Vai al contenuto

Le vespe

Da Wikisource.
greco

Aristofane 422 a.C. 1545 Bartolomio Rositini/Pietro Rositini Indice:Aristofane - Commedie, Venezia 1545.djvu Commedie teatro Le vespe Intestazione 13 maggio 2025 75% Teatro

Questo testo fa parte della raccolta Commedie (Aristofane)


[p. 142r modifica]

LE VESPE D’ARISTO-

FANE. COMEDIA. VI.

Persone de la favola.

Doi servi, Sosia, e Precone,
Santhia, Cidateneo,
Bdelicleone, Tesmotete,
Filocleone, Donna che vende ’l pane,
Coro de vecchi ch’erano Vespe, Un certo Euripide,
Figlij. Accusatore,
Cane.

sosia.

AA
Che modo sei conturbato ò infelice Santhia?

Sa. Son insegnato fare notturna veghia.
So. Che hai tu sopra le spalle, qualche gran male?
Sa. Non sai tu che fiera custodiamo?
So. Sò, ma vien mi voglia di dormire.
Sa. Tu dunque ti porrai a’l pericolo, però che non so che di dolce mi è sparso ne le palpebre mie.
So. Vai tu giù, ò sei matto?
Sa. Nò, ma un certo sonno di Dionisio mi ritiene.

[p. 142v modifica]
So. Anche tu pasci meco insieme il medesimo Dionisio, e pur adesso un sonno dormitorio Medo ne le palpebre mi ha perseguito. et veramente ho io visto un meraviglioso insogno, et certamente di tal sorte mai più ne vidi.

So. Dì tu prima.
Sa. Io mi stimava, che quell’aquila grandissima, che volava ne’l foro pigliando il scuto con le ongie, che ella il volesse portare in cielo, et che Cleonimo poi volesse gettarlo giu.
So. Nessun dubbio ne dà Cleonimo, in che modo alcuno contarà à li compotatori, che quella bestia medesima in terra, in cielo, in mare, habia gettato via il scudo?
Sa. Oime, certamente mi avenirà qualche male, havendo veduto tal’insogno.
So. Non ti curare. imperò che nessuna cosa ti sarà grave, ne pericolosa. non per li dei.
Sa. E cosa grave, che un’huomo getti via l’arme. hor dirai il tuo.
So. Egli è grande, egli è circa tutta la nave de la cità.
Sa. Dillomi hormai, in che è ’l fondo de la cosa?
So. Mi è parso circa ’l primo sogno in Pnice predicare à pecore assentate, che havevano bastoni, et veste. poi mi pareva predicare à queste pecore con una balena Pantoceutria, che haveva la voce d’enfiammata, e grassa porca.
Sa. Oime.

[p. 143r modifica]
So. Che egli è?

Sa. Cessa, cessa, non dir più. questo insogno sente di cordovan marzo.
So. Poi la sordida balena havendo la bilancia, mi statuì la bovina grassa.
Sa. O infelice, ei vuole separare, e far partire il nostro popolo.
So. Poi mi pareva Teoro in terra sederli apresso, havendo il capo di corvo: poi Alcibiade balbutiendo mi disse, vedi che Teoro ha la testa di corvo.
Sa. Giustamente Alcibiade hà balbutito.
So. Non è estraneo, che Teoro sia fatto corvo?
Sa. Non, ma non è cosa ottima.
So. In che guisa?
Sa. In che guisa? egli era huomo poi di subito è divenuto corvo, dunque egli è cosa manifesta da intendere, che elevatosi da noi n’andarà i corvi.
So. Poi non lo condurrò io dandoli doi oboli, narrante si manifesti insogni.

[p. 143v modifica]
Sa. Hor adesso dirò una parola à gli spettatori, che niente da noi aspettino: ne il rito è robato da Megara, ne havemo nuoci da la sporta, ne il servo ne ha da gettar à gli spettatori, ne per Hercole Euripide è ingannato ne la cena, ne anche bertegiato. ne se Cleone è stà splendido di roba, anchora lo irritaremo. ma dirò un senso, non troppo buono à voi, ma la comedia onerativa è più savia, e dotta. è il padrone di sopra che dorme, egli il grande huomo in casa. Ei ne ha commandato à noi, che custodiamo suo padre, che dormiamo dentro, a ciò che’l non riuscisca: il quale ha un gran male, et estraneo: il quale nessuno mai il consolerà, ne intenderà, se non udirete noi: Aminia quello di Pronapo, dice che egli è il medesimo Filocibo.

So. Non dice niente.
Sa. Per Giove. Ma da se medesimo pensa il male.
So. Nò. ma Filo è principio de’l suo male.
Sa. Tu dici Sosia à Dercilo, che egli è Filopota.
So. A nessun modo, imperò che questo male è da huomo da bene.
Sa. Poi Nicostrato Scambonide dice essere Filothita, ò Filosseno.
So. A’l sangue d’un cane ò Nicostrato, non è Filosseno, imperò che questo Filosseno è cinedo.

[p. 144r modifica] [p. 144v modifica]
Sa. Vanamente parlate voi, ciò che non trovarete, ma se vuolete saperlo tacete voi, ch’io dirò che male ha il patrone: è Fililiaste, come nessun’altro huomo. Molto desiderava di giudicare, sospira s’egli non siede ne’l primo luogo, ogni notte vede non poco sogno: me se’l dorme, nondimeno la mente gli vola di notte circa l’horoloio. ma per esser solito haver il calculo, tenendo tre diti, se ne leva come se ponesse l’incenso à la Numenia, et per Giove se’l vede scritto in alcun luogo, in su una porta Pirolampus buono popolo, andatoli apresso gli scrive il buon calculo. Ha detto che’l gallo, che heri sera cantava, l’ha eccitato, et isvegiato, che ricercava danari da li rei. Subito dopo cena gridava a le subre. Poi andato ivi, dormiva à la mattina bene, come ostrea attaccata ad una colonna. e per malagevolezza, e dispetto de tutti, si pone à fare una pregione, et ivi dentro si nasconde, si come ape, ò culice, le ungie si ripiena di cera. poi v’ha dentro un’arena d’un fiume, à ciò che temendo de’l calculo, non gli manchi mai da giudicare. Per il che se ne stà di mala voglia, ma come più è avisato, tanto piu vuol giudicare. il custodiamo dunque con chiavature, à ciò che non fugesse: imperò che il figliuol ha molto in odio questo suo male. et primamente consolatolo con parole humane lo riconfortava poi, ch’ei tolerasse questo bene, che di gratia non volesse uscire, et egli non si persuadeva à modo alcuno poi lavavalo, et annettavalo, et poi divotamente sacrificava, et essolvi con il suo timpano bizzarrescamente giudicava, e cadeva ne’l luto. quando poi non faceva sacrifici, navigava in Egina. pigliandolo di notte lo faceva venire ne’l tempio d’Esculapio, et esso lui s’ascose, che non pareva, in non so che banche. et noi il cavassimo fuori, et egli fugeva per li canali, et caverne. et noi i luoghi, ciascuni che erano perforati, empiessimo de strazzi. et gli otturassimo. et elli come un corvo sbatteva d’i pali ne’l muro, poi saltava, et noi istendendo le reti per tutta la corte à cerc’à cerco, lo custodivamo. questo vecchio ha nome Filocleone, et suo figlio ha nome Bdelicleonde, huomo superbo assai.

