei difende, et serva la tua porta, et in altro è ottimo. ma s’egli ha robato, perdonali. imperò che non sà citaregiare.
Fi. Et io vorrei nanche lettere, à ciò che non facendo male io non inscrivessi contra noi.
Tes. Odi ò felice li miei testimonij. vien su casitera, et dimi tu che sei stà gubernatrice, saviamente rispondimi, non hai tu diviso à i soldati, quello che hai havuto?
Fi. Sì per Giove, ma se mentisce.
Bd. O beato tu, habi compassion de i disgrati. Questo Labete mangia il collo, et le spine, et mai resta in quel medesimo. quest’altro, come è solamente guardiano, ivi standosene, di quello che alcuno porta dentro gli ne dimanda parte: et se nò, lo la morde.
Fi. Puo far dio, che male è questo, che mi fà molle? un certo male mi circuisse, onde io son pigliato, e persuaso.
Bd. Hor pregoti ò padre, habiateli compassione,et non l’ucidete. dove sono i fanciulli? venite su tristi. et baiando dimandate, pregate, et lacrimate.
Fi. Vien giu, vien giu, vien giu.
Bd. Venerò. et questo vien giu ha ingannato molti, pur venerò giu.
Fi. A i corvi, che non stà bene à sorbere, io adesso ho pianto la sentenza mia. mai piu. ma pien de lenti.
Bd. Dunque non è fugito?
Fi- E cosa difficile da sapere.
Bd. Hor patercino, vien ad effetto migliore, piglia questo calculo in ultimo vien zoppecando, et finiscela hormai ò padre.
Fi. Non certamente. io non so citaregiare.
Bd. Hor che io ti vengo à circundarti prestissimamente.
Fi. Questo è il primo.
Fi. Di quà, di quà.
Bd. S’è ingannato, et l’ha assolto non volendo.
Fi. Hor ch’io ti metterò in terra i calculi. in che modo havemo noi combatuto?
Bd. Pare che si dimostri. sei fugito ò Labe? padre, ò padre che hai havuto?
Fi. Oime dove l’aqua fresca?
B. Lievati, lievati tu medesimo.
F. Dimi, certo egli è fugito?
B. Sì per Giove.
F. Niente dunque io sono.
B. Non ti curar ò felice, ma lievati suso.
F. Come dunque conoscerò questa cosa io medesimo, assolvendo un huomo che fuge? che pena serà la mia? ò molto honorati dei perdonatemi, contra mia voglia ciò feci, et non à mio modo.
B. Lamentati meco, io certamente te nutrirò bene ò padre, sempre con meco venerai à cena, à pasto, a’l spettacolo, e cosi il resto del tempo dolcemente viverai, et non ti bertegiarà ingannandote Hiperbolo. hor entramo inanti.
F. Et questo adesso, se’l ti pare.
Co. Hor alegrandovi andate dove volete, et noi prestamente ò milliari innumerabili, schifate che in terra non caschi vanamente, quello che sete per benedire. questo accade à li spettatori ignoranti, et non è nostro proprio.
Co. Se alcuno de voi ò spettatori vedendo la natura mia, mi rimira ne’l megio stretto, e voglia sapere che openion nostra sia di questo mio accommodare: facilmente l’insegnarò quantunque prima fusse inelegante. Siamo noi, che larghi havemo i galoni, Attici, soli generosi iustamente, nasciuti quì, generatione generosa et virile: noi aiutamo questa cità ne le guerre, quando vien il Barbaro abbrugiando ogni cità et arrostendola, pronto per torne i favi del miele sforzatamente. Noi subito correndo con la lancia, et con il scuto combattevamo con quelli, gia bevuto un’acetoso animo: ogni huomo con l’altro corraciatamente si mordeva il labro. però ne le sagittationi, non era possibile vedere il cielo. non di meno li scacciassimo aiutandone li Dij fin à la sera, et una civetta volò per l’essercito nostro. poi seguitassimo battendoli dietro su le brache, et essi loro fugirono feriti ne le masselle et ne i cegni de gli occhi. però da li Barbari in ogni luogo (et servasi adesso anchora) niuna cosa si chiama piu virile de la Attica vespa.