Bd. O Santhia, ò Sosia dormite?
Sa. Oime.
So. Chi è quello?
Sa. Bdelicleone è levato su.
Bd. Non correrete hormai quà uno di voi? mio padre entrato ne la cucina, vȧ come un sorzo, et s’e nascosto ne’l soglio. ma osservate che’l non ha il fondo ond’ei non suga. et tu stà à la porta.
Ser. O Messere lo rè Nettuno, che sirepito si fà in questa cucina? in che sei tu?
Fi. Il fumo che riescie.
Bd. Sei il fumo? hor ch’io veda, di che legna tu sei.
Fi. Di fico.
Bd. Per Giove, quello è acutissimo de tutti i fumi. ma non uscirai. dove è il crevello? entra presto. hor che vi metta dentro te, e la legna, hor troua altra inventione. povero me piu che huomo a’l mondo, il quale adesso sarò chiamato fumo di mio padre.
Ser. Regazzo sara la porta, sara bene, e fortemente, et io anchora vegno. et guarda bene, custodisse la chiave, et il cadenazzo, e che’l non mangi la chiavatura.
Fi. Che farete? non l’aprirete? ò sceleratissimo. giudica che io. ma fugerà, Dracontide.

[p. 145r modifica]
Bd. Et tu porterai la pena, imperò che Iddio quando ei Delfo gli dimandai il risponso, mi disse, se alcuno fugesse, che io subito lo richiamasse.

Fi. Apolline liberatore de mali, da’l vaticinio, pregoti di gratia che non mi offendi.
B. Per Nettuno mai Filocleone.
F. Mangierò io con arrabiati denti la rete.
B. Se non hai denti?
F. Infelice, à che modo ti ammazzerò? à che modo? datemi la spada prestissimamente, ò una tavoletta giudiciale.
B. Costui vuol fare certamente qualche male.
F. Non in vero per Giove, voglio vendere l’asino, medandolo con li proprij canthelij. Hoggi è il primo de’l mese.
B. Io voglio venderlo.
F. Non. come farò io?
B. Per Giove anchora meglio. mena fuora l’asino.
Ser. Che iscusa è questa, cosi finta che prestamente se meni fuora?
B. Ma non l’ha dislegato, io sapeva bene l’openion sua. ma voglio menarlo fuora, acioche il vecchio piu non fuga. canto che piangi, che hoggi sarai venduto? va intanti presto, che gemiscitu, se non porti qualche Ulisse.
Ser. Ma per Giove, fà che con costui qualche altro ne sott’entri.
B. Quale? ch’io lo vega.
Ser. Costui.

[p. 145v modifica]
B. Di certo costui. che sei ò huomo? dillomi certamente.

F. Nessuno per Giove.
B. Tu donde sei?
F. Ithacese da Drasippide.
B. Se nessuno sarai per Giove, non te alegrerai. tiralo di sotto prestamente. ò scelestissimo, dove sei andato sotto? veramente ei pare il muletto de’l trombetta.
F. Se non mi lasciarete chetamente: faremo lite.
B. Di che vuoi far lite con noi?
F. De l’ombra d’un asino.
B. Sei cattivo veramente, e pazzo.
F. Son cattivo? non per Giove. non sai tu, che io son da bene, quando tu mangi il cibo de’l giudice
vecchio?
B. Caccia l’asino et te medesimo in casa.
F. O giudici compagni, e Cleone aiutatemi.
B. Chiamalo dentro e sara la porta: rivolgi quà à la porta molti sassi, et metti la chiave ne la chiavatura un’altra volta, et metti una grande balla a’l trave, poi moveti, et affrettati.
Ser. Oime, dove son io iscapucciato in una gleba?
B. Forsi il sorzo l’ha fatta venire de sopra.
Ser. Il sorzo? non per Giove, ma qualche giudice, sotto à i coppi è sotto entrato.

[p. 146r modifica]
B. Oime che l’huomo diventa una passera, egli volerà via, dove, dove la rete? su, su, anchora su. certamente saria meglio, che io custodisca Scione in vecce di mio padre.

Ser. Horsu, poi che havemo cacciato dentro costui, non sarà piu luogo dove egli si possa nascondere. che non havemo noi dormito, tanto, quanto è un triente.
B. O vilano veneranno poi li soi compagni giudici, à chiamarlo.
Ser. Che dici? adesso è grande hora.
B. Per Giove che tardamente semo levati, da che me chiamarono da mezzanotte, havendo la lucerna, e cantando canti antichi di Frinico, con i quali chiamavano costui.
Ser. Dunque se’l sarà di bisogno, lo lapidaremo, e’l coperchiaremo di pietre.
B. O vilano, s’alcuno irrita questa sorte de vecchij, guardi bene ch’è simile al galavrone: imperoche hanno da’l lato il stimolo acutiddimo, con il quale stimulano, et gridando saltano adosso, et come scintille abbrusciano, e percuttono l’huomo.
Ser. Non ti curare di ciò, imperoche se piglio d’i sassi, dispergerò et lapiderò tutti questi giudici galavroni.

Co. Và inanti, và inanti sortemente ò Comia, tu tardi, non prima facevi cosi per Giove, ma vi era una correggiata canina. e meglio che tu ò Charinade ne vaddi. ò Stimedoro Conthileo, ottimo d’i con giudici, dove Evergide, ò Charbe Fileo? il resto anchor vi è, ò dio, ò dio, ò dio, di quella gioventù,
[p. 146v modifica]
Co. Và inanti, và inanti sortemente ò Comia, tu tardi, non prima facevi cosi per Giove, ma vi era una correggiata canina. e meglio che tu ò Charinade ne vaddi. ò Stimedoro Conthileo, ottimo d’i con giudici, dove Evergide, ò Charbe Fileo? il resto anchor vi è, ò dio, ò dio, ò dio, di quella gioventù, quando eramo in Constantinopoli facendo la guarda io et tu: poi andando à torno di notte robassimo, sendo però ascosi, la pilla de’l fornaro: poi pigliato il pesce lo stracciassimo? hor affrettiamosi ò huomini. tutti dicono havere la cassa, la quale adesso sarà di Lachete. Dunque Cleon Cedemon. ne disse heri che à l’hora debita venessimo à costui, havendo una crudele ira, e de trè dì, come per punirlo di quello ch’ei hà fatto. Affrettiamosi compagni, nanti che se faccia dì, andiamo, et cercamo di compagnia diligentemente con la lume, se alcuno fusse ascoso, il quale fusse per farne dispiacere.

Fil. Guarda’l fango ò padre.
Co. Piglia un stizzetto, et instizza la lume.
Fi. Nò, ma penso ben da istizzarla.
Co. Che te hà insegnato à far su il stoppino co’l deto, huomo grosso. l’oglio è poco? gia te non morde, quando bisogna comprarlo.
Fil. Per Giove, se un’altra volta ne riprenderete, amorzarò cò i pugni la lucerna, e cosi n’andaremo à casa, et forsi in questa oscurità privato di lume torbiarai il fango come un’ Attaga. veramente ne punisco di te magiori assai.

[p. 147r modifica]
Co. Questo a’l calcarlo vi pare fango, e non è possibile che Idio necessariamente non faccia piovere grandemente in questi quattro dì, vengono i fonghi à le lumi: et quando è questo massime, bisogna che piova: bisogna che i frutti che presto non vengono, habino de l’aqua, e che gli spiri il Borea. qual cosa il congiudice di questa cosa non hà patuto, che la moltitudine non lo sapia? Nanti veramente egli non era la gran barca: ma il primo de noi n’andava inanti cantando di Frinicho, per ciò che egli è huomo che ama il cantare: ma parmi ò huomini cantori cacciarlo via lui: e se pure à qualche modo sente i mei canti, d’appiacere e diletto saltarà fuora.
Canto de’l Coro.
Perche non vien il vecchio nanti à la porta, ne obedisce? hà egli perso le scarpe? o se schizzia le dita ne l’oscuro? tutta la cavicchia dil piede se gliè sgonfia forsi anchora che hà male de fianchi, certamente che essolui ver noi era acerbissimo, et solo mai era obedito. ma se alcun lo pregava, inchinatosi giu, gli diceva, tu cuoci un quadrello, forsi anchora per quello huomo da heri (il quale ne ingannò dicendo, ch’egliera amatore d’Atheniesi, che il primo dirà le cose di Samo) dolendosi se ne giace con la febre, et è tal huomo veramente. ma ò huomo da bene levati, ne cosi dei rosigarti, ne haverlo per male. e certo l’huomo grosso è venuto da quelli che dicono le cose di Tracia: il quale se’l voi avergognare, gli darai su’l capo.
Co. Vatene pure ò giovane, vatene.
[p. 147v modifica]
Fil. Vuoi tu qualche cosa o padre, che per te io possa, se io ti manco?

Co. Và ò giovanetto: ma dimi. che vuoi che ti compri? ma penso che dici fratello che vorresti de dati.
Fil. Per Giove sì. ma piu presto de li fighi, che sono piu dolci.
Co. Non per Giove, se fuste appicati voi.
Fil. Non per Giove. ti lasciero l’impacio à te.
Co. Di questi pochi danari, bisogna che io con la terza parte habia farina, con l’altra legne, con l’altra il companatico, et tu mi domandi fighi.
Fil. Horsu ò padre se il patrone non fà sedere il giudicio, donde aquistaremo il decenare? hai buona
speranza per noi? ò pur la Grecia vuol dare il sacro tributo?
Co. Non, nò. oime, per Giove non so in che modo cenaremo.
Fi. O infelice e misera mia madre, perche dunque me hai parturito? che non m’hai dato qualche arte, onde mi potess’io pascere?
Co. Ch’io dunque ò borsa mia te habi per ornamento inutile?
Fi. Oime, oime, quà suspirar mi conviene.

Filo. O amici gia un pezzo son liquefatto et dileguato udendovi da una fenestra: ma non poss’io dire. che farò io? son custodito da costoro: voglio anchora, venendo con voi à le olle, far qualche male. ò Giove tuona forte, et fammi subito in fu-
[p. 148r modifica]
Filo. O amici gia un pezzo son liquefatto et dileguato udendovi da una fenestra: ma non poss’io dire. che farò io? son custodito da costoro: voglio anchora, venendo con voi à le olle, far qualche male. ò Giove tuona forte, et fammi subito in fumo divenire, ò in una prosseniade, ò quello baione di Sello. fammi questa gratia, o Rè, habi compassione de la miseria mia, ò fami in cenere con lo abbrugiativo fulme. poi recreandomi mandami il vento. gettami ne la cena calda, ch’è ne’l lavezzo, o veramente fammi una pietra, ne la quale numeranosi le conche.

Co. Ch’è quello che ti tien in tempo? sera la porta, et dillomi: che lo dirai ad huomini benevoli.
Filo. Mio figlio: ma non gridate, imperoche egli mi dorme quà inanzi, ma non fate strepito, astenetevi.
Co. Questo astenire ò inepto vuole che tu facci tal cose. quale è la causa?
Filo. Non mi lascia ò huomini giudicare, ne fare nessun male: ma vuole ch’io mangi et beva, et io non voglio.
Co. O Cleonico governatore questo scelerato ha habuto ardimento di dir tal cosa, se pur dici la verità de le navi.
Filo. Veramente questo huomo non havria habuto ardire à dirlo: se non gli fusse alcun congiuratore.
Co. Da questi vede di aquistar qualche nuova sentenza, la quale nascostamente ti faccia fugire.
Filo. Ciascuna che vi sia cercatela voi, ch’io farò il tutto. cosi desidero passare per carte giudiciali havendo li suffragij.

[p. 148v modifica]
Co. Ivi è un buco, che dentro slargare se può, onde puoi riuscire coperto di qualche panni, à guisa de’l prudente Ulisse.

Filo. Ogni cosa è otturata, et non c’è buco (ne vi anderò dentro) da passare: ma bisogna che voi cercate altro. non è, che forame far se possa.
Co. T’arricorditu che ne la militia tu robavi li spedi, che tu mettevi per i muri, quando morì Nasso?
Filo. So bene. ma che bisogna questo? imperoche niente è simile. io era giovane, et poteva robare, et poteva da me stesso, che nessuno mi servava, e mi era lecito fugere senza paura: adesso gli huomini armati, appogiatisi à li cantoni et crosali mi osservano. et questi amendoi su le proprie porte, mi fanno la guarda havendo li spedi, si come fuss’io un gatto robatore de carni.
Co. Hor ritrova una inventione prestissimamente, che adesso è l’aurora ò delicatetto e dolcino tu.
Filo. E cosa ottima, ch’io dunque arroseghi la rete: et Diana à le reti perdona.
Co. Ciò è d’un’huomo che cerca di liberarsi: ma porgili homai la massella.
Filo. Questa è divorata, ma di gratia non gridate: ma osserviamo che Bdelicleo non senta.

[p. 149r modifica]
Co. Non haver paura fratello à modo alcuno: che se’l grugnisse niente farogli mordersi il cuore, e farollo correre se si vorrà saluare: acioche egli impari à non calcare i calculi e le ballote de li dei. hor attacherei una corda à la fenestra, onde ti manderei giu, sendo legato: et impirai il cuore tuo di Diopitheo.

Filo. Hor cercarete di darmi tra le mani à costui? et farmi stracciare in casa? che farete? dite.
Co. Ti daremo aiuto facendoti buono animo, et faremo ch’egli non ti possa havere. sì faremo veramente.
Fi. Farò ciò che vi piace: et sapiate, se qualche cosa io patisco, pigliarmi, et gettarmi sotto à le banche, ò tavolati.
Co. Niente patirai, di niente haverai paura. fratello con audacia mandati giu, pregando i Penati dei.
Filo. O Lico signore, baron vicino: sempre hai fatto favore (cosa che soglio io) à le lacrime de fugienti à i pianti: sei dunque venuto quà, per intendere queste cose, et tu solo de baroni hai voluto sedere presso di quello, che piagne? habimi compassione, et aiuta il tuo vicino: che mai à le tue canne ne piserò, ne farò ciò che gli siegue.
Bd. Sù presto.
Ser. Che cosa?
Bd. Una certa voce mi pare havermi conturbato.
Ser. Il vecchio è trapassato per qualche luogo?
Bd. Non per Giove. ma se manda giu legatosi.
Ser. Che fai sceleratissimo? non ti mandarai giu.

[p. 149v modifica]
Bd. Affrettati. và su da l’altra parte, et dagli con le frasche, et s’essolui percosso riverbera la nave in alcun modo, non saperete voi, quante pene haverete quest’anno?

Filo. O Smicithione, Tisiade, Chremone, e Ferodipne, quando mi darete aiuto se non adesso, nanti che sij menato dentro?
Co. Dimi, che tardiamo movergli quella ira? che quando alcuno instigherà il nostro same, subitamente quello stimolo di superbo animo, et acuto, con il quale si punisse, gli sarà caciato ne la vita. ma pigliatevi presto le vesti, à guisa de putti prestissimamente correte, et gridate, et annunciate queste cose à Cleone: et fate ch’egli venga contra di costui, che ha in odio la cità, ch’è huomo pazzo, et ha detto, che non bisogna giudicare le giudiciali carte.
Bd. O gentil’huomini udite la cosa, et non gridate.
Co. Per lo celeste Giove, ch’io non lascierò costui.
Bd. Queste cose non sono di haverne per male? et la tirannia non è manifesta?
Co. O cità. ò inimicitia di Teoro contra li dei, et se alcun’altro de voi è adulatore.
Ser. Cancaro, hanno i stimoli. non vedi tu patrone?
Bd. Con li quali hanno ammazzato Filippo quello di Gorgia ne la giustitia.
Co. Ti ammazzaremo anchora te. et ogn’uno quà, se volgi contra à costui, ben ordinatevi, et fortificatevi à stimularlo empetosamente: à ciò ch’ei ben conosca, che same ha instigato.

[p. 150r modifica]
San. Per Giove se faciamo lite, ho io gran paura de tali stimoli.