Co. Se ben volemo considerare trovarete che di costume et di vita à le vespe siamo simigliantissimi. ne altro animale accorcciato è piu acuto d’animo, ne piu molesto. però cosi le cose simili à le vespe iscogitiamo, che colligemo noi la moltitudine, come i favi. Questi nostri dovè ’l prence, quelli altri presso gli undeci, altri giudicano ne’l theatro, altri congregati à le mura acerbamente acennando in terra, à pena mosti ne li forami. et in altra vita poi siamo deditissimi. Ogni huomo volemo stimulare, et gli diamo il vivere. ma veramente havemo de le vespe à torno, che non hanno il stimolo e quelle instandone, et non faticandosi ne mangiano il tributo nostro. questo n’è gravissimo dolore, se alcun de voi non essendo soldato porti fuora la mercede nostra sopra questa cità, ne remo, ne bosco, ne un callo pigliandone: ma mi pare nel’avenire, che i citadini totalmente, che non han il stimolo, non haveran un triobolo.
F. Mai vivendo spoglierò costui, il quale solo mi hà salvato combattendo, quando quel grande Bora fece l’essercito.
B. Tu mi pari non voler patire ben nessuno.
B. Hor sia fatta la sperienza, perche un tratto te desti tra le mie mani, che io te regessi, et ti facessi bene.
F. Dunque che vuoi che faccia?
B. Lascia la tribona, et piglia questa chlena, e la porterai in modo de tribona.
F. Generar e notrir figli, se costui mi vuole soffocare?
B. Tien, pigliala, et non dirai nulla.
F. Che male è questo per tutti li Dij?
B. Alcuni lo domanda Persida, altri Caunace.
F. Io mi pensava che la pellizza fusse la Thimetida.
B. E non è maraviglia, che non sei andato in Sardegna, imperoche tu conosceressi, ma non conosci.
F. Io non per Giove, ma mi pare esser simile a’l sagmate di Moricho.
B. Non: ma se tessono queste ne li Ecbatani.
F. Ne li Ecbatani se fa lana da tessere?
B. Onde huomo da bene. ma se tesse da Barbari con grande spesa. queste lane hanno inghiottito molti talenti.
F. Dunque bisognava piu presto dimandar la disfatione di lane, che caunace.
B. Tientila, vestite.
F. Povero me, questa sordida e puzzolente mi farà gran caldo.
B. Non la vuoi tu?
B. Hor se vuoi ch’io ti vesta vien dunque.
F. Mette pur giu la muoia.
B. Perche? che cosa hormai?
F. A cioche mi dispoglij, nanti ch’io crepi.
B. Hor cavati le maledette vesti, affrettati e vestiti questa Laconica.
F. Ch’io tolerarò mai essere vestito di veste nemiche, da nemichi huomini?
B. Mettila su. quando? ò amico vien virilmente e presto à la Laconica.
F. Tu mi ingiurij, facendomi mettere il piede ne la nemichanza.
B. Mettili l’altro.
F. A niun modo questo le meterò, imperoche gli hò un deto che molto hà in odio li Laconi.
B. Non però oltra questo vi è altro.
F. Infelice me, il quale non hò qualche sgomfiamento ò pedane ne la vecchiezza mia.
B. Frettati homai da vestirti: poi andando cosi con tal ricchezze e pompe delicatamente Laconigerai.
F. Ecco vedimi, et considerami bene, à qual riccho son piu simigliante nel’andare.
B. A cui? à Dothiene circundato d’aglio.
F. Et per Dio, meno ben io il segio?
B. Hor deliberati di ragionar castamente, sendoti in presentia d’huomini molto savij e prudenti.
B. Hor che dirai?
F. Ragionerò un pezzo. primamente in che modo Lamia pigliata tirò corezze, poi come Cardopione sua madre.
B. Non favole di gratia, ma cose humane, come anchora per casa diciamo.
F. So io dunque di queste cose di casa. in che modo colui è sorzo, alcuna volta è gatta.
B. O grosso, rude, ignorante, Theogene dicelo à Coprologo. et tu ingiuriato, vuoi dire sorzi, gatte à gli huomini?
F. Che parlare? che bisogna dunque dire?
B. Parole gravi, come quando vedevi Androcle e Clisthene.
F. Et io mai vidi ciò se non in Paro, portando doi oboli.
B. Ma vorrei che dicesti, in che modo combattè Eufadione fortemente con Asconda gia essendo vecchio et canuto. havendo però un gravissimo lato, et mani, et fianchi, et un’ottima coracina.
F. Cessa cessa, che niente dici, in che modo havria essolui combattuto fortemente havendo la coracina?
B. Cosi narrano i savij huomini. hor dimi, bevendo con i toi amici, quale opera de le toi virilissime che facesti ne la gioventù, pensitu dire?
F. Quella, quella virilissima, quando robava io i pali à Ergasione.
F. So io questa cosa giovanilissima, quando era giovanetto che pigliai Failo cursore, e lo cacciai via con doi ballotte vituperandolo.
Bd. Cessa hormai. ma sendo cosi delicatamente vestito inchinati, et voglij pur essere buon combibitore, et chiavatore.
F. In che modo m’inchino, dimi presto.
Bd. Ben figuratamente.
F. Cosi vuoi che m’inchini?
Bd. No.
F. In che guisa?
Bd. Stende i ginocchij, et sendo nudo ungeti te medesimo ne’l letto, poi lauderai qualche scutella. guarda il tetto, guarda meravigliosamente il risuono de la tromba. l’aqua à le mani, parecchiate son le
tavole, ceniamo, siamo lavati, hor sacrifichiamo.
F. Per li dei, siamo per mangiare un’insogno.
Bd. Il trombetta ha suonato: questi sono li combibitori Teoro, Eschine, Fano, Cleone, poi l’altro amico di sopra, Acestero. Sendo seco, come ben udirai il canto?
F. E’l vero. che nessuno de li Diacrij lo udirà.
F. Non cosit mal ladro.
Bd. Questo farai assai gridando? egli dice d’amazzarlo, rovinarlo, et da questo luogo iscaciarlo.
F. Io, s’egli minaccia, per Giove ne canterò un’altra.
Co. Huomo con gran potenza furioso, pazzo, volterai sottosopra questa cità, la quale molto è fortificata. ch’e poi quando Teoro canti, giacendone nanti à li piedi, la favola di Admeto, pigliando Cleone per la mano: ò amico impara amar gli huomini da bene: che canto risponderai à questo?
Fi. Son’io rispettoso. non voglio disprezzare, ne ad ambidoi esservi amico.
Bd. Dopoi costui quell’Eschine di Sello huomo sapiente e musico, udirà un poco, poi si metterà à cantare la facultà, la forza di Clitagora, et ciò che avenne à me con i Tessagliani.
Fi. Tu, et io molto bene s’havemo portati.
Bd. Tu convenientemente lo sai. A ciò che andiamo à la cena di Filoctemone regazzo, regazzo, Chrisa, mett’à l’ordine la cena, che per un pezzo si ebriachiamo.
Fi. In nessun modo è cosa cattiva à bevere, imperò che il vino fà battere à le porte, isquassare, et buttarle giu, poi dar l’argento quando s’ha crapulato, e divorato.
Fi. Bisogna dunque imparare molti belli parlari, veramente niente ti renderò, se io facio qualche male. hor andiamo, che niente ne impedisca.
Co. Che vi è ò servo? è ben giusta cosa, che un servo che sia battuto, chiami alcuno, quantunque sia vecchio.
Fi. Lievati. vien quà. alcuno di costoro che vi seguono vuol piangere. qualmente ò villani se non vi partite, vi arrostirò, et abbruscierò con questa lampada?
Bd. Certamente noi doman ti faremo patir la pena, se fosti ben anche giovenissimo, che noi datisi l’acordo, ti chiamaremo bene.
Bd. O superbo tu, e feminella: pare che tu desideri un bello monumento da sotterarti. non mi rifuterai
per Apolline anchor che faci questo.
Fi. Molto dolcemente piglierai la pena acetosa.
Bd. Non riprendi gravemente un trombetta ladro de li compotatori?
Fi. Qual trombetta? che baij tu, come iscapuciando?
Bd. Per Giove, dove hai questa tua Dardane.
Fi. Non. ma ne’l foro una lampada è abbrusciata à li dei.
Bd. Lampade è questa?
Fi. Lampade certo. non la veditu ornata?
Bd. Che cosa è questo negro ne’l mezzo?
Fi. Pissa hormai abbrusciata se ne viene.
Bd. Questo di dietro? non egli è il culo?
Fi. Dunque è questo un ramo di Lampade.
Fi. Oime, oime, che vuoi fare?
Bd. Menarla pigliatala, et strassinar te, pensando che sei marcido, et che niente puoi fare.
Fi. Hor odimi, quando io andava à vedere le Olimpiadi, Efudione valentemente combatte sendo vecchio con Asconda. il vecchio battendo il giovane con il cesto gettollo per terra. apresso guardati, ch’io non ti dia su’l muso.
Bd. Per Giove ti hai dimenticato l’Olimpia, vien di gratia, vien ti prego per li dei.
Donna che vende il pane. Costui è quello che mi ha morta. battendomi con la facella mi ha gettato via pani per diece oboli, et di trippe quatro.
Bd. Vedi tu che cosa hai fatto anchora? bisogna che porti la pena per il tuo vino.
Fi. A nessun modo, imperò che il parlare prudente placa le cose tutte, et i travaglij però sò io che cosi mi conciliarò.
Don. Non per Giove raffiuterai, ò vituperarai Mirtia figlia de Angilion, et di Sostrata, si corrumpendo i mei carichi.