Co. Lascialo stare: se non, io ti aFFermo che dirai che le testudini sono beate, et felici de la conca loro.
Filo. Hor giudici, vespe acute di cuore, volategli accoraciate ne’l loro buco di dietro, et altre pungeteli gli occhi d’ogn’intorno, et altre à cerco à cerco le dita.
Bd. O Mida, ò Frige aiutatemi quà, ò Masinthia pigliatelo, et no’l lasciate: et se non lo legate con legami grandi, et grossi, non decenarete, ma io so bene il suono de bastoni, che molte volte l’ho udito.
Co. Se non lasciarai costui, non so che ti sarà ficato ne’l cuore.
Filo. O Cecrope rè, barone, questi draconi à li piedi? veditu in che guisa son pigliato io da gli huomini barbari? i quali io gli ho insegnati piu di quatro volte à piagnere, havendo le boghe à i piedi.
Co. Che molti e gravi mali non ha veramente la vecchiezza? hor pigliano questo vecchio patrone per forza, mai ricordatisi de le pelizze, e de le vesti, le quali gli ha comprato? et de le berette, et altre cose, che l’inverno non gli lasciava havere fredo à i piedi? ma costoro non hanno ne gli occhi soi una sola rubescenza de le antiche calce, et vestimenta.

[p. 150v modifica]
Filo. Non mi lasciarai anchora ò bestiol pessimo? ne t’aricordi quando ti trovai robare l’uva, che te guidai à la oliva, dove te virilmente battei? cosa che dee esserti grata, che ciò fu fatto à ciò che venisti amabile, e da bene. tu certamente sei ingrato. ma lasciami tu, et tu, nanti che corra qua mio figlio.

Co. Veramente di queste cose sarete ben puniti: ne troppo n’andarete à la lunga: à ciò che vediate, che cosa è il costume de gli huomini acuti d’animo, et de giusti, et di che guardano i nasturcij.
Bd. Bastona, bastona Santhia le Vespe fuor di casa.
San. Farò volentieri, et tu fà de’l fumo assai.
So. Non ve n’andate à le forche? non andate via? battilo con un pezzo di legno.
San. E tu abbruscia Eschine di Selartio. non doveremo iscaciarvi mai?
Co. Per Giove non si facilmente ne scaciarete, anchora che mangiaste i canti di Filocleo, e le sue compositioni.
Sem. Non è questa una tirannia manifesta à i poveri? anche nascostamente mi hai assaltato: se tu ò pessimo e superbo ne impedisci da le legi, le quali ha fatte la cità? ne havendo altra occasione, ne un parlar faceto vuoi signoregiar tu solo?
Bd. E meglio che sanza lite, et parole facciamo la pace.

[p. 151r modifica]
Co. Teco? ò nemico de’l popolo, et amator di monarchia, compagno di Brasida, che porti le fimbrie de le corone, e ti nutrisci la non raduta barba?

Bd. Per Giove vorrei piu presto esser assente da mio padre, che ogni dì à tanti mali contrastare.
Co. Non è alcun luogo, non è ne l’apio, ne anchora ne la ruta: havemo interposto queste parole à le balze: ma niente adesso senti di dolore, ma ben quando l’avocato l’interrogarà, et dimandarà i testimoni, e congiuratori.
Bd. Mai per li dei vi partirete di qui? ò pure à me è computato questo d’essere battuto ogni dì, e battere?
Co. Ne mai si partiremo, fin che gli resta niente de’l mio. ò infelice te, che sei venuto ne le nostre mani, e tirannia nostra.
Bd. Quanto ogni cosa è à voi tirannia, et congiuratori. Vi è sempre alcuno che accusa ò di puoco, ò d’assai. non ho io udito il nome di tirannia, in cinquant’anni, adesso è divenuta degna di molta sale: per il che è anchora il suo nome ne’l foro. se alcuno compra orsi, et che’l non vogli membradi, il venditore subito dice, costui si pensa comprare ne la tirannia: et se vuole alcun porro, cosa dolce ne l’Asie, quella che vende l’oglio ad un’altro dice, dimi dimanditu un porro? ne la tirannia? ò pensitu che Atene debia darti cose dolci?

[p. 151v modifica]
San. Et una meretrice heri, ch’io veniva da mezzo dì, perche gli disse di cavalcare, mi rispose accoraciatasi, se mi haveva statuito la tirannia de Hippia.

Bd. Queste cose à costoro sono dolci d’ascoltare, et io voglio liberare mio padre da queste misere, disgratiate usanze, et che egli viva generosamente, io si come Morico ho la causa di far ciò, d’essere congiuratore, e pensare la tirannia.
Filo. Giustamente per dio. io non piglierei latte di galina per la vita, de la quale tu mi privi. io non mi
alegro de Bati, ò d’anguille, ma piu dolcemente mangiarei un giudicietto cotto ne la olla.
Bd. Per Giove, sei solito à dilettarti anche di cotal cose, ma se tacendo tolerarai, et intenderai il parer mio, penso di farti toccar con mano, che in ogni cosa tu falli e pecchi.
Filo. Ch’io pecco giudicando?
Bd. Non senti se sei bertegiato da gli huomini, i quali tu adori quasi, ma servandogli, ciò ti nascondono.
Filo. Non mi dire à me di servitu, il quale signoregio à tutti.
Bd. Non vuoi tu? gli servi pensando di commandargli. però dimi ò padre, che honore hai tu che galdi la Grecia?
Filo. Bene, il voglio concederlo à loro.
Bd. Anchora io. lasciatelo tutti, et date à me la spada, che se io sarò vinto ne’l dir, morirò con questa spada. dimi che cosi non starai à dieta?
Filo. Mai beverò la mercede de la buona fortuna.

[p. 152r modifica]
Co. Bisogna che costui dica qualche cosa nuova de’l nostro gimnasio, à ciò che appari d’esservi.

Bd. Che mi portà quà una cista presto?
Co. Tu parerai quello che serai, se non vorrai dire contra questo giovane, imperò che tu vedi che hai gran battaglia: et d’ogni cosa (e ciò non accadi) costui vuol vincere.
Bd. Di quello che dirai semplicemente, ne scriverò io et farò un memoriale.
Filo. Che cosa dicete voi, se costui mi vincerà ne’l disputare?
Bd. Non piu é utile la moltitudine d’i vecchi, ne pur un poco, però che se siamo ingiuriati portando li rami per tutte le vie, onde siamo chiamati, cortici de congiurationi. hor ciascuno, che vuoi contradire à la domination nostra, confidandoti, dimandane ad ogn’uno.

[p. 152v modifica]
Filo. E subito da li prigioni ti mostrerò che la domination nostra non è minore di nessun’altra. che cosa è più fortunata, ò beata de’l giudice? ò animale piu delicato, ò piu vehemente, massime sendo vecchio? il quale subito da’l letto ne i tavolati l’osservano gli huomini grandi, et di quatro brazzi. et quando io vengo, mi isporge la ternera mano, robatrice de le cose publice. et mi pregano con instantia, gementi con voce miserabile: habi misericordia di me ò padre, prego ti se mai anchora tu robasti pur qualche cosa, ò signore de la dominatione, ò che à l’essercito compri i compagni, che non mi vedrai piu vivo già mai, se non

per questo primo refugio.
Bd. Questo mi sia un memoriale de sti deprecanti.
Filo. Poi entrato son ripregato, havendo lasciata la ira dentro, et di quello ch’io dico non havendo fatto niente: ma io odo tutte le voci, de chi vengono a’l resugio. hor ch’io vega un poco che cosa non è, à udire la adulatione che fassi a’l giudice? costoro piangono la povertà propria, et vi agiongono mali sopra mali, fin che s’hann ugualato à qualch’uno de mei. Quelli altri ne contano qualche favole, altri qualche ridicola cosa d’Esopo: altri dicono astutie, à ciò ch’io rida, e metti giu l’ira: et se da loro non siamo persuasi ne fanno venire inanti i figliuoli nostri, e le donne, e cosi udimo, et quelle inchinatesi di compagnia ne
adorano. il padre per essi tremendo pregami come dio di liberarli da’l giudicio: dicendo: Se ti alegri per la voce d’un’agnello, habi compassione de’l fanciullo che ti prega: se de li porchetti, mi alegro che sij persuaso con la voce de la figlia. et noi à l’hora rilassamo il piciol seno de la colera. questa dunque non è grade dominatione? un bertegiar di ricchezze?
Bd. Secundariamente iscriverò, il bertegio de le ricchezze, et ricordati di quelli beni che hai, dicendo che hai la dominatione de la Grecia.

[p. 153r modifica]
Filo. E dunque lecito vedere le vergognose parti de gli comprobati giovani. Et se Eagro fugendo entra à me, non se ne và via, fin che non mi ha contato la fauola di Niobe. et se’l precone haverà vento la causa, i suoi doni vengono à noi. Et ei significa suonando la piva che ha la pelle, il riuscire d’i giudici, et se alcun padre morendo lascia che si dia sua figlia herede per moglie ad alcuno, ne lascia à noi che piangemo e tramosi via e che diciamo, co’l testamento, et l’operculo et bolli ben ornati: havemo dato costei à quello che pregato ne hà et persuaso, e ciò facemo incolpabili. non è di queste cose nessuna dominatione.

B. Laudo io questo tuo ornamento, che hai detto: ma poi fai ingiuria à costui impedendogli il testamento.

[p. 153v modifica]
Filo. Anchora quando il concilio et il popolo dubita giudicare qualche grande cosa, si giudica che si diano li rei à i giudici. ma Evathlo, et questo grande Colaconimo, dicono che non gli diamo senza forza, perche pugniamo circa à la moltitudine. et nessuno hà mai vento la sententia ne’l popolo, se no hà detto di lasciare i giudicij, prima giudicandone una. Et esso Cleone distruttore, noi soli non mangia, ma ne serva tenendone per le mani, et ne iscaccia le mosche, et tu non hai mai fatto ver tuo padre niente di ciò. ma Theoro ben che’l non sia minor di Eufemio, pigiando la spongia da un catino ne fà nette le scarpe. ma cosidera di mostrarmi da gli huomini da bene, i quali tu sari di fuora, et impedisci, che servitù hai detto essere, et la ministratione.

B. T’empirai et pascerai dicendo: è necessario però che tu cessi: ma serai dimostrato un eccellente buco di secchiaro da la denomination tua honestissima.

[p. 154r modifica]
Filo. Questo è il suavissimo de ogni cosa (che io mi haveva dimenticato) quando io vò à casa con la mercede in mano, tutti insieme venendo mi salutano per l’argento. et primamente mia figlia mi lava et inunge i piedi, et inchinatasi me li bacia, et s’ella me lo dimanda gli do subito un triobolo: et la moglie lusingando mi porta una schizzata grassa, et poi sedendo presso di me, mi constringe, mangia questo, mangia quest’altro. di tal cose io m’alegro. ella non temerà ch’io guardi à te, o a’l custode, ò a’l famiglio, quando parecchierà da decenare, maledicendo, immormorando, che non presto me ne macini un’altra. hò io posseduto tal cose in defension d’i mali, in fugace apparechiamento di saette. et se mi metti tu da bevere, cregio ch’io debia bevere un boccale pien di vino, poi mi getto giu. et quest’altro inhiando, ammorbando la tua taccia, soldatescamente tirava corezze. Non signoregio io gran dominatione? niente son io minor di Giove? il quale odo questo, che anchor Giove. et se noi facemo tumulto ne’l foro, dice ogniuno de quelli che s’abbattono à venire, ò come tuona il giudicial foro: ò Giove Rè. et s’io mando saetta, mi sibilano dietro e i ricchi e le persone molto honeste, et tu massimamente mi temi, per Cerere mi temi, io possa morire se hò paura di tè.

Co. Mai udissimo parlar sì puramente, ne sì saviamente.
Filo. Non, ma si pensava sì facilmente vendicare le calunnie, ben hà conosciuto, ch’io cosi, son fortissimo.
Co. Grandemente trascorre ogni cosa, et niente preterisse. però io mi accresceva ascoltando, e parevami giudicare ne le isole de Beati, tanto son alegrato udendolo.
Filo. Il perche costui isbadacchia, et non è in cervello. certamente hogg’io ti farò vedere il corame e le scoregiate.
Co. Bisogna che nel refugio rivolgi le mani, impero che è cosa difficile mitigare questa ira mia non dicendovi nulla. apresso dei ricercare una buona muola, et di nuovo aguccia, se non dici qualche
cosa, ch’el mio furor ritenga.
Bdel. Veramente è cosa difficile et di grave sententia, et di magiore che ne Tragici, sanare un male antico nato ne la cità. ò padre nostro Saturnio.

[p. 154v modifica]
Filo. Piu non mi chiamar padre se non mi darai intendere prestamente in che modo io servo, non è altramente che tu non muori: quantunque bisognarebe ch’io mi astenesi da le mei viscere.

B. Odi ò patercino aprendo un poco quella tua fronte. prima dei computare con suffragij non vili, aquistandoti cumulatamente il tributo da la man de la cità. che fuora elegerò le spese di cotesto. et molti centenari, magistrati, metalli giudiciali, porti, mercedi, litorij, la somma de tutto ne vien à noi presso à doi mille talenti. poscia metti da canto la mercede de sei mille giudici de un’anno, (et non piu sete ne la cità) che vengono essere à noi cento e cinquanta talenti.
Filo. Ne anchora hai fatto la decima entrata che ne vien à noi.
B. Non per Giove? poi le altre cose dove se volgeno?
Filo. In questi, i quali: ma non ti dò il tumulto Atheniese, ch’io contenderò sempre circa la moltitudine.

[p. 155r modifica]
B. Vuoi tu ò padre signoregiarli loro, ingannandoti con queste tue parolette? à loro sono donati cinquanta talenti da le cità, minacciandoli tal cose et spaventandoli, Date il tributo, ò che tonando volgerò sotto sopra la cita vostra. e tu ami il signoregiare se mangi vilmente? et questi aiutatori poi che hanno sentuto questo tumulto, uno che mangia ne’l cethario, che niente divora, te istimano un calculo di Conno, à questi donano vasi, vino, vivande, formagio, miele, sesama, cosini, boccali, chlamidi, corone, monili, poculi, tazze, pluthigia. à te molte cose in terra, molte in mare travagliante non ti donano pur un capo d’aglio cotto, i toi sudditi.

Filo. Per Giove da Evcheride hò pur io te mando via tre capi. ma non demostrandomi questa servitude, tu mi attristi.
B. Non è grande servitu haver questi tutti in dominatione, et che elli ad altri siano lusingatori, à che portano la mercede? et se alcuno ti da tre oboli, sei contento, i quali tu impellendo et pugnando à piede et obsidiando, et molto affatticandoti gli acquisti. poi sendoti comandato vai ne’l foro (qual cosa molto mi crucia) quando il giovanetto Cinedo figlio di Chereo, che passa di quà bravoso et delicato, ti dice che da mattina à hora de’l giudicare ti ritrovi là. ma se passa l’hora ogniuno che gli và non guadagna il suo triobolo. e tu gli porti l’advocativa drachma se bene alcuno vi è stato tardo, communicando con qualcuno d’i dominanti. ma se alcuno de quelli che fugono gli dona qualche cosa s’affrettano doi soli à chetar il tutto: poi à guisa di rasseca un tira, l’altro ritira. Hor tu vedi il governatore: et niente hai saputo di ciò, che s’è fatto.
Filo. Tal cose fanno à me? oime che dici? tu mi conturbi il cuore, et piu mi concilij la mente, et non so che mi fai.

[p. 155v modifica]
B. Considerarai dunque che sendoti lecito et à costoro arrichirsi, sei sempre involtato in quelli che ingannano ’l popolo. et non so in che modo. Tu che signoregi à molte cità de’l ponto fin à la Sardegna, non le galderai per altro, se non perche poco ne cavi. et te instillano lana per poco tuo adoperare si come anchor de la farina. Vogliono che sij povero, et però che tu muori, acioche conosci il governatore. poscia quando essolvi Sibila contra di qualche suo nemico movendosi, e facendo de gli atti, tu anchora rusticamente salti. se havessino voluto dar il vivere a’l popolo facilmente se saria dato. Sono mille cità, quali ne danno il tributo à noi. di questi s’havessino ordinato à una per una pascere vinti huomini, doi mila citadini viveriano con lepori, corone varie, latte, et latte cotto, pigliando cose degne de la terra, et da quello trofeo Maratonico. et tutti come colligendo olive andate con quelli che hanno la mercede.

Filo. Oime perche, come un gamfo, se isparsa una cosa ne la mia mano? non poss’io tenere la spata, ch’io son languido.

[p. 156r modifica]
B. Ma perche loro dubitano vi danno à voi la Eubea et vi promettono formento darvi per cinquanta sesterci, et mai ti detero se non gia poco inanti cinque sesterci. e ciò hai ricevuto, fugendo per li Xenij secondo che seria un semodio di orzo, per le quale ragioni io ti serava dentro, volendoti sempre pascere, et no volendo che te isbadacchino dietro questi bertegiatori. Hor apertamente ti voglio dare quello che vuoi, e che non vogli bere il latte de’l governatore.

Co. Certamente è savio colui che hà parlato. non giudicar inanti che odi le parole de lun’ et de l’altro. Tu dunque mi sei parso molto piu haver la vittoria, però rilassando l’ira, io metto giu li stimoli. ò compagno e coetaneo obedisce, obedisce à le parole nostre, e non sij pazzo, ne molto austero, ne huomo duro. Dio volesse che io havessi alcun governatore, ò parente che tal cose mi ammonisce. ma è manifesto che alcun de i Dei ti è presente, e ti da aiuto ne le cose tue, et egli ti fà bene: et tu presente sapilo pigliare.
B. Volontieri il nutrirò, dandogli ciascuna cosa che ad un vecchio si può dare, lecar il grano, la chlena molle, la pellizza, una sorella, che gli freghi la capella et i fianchi. egli tace, et niente grugnisse, non può patir ch’io vi sia presente.
Co. S’ha riconosciuto di quello, che faceva sendo infuriato: adesso conosce ben che: et si pensa che quello siagli un gran peccato, quale ei non faceva, tu commandandogli. credi che adesso egli persuadi a’l parlar tuo? ei certo conosce che vuol vivere per altro costume, poi che lo ha arrivato.
Filo. Oime.
B. Che gridi tu?

[p. 156v modifica]
Filo. Di tal cose non mi promettere niente. Quello amo, quello desidero, vò là dove il precon mi dice. chi non si leva con suffragio largo, chi và à li cadini di suffraganti l’ultimo de tutti? frettati anima mia, dove sei anima mia? vien quà per Hercole ombrosa che sei. Non piu io ne li giudicij troverò Cleone à robare.

B. Horsu caro padre per amore de li dij persuademi.
F. Che vuoi che te persuada?
B. Di quello che vuoi eccetto questo solo.
F. So ben di che cosa tu ragioni.
B. Di non giudicare.
F. Pluton discernerà questo nanti ch’io sia persuaso.
B. Tu dunque poi che t’alegri facendolo, non anderai piu là: ma vorrei che stesti quà, giudicasti i famigli.
Filo. Di che? che zancitu?
B. Di quello che qui si fà: perche la fante nascosamente ha aperta la porta, giudica questa sola pena di costei. imperoche et là sovente questo facevi. cio ragionevolmente, se’l Sole à buon’hora leva, à buon’hora ne starai a’l Sole: et se uno urini a’l fuogo sentato facendo l’inverno lo giudicherai, et se levi da mezzo dì, nessuno osservator de la lege da’l cancello ti scaccierà.
Filo. Questo mi piace.
B. Apresso, se alcun recita una lunga procura, non havendo fame l’aspettarai, mordendo te medesimo, et il respondente.

[p. 157r modifica]
Filo. A che modo io ben potro discernere, masticando le cose, come prima faceva?

B. Molto meglio: e per cio che i giudici, dicendogli il falso i testimonij, à pena hanno conosciuto la cosa anchor che rimastichino.
F. Effettualmente mi persuaderei: ma non mi dici anchora, che mi darà mercede?
B. Io.
Fil. Ben. imperò che Lisistrato conviciatore, et vilanegiatore meco turpissimamente s’è portato, pigliando con meco poco inanti una drachma, et venendo la divise in pesci, et mi diede à me tre scaglie de Cefali, et io mi inclinai, e pensavami che’l mi desse oboli: et poi ver lui odorandoli gli spudai, et gli trai dietro.
Bd. Esso lui che rispose à questo?
Fil. Che? ch’io haveva un ventro di gallo, dunque presto padirai l’argento, egli disse cosi?
Bd. Vedi quanto guadagno farai?
Fil. Non molto poco, ma fa ciò che ti piace.
Bd. Aspettami, ch’io venerò, et ti porterò queste cose.
Filo. Ecco, le parole in che modo sono fatte perfette. hai udito che gli Ateniesi alcuna volta giudicavano giustitie ne le case. et s’alcuno edificava ne gli antiporti, gli facevano un giudicietto, come l’Hecateo, denanti à le porte.

Bd. Hor, che piu dirai? che io ti dò ogni cosa che di-
[p. 157v modifica]
Bd.

Filo. Ciò savio et utile è ad un vecchio, manifestamente hai ritrovato un rimedio à la stranguria.
Bd. Et ecco il fuoco, ch’è à la lentecchia, se n’haverai bisogno sorbirne alquanto.
Filo. Anchor questo è atto, et accommodo. s’haverò la febre, haverò mercede da questo, imperò che sorberò la lentecchia.
Bd. Hor portatemi quà un’augello, à ciò che se dormi rispondendoti alcuno, questo di sopra cantando ti ecciti.
Filo. Questa sol cosa anchora io desidero, poi tutto mi piace.
Bd. Che?
Filo. Se in alcun modo mi porti il Teoro de Lico.
Bd. Egli è quà, et il patron anchora.
Filo. O messer barone, sei difficile da vedere, si come à noi appare Cleonimo.
Filo. Non ha dunque nanche il baron le arme.
Bd. Se presto tu sedessi, presto chiamarei il giudicio.
Filo. Chiamalo, che già un pezzo son sentato.
Bd. Hor, qual causa io primamente debo indure? che è quello di casa, ch’ha fatto qualche male? Trassa gia poco inanti abbrusciasti il lavezzo.

[p. 158r modifica]
Filo. Cheto, che per un pezzo mi hai perso. Vuoi chiamare il concilio senza cancello? chi è quello che primo de i sacri è apparso à noi?

Bd. Per Giove non vi è. ma io correndo subito il porterò fuora. che cosa vi è? quanto è grave l’amor de’l luogo.
Filo. Gettalo à i corvi, notrir un cane cosi fatto?
Bd. Che gli è?
Filo. Non è venuto Labe il cane ne’l forno? e pigliando la Siciliana forma di formagio ha divorata.
Bd. Bisogna dunque che io apporti primamente questa ingiuria à mio padre, et tu presente accusalo.
Filo. Per Giove non io, ma un’altro cane dice che l’accusera, se si puo vedere la scrittura, che alcuno la porti dentro.
Bd. Hor menali quà presto.
Filo. Cio far bisogna.
Fi. Che cosa vi è?
Filo. L’albio de porchi di casa.
Fi. Poi mi meni i sacrilegi?
Filo. Non, ma à ciò ch’io fracassi alcuno, comminciarò da la Vesta dea.
Fi. Guidami prest’alcuno, che mi pare volerlo punire.
Bd. Adesso porto le tavole, et le scritture.
Fi. Oime che tardarai, et il dì n’andarà via. io giudicava notar il luogo, ecco chiamalo presto.
Bd. Homai.
Fi. Ch’è il primo?

[p. 158v modifica]
Bd. Ai corvi. io mi doglio, che son mi dimenticato portar le vene.

Fi. Dove corri tu?
Bd. A le urne.
Fi. Non, ch’io haveva ben queste urne.
Bd. Ben dunque. ogni cosa havemo, de le quali havemo bisogno eccetto l’horologio.
Fi. Che dunque è questo? non è l’horologio?
Bd. Bene hai questa. e civilmente, ma prestissimamente alcuno mi porti di fuora il fuoco, et i mirti, et l’incenso. che primieramente faciamo sacrificij à li dei.
Co. Et noi ne li sacrificij, et supplicationi laudaremo voi, che generosamente di guerra, e contentione vi sete accordati.
Bd. La laude primamente vi è concessa.

[p. 159r modifica]
Co. O Febo Apollo Pithio, ordina fortunatamente le cose ch’ei considera. e datale nanti à la porta à tutti noi, come liberati, et cessanti da gli errori. ò sagittatore Pean. ò signor rè, vicino conduttore, piglia il sacrificio nuovo nanti à le porte de’l mio vestibulo, ò rè, il quale noi faciamo à questo padre. et fagli cessare il costume duro, molto aspero, meschiandoli per il mosto un poco de miele à l’animetta, et hormai che’l sia mansueto à gli huomini. et che habi misericordia di quelli che fugono, piu presto che à gli scrittori, che ricercano far lachrimare, hor cessatali la difficultà, da l’ira straciali l’urtica.

Co. Insieme ti pregamo, et cantamo i novi toni, a’l rispetto de superiori. siamo benevoli, poi che vedemo che’l popolo ti ama, meglio che altro da questi giovani.
Bd. Se qualche giudice entra ne la porta, come diranno, non li riceveremo.
Fi. Ch’è costui che fuge? come serà ei pigliato.
Tes. Hor udite, che scrittura ha scritto il cane accusatore che vuol distruere Labete Essonea, ch’egli solo ha divorato il formagio Siciliano: la punitione sua è un pistolese di fico.
Fi. Dunque gli venirà la morte canina, se’l piglio pur un tratto.
Bd. Labe è quì fugendo.
Fi. Sto scelerato. et in che modo, e ladrescamente guarda. come si pensa ch’io il voglia ingannare. et dove il cane accusatore che’l non perseguita?
Ca. Au, au.
Bd. E quì un’altro Labe, buon da baiare, et da lecar le olle.
Pre. Taci, sedi, et tu và su, et accusalo.
Fi. Hor, buttandola sottosopra, io la sorberò.
Tes. O giudici havete udito questa scrittura ch’io ho scritto di costui. la gravezza de le facende mi ha fatto me, et Rhippape. imperò che egli corso in un cantone ha mangiato molto formagio, et à l’oscuro molto bene s’è ripieno.

[p. 159v modifica]
Fi. Per Giove l’ho io per certo, questo disgratiato poco inanti ha vomitato il cattivo de’l formagio, et non mi volse far partecipe me ch’io gli ne dimandava, che vi potra far bene à voi, se alcuno non mi propone alcuna cosa à me, che son et io cane?

Tes. Niente ha partecipato ne con meco, che gli son famigliare.
Fi. L’huomo è caldo non manco, che la lentecchia.
Bd. Per li dei no’l rifutare ò padre, nanti che tu odi tutti doi.
Fi. O compagno la cosa è manifesta, essa da per se grida.
Tes. Non lo lasciare: come che’l sia huomo anchora per essere voracissimo di tutti i cani, il quale circumnavigando il mortaio à cerc’à cerco, mangia il sporco de’l formagio de le cità.
Fi. A me non è possibile, nanche fingere una lagena.
Ca. Apresso, punitelo (che una selva non puo notrire doi erithaci ucelli solitarij) à ciò che io non habia vanamente, ne mattamente gridato: se non, da quì indietro non griderò.
Fi. Oime, oime, quante scelerità egli arguisce. La facultà de l’honor se gli puo robare. non è vero ò Gallo? per Giove, mi fà cenno. Tesmotete. dov’è costui? che’l mi dia l’orinale.

[p. 160r modifica]
Tes. Piglialo. io ti do i testimoni di Labete, il cadino, il cocchiare, la casitera, la gradicella, il lavezzo, altri vasi abbrusciati, ma in fin quì tu pissarai, ne giu sedirai piu. io credo, che costui hoggi cascherà.

Bd. Non te cheterai ò molesto, et cattivo, massime à li fugienti, che strettamente gli pigli?
Fi. Vien su, risponde, di quello che hai taciuto.
Bd. Costui non poter isprimere il concetto suo?
Fi. No, ma mi pare che egli quello patisca, che alcuna volta fugendo ha patito Thucidide, che su le masselle di subito è stà percosso.
Bd. Damilo per li piedi, ch’io ti risponderò. è cosa difficile huomini che gli accusati rispondino sopra il cane. pur ti dirò. egli è buono, et iscacia i lupi.
Fi. Costui è ladro, e congiuratore.
Bd. Per Giove sì. ma è il migliore di tutti i cani, buono di guardare, e custodire molte pecore.
Fi. Che viltà è questa dunque, d’haver mangiato il formagio?
Bd. Che ei difende, et serva la tua porta, et in altro è ottimo. ma s’egli ha robato, perdonali. imperò che non sà citaregiare.
Fi. Et io vorrei nanche lettere, à ciò che non facendo male io non inscrivessi contra noi.
Tes. Odi ò felice li miei testimonij. vien su casitera, et dimi tu che sei stà gubernatrice, saviamente rispondimi, non hai tu diviso à i soldati, quello che hai havuto?

[p. 160v modifica]
Bd. Ella dice che ha diviso.

Fi. Sì per Giove, ma se mentisce.
Bd. O beato tu, habi compassion de i disgrati. Questo Labete mangia il collo, et le spine, et mai resta in quel medesimo. quest’altro, come è solamente guardiano, ivi standosene, di quello che alcuno porta dentro gli ne dimanda parte: et se nò, lo la morde.
Fi. Puo far dio, che male è questo, che mi fà molle? un certo male mi circuisse, onde io son pigliato, e persuaso.
Bd. Hor pregoti ò padre, habiateli compassione,et non l’ucidete. dove sono i fanciulli? venite su tristi. et baiando dimandate, pregate, et lacrimate.
Fi. Vien giu, vien giu, vien giu.
Bd. Venerò. et questo vien giu ha ingannato molti, pur venerò giu.
Fi. A i corvi, che non stà bene à sorbere, io adesso ho pianto la sentenza mia. mai piu. ma pien de lenti.
Bd. Dunque non è fugito?
Fi- E cosa difficile da sapere.
Bd. Hor patercino, vien ad effetto migliore, piglia questo calculo in ultimo vien zoppecando, et finiscela hormai ò padre.
Fi. Non certamente. io non so citaregiare.
Bd. Hor che io ti vengo à circundarti prestissimamente.
Fi. Questo è il primo.

[p. 161r modifica]
Bd. Questo?

Fi. Di quà, di quà.
Bd. S’è ingannato, et l’ha assolto non volendo.
Fi. Hor ch’io ti metterò in terra i calculi. in che modo havemo noi combatuto?
Bd. Pare che si dimostri. sei fugito ò Labe? padre, ò padre che hai havuto?
Fi. Oime dove l’aqua fresca?
B. Lievati, lievati tu medesimo.
F. Dimi, certo egli è fugito?
B. Sì per Giove.
F. Niente dunque io sono.
B. Non ti curar ò felice, ma lievati suso.
F. Come dunque conoscerò questa cosa io medesimo, assolvendo un huomo che fuge? che pena serà la mia? ò molto honorati dei perdonatemi, contra mia voglia ciò feci, et non à mio modo.
B. Lamentati meco, io certamente te nutrirò bene ò padre, sempre con meco venerai à cena, à pasto, a’l spettacolo, e cosi il resto del tempo dolcemente viverai, et non ti bertegiarà ingannandote Hiperbolo. hor entramo inanti.
F. Et questo adesso, se’l ti pare.
Co. Hor alegrandovi andate dove volete, et noi prestamente ò milliari innumerabili, schifate che in terra non caschi vanamente, quello che sete per benedire. questo accade à li spettatori ignoranti, et non è nostro proprio.

[p. 161v modifica] [p. 162r modifica]
Brigata avertite, se amate qualche cosa di puro. veggio ch’el poeta hà voglia di riprendere li spettatori, imperoche dice che gli è ingiuriato, prima havendoli ei fatto molto bene. et questo apertamente. ma nascosamente aiutando gli altri poeti, imitando ’l vaticinio et sentenza di Euricle, mandandoli ne gli altrui ventri dice che si deve buttar via molte comedie, poi periclitando di se istesso, moderando le bocche non de gli altri, ma de le proprie Muse. et sendo elevato egli è grande honorato, et dice che nessuno di voi mai perfettamente elevarà, ne inalzerà la scienza, ne circuendo le palestre circumlascivirà, ne s’alcun’amatore s’affretta andar à lui, ripreso sera, havendo in odio le cose puerili di se istesso, dice che ad alcuno mai è persuaso, che però habia scientia decente, ch’el mostrasse le Muse, che adoperiamo non essere ruffiane ò attrative. ne quando primamente cominciò ad insegnare, disse ch’ei voglij imponere à gli huomini. ma ben havendo una ira d’Hercole che volea far impeto à li grandi, con audacia stando da’l principio contra à Carcarodonte, à l’hora non splendevano i gravissimi raggi da gli occhij de le putane. cento adulatori piangendo li leccavan circa ’l capo, et haveva la voce di Charadra, pernitie d’una che parturisca, l’odore di Foca, testiculi non lavati di Lamia, e’l culo de cameli. vedendo tal monstro, non dice temendo di pigliar i doni, ma sopra de noi in fin quì combatte, et dice con esso essere constretto da li passati freddi et da le febri, che di notte suffocavano i padri, et strangolavano gli avoli, et gettati ne li nostri ociosi letti componevano congiurationi, avocationi, et testimonij à molti, che havevano paura à saltare adosso à Potemarco. Trovato un tale medico et liberator de mali, oppugnatore de la cità, l’anno passato ne lodeste, che semina nuove sententie, le quali voi havete fatto, che puramente non si possino conoscere. nulla di meno sacrificando molte cose ei giura Dionisio, mai haversi udite parole comice meglior di queste. Dunque questo n’è molto turpe, à non risaperlo subito. et questo Poeta niente esser pegiore è sta istimato. se pure iscacciando li nemici hà frustato la sentenza, ma ò felice il resto de li Poeti che cercano dire non so che di commune, et iscogitano su. Amate piu presto, et curate et salvate i loro consiglij, ponete le loro veste ne le casse con i pomi. et se facete questo per molti anni di desteritade si senterà.
[p. 162v modifica]
Co. O che gia fussimo galiardi ne i balli, et galiardi ne la pugna et secondo questo solo, huomini bellicosissimi, e queste cose furono per altro tempo. hor adesso si sono partite via, et siamo divenuti piu bianchi che un cigno. i capelli ve fioriscono, ma da le reliquie bisogna havere la fortezza giovenile di costoro. io istimo che la mia vecchiezza sia migliore, che i coccini de molti gioven et la forma sua, et il largo podice.

Co. Se alcuno de voi ò spettatori vedendo la natura mia, mi rimira ne’l megio stretto, e voglia sapere che openion nostra sia di questo mio accommodare: facilmente l’insegnarò quantunque prima fusse inelegante. Siamo noi, che larghi havemo i galoni, Attici, soli generosi iustamente, nasciuti quì, generatione generosa et virile: noi aiutamo questa cità ne le guerre, quando vien il Barbaro abbrugiando ogni cità et arrostendola, pronto per torne i favi del miele sforzatamente. Noi subito correndo con la lancia, et con il scuto combattevamo con quelli, gia bevuto un’acetoso animo: ogni huomo con l’altro corraciatamente si mordeva il labro. però ne le sagittationi, non era possibile vedere il cielo. non di meno li scacciassimo aiutandone li Dij fin à la sera, et una civetta volò per l’essercito nostro. poi seguitassimo battendoli dietro su le brache, et essi loro fugirono feriti ne le masselle et ne i cegni de gli occhi. però da li Barbari in ogni luogo (et servasi adesso anchora) niuna cosa si chiama piu virile de la Attica vespa.

[p. 163r modifica]
Co. Non era io grave et bizzaro à non temere à l’hora niente, ch’io voltava sotto sopra li nemici navigando con le triremi? Veramente à noi non era cura dire bene d’alcuno ò calunniarlo, ma colui che ottimamente remigava. Dunque pigliando molte cità de li Medi meritamente portavamo il tributo à casa, il quale robano adesso li giovani.

Co. Se ben volemo considerare trovarete che di costume et di vita à le vespe siamo simigliantissimi. ne altro animale accorcciato è piu acuto d’animo, ne piu molesto. però cosi le cose simili à le vespe iscogitiamo, che colligemo noi la moltitudine, come i favi. Questi nostri dovè ’l prence, quelli altri presso gli undeci, altri giudicano ne’l theatro, altri congregati à le mura acerbamente acennando in terra, à pena mosti ne li forami. et in altra vita poi siamo deditissimi. Ogni huomo volemo stimulare, et gli diamo il vivere. ma veramente havemo de le vespe à torno, che non hanno il stimolo e quelle instandone, et non faticandosi ne mangiano il tributo nostro. questo n’è gravissimo dolore, se alcun de voi non essendo soldato porti fuora la mercede nostra sopra questa cità, ne remo, ne bosco, ne un callo pigliandone: ma mi pare nel’avenire, che i citadini totalmente, che non han il stimolo, non haveran un triobolo.
F. Mai vivendo spoglierò costui, il quale solo mi hà salvato combattendo, quando quel grande Bora fece l’essercito.
B. Tu mi pari non voler patire ben nessuno.

[p. 163v modifica]
F. Per Giove, nanche mi è utile. et in prima ripieno di bragie diedi, dovendo anchora, un triobolo a’l stuaro.

B. Hor sia fatta la sperienza, perche un tratto te desti tra le mie mani, che io te regessi, et ti facessi bene.
F. Dunque che vuoi che faccia?
B. Lascia la tribona, et piglia questa chlena, e la porterai in modo de tribona.
F. Generar e notrir figli, se costui mi vuole soffocare?
B. Tien, pigliala, et non dirai nulla.
F. Che male è questo per tutti li Dij?
B. Alcuni lo domanda Persida, altri Caunace.
F. Io mi pensava che la pellizza fusse la Thimetida.
B. E non è maraviglia, che non sei andato in Sardegna, imperoche tu conosceressi, ma non conosci.
F. Io non per Giove, ma mi pare esser simile a’l sagmate di Moricho.
B. Non: ma se tessono queste ne li Ecbatani.
F. Ne li Ecbatani se fa lana da tessere?
B. Onde huomo da bene. ma se tesse da Barbari con grande spesa. queste lane hanno inghiottito molti talenti.
F. Dunque bisognava piu presto dimandar la disfatione di lane, che caunace.
B. Tientila, vestite.
F. Povero me, questa sordida e puzzolente mi farà gran caldo.
B. Non la vuoi tu?

[p. 164r modifica]
F. Non per Giove, se’l fusse bisogno, mi