Fi. Odi ò donna, ti voglio parlare piacevolmente.
Don. Per Giove non farai ò infelice.
Don. E tu me bertegi? io ti fo citare, sia pur qual ti sei, à gli edili per i nocumenti de carichi, havendo per giudice questo Cherefonte.
Fi. Odi per dio, se vuoi ch’io ti dica una parola. Laso per il contrario insegnò et Simonide. Poi disse Laso poco ne ho io cura.
Bd. E vero. ò Cherefone anchor tu sei chiamato da la donna, che è simile à la pallida Inone attacata à li piedi d’Euripide.
Tes. Questo altro come mi pare è venuto per chiamarti, havendo lo accusatore.
Ev. Povero me. vecchio ti chiamo per ingiuria fatta.
Bd. Per ingiuria? non, non lo chiamerai. per li dei. io per esso patisco la pena, la quale se la commanderai, gli precederà anchora il favore.
Fi. Io certamente mi conciliarò con lui, che io confesso apertamente d’haverlo battuto, et percosso. hor vien qui: mi concedi tu che rendendogli l’argento gli possa essere amico per l’avenire? hor me lo dirai tu?
Acc. Dillo tu. imperò che non ho io bisogno di pene, ò travaglij.
F. Un’huomo Sibarite è cascato giu d’una caretta, et si ha rotto il capo aspramente. egli non sapeva niente de’l cavalcare poi facendogli instanza un suo amico gli disse, ogn’un facia il suo mestiero. et tu cosi corri in quelli di Pittalo medico.
Acc. Ricordati un poco che cosa egli ha risposto.
F. Hor odi, non fugere, che una donna ha rotto lo Echino vaso contra un Sibari.
Acc. Io di questo son testimonio.
F. L’echino dunque havendone alcuno, ha testificato: poi Sibarite disse. Per Proserpina se lasciando questo testimonio haverai compro un vinculo, ha vera piu integra la mente.
Acc. Fagli ingiuria, finche il principe chiama la pena.
B. Per Cerere, piu non starai qui, ma levandoti di peso ti porterò via.
F. Che fai?
B. Che faccio? te porto quì dentro, et se non presto, gli accusatori ritrovarano i convocati.
F. Esopo à Delfi per il passato
B. Poco ne hò io cura.
F. L’accusavano che haveva robata la fiala de’l Dio, esso lui li disse che fù Cantharo per il passato.
B. Oime che morirai con questi toi canthari.
Co. Chiamo il vecchio di fortuna essere beato, poi che hà lasciato gli asperi costumi e la vita. Certamente contra imparando altre cose, serà persuaso ne la delicata et molle. non però forsi vorrà. è un difficile partirsi da la natura, quella quale sempre uno mantegna. Nulla di meno molti hanno habuto questo, che accostandosi à le altrui openioni, hanno mutato i costumi.
F. Ch’è quello, che sede nanti à le porte de la sala?
Ser. Anchora questa disgratia ne vien dietro.
F. Le chiavature s’aprino.
Ser. Veramente il principio del portarsi, è stà gran principio d’insania, e di mattezza.
F. Il che di forza si move i fianchi, e come gli suona il naso et lo spinal risuona?
Ser. Beve pur l’elleboro.
F. Frinico teme, come un gallo.
Ser. Presto giacerai.
F. Battendo le gambe à l’aere, ei mostra il culo, isbadacchianteli.
Ser. Guardati te istesso.
B. Non ben per Giove, non certamente. ma sono cose furiali.
F. Hor ch’io ’l ridico, et chiamomi contra li pugnatori, se alcun Tragico se avanta di saltar bene, venga quà à saltare. nessuno risponde ò no?
B. Quello solo.
F. Che è infelice?
B. Il figlio di Carcino, Mesato.
F. Costui serà divorato. il uoglio ammazzare co ’l suono del tasto, che ei niente è ne’l suonare.
B. O povero huomo, vien un’altro Carcinite Tragico suo fratello.
F. Per Giove l’ho io vento.
B. Per Giove niente altro, eccetto che Carcini, che adesso egli è arrivato un’altro di Carcino.
F. Ch’è quello che rampega? oxi, ò falange.
B. Questo picciolino è Pinnotere di stirpe: il quale compone Tragedia.
F. O Carcino beato de la figlianza buona, quanta moltitudine de gli ucelli orchili è caduta? ò misero bisogna andar giu à ritrovar quelli. spargeli la sale adosso, se io vinco.
Co. Horsu che se ritiramo tutti, à cio che ne conoschino taciti.
Fin de le Vespe.
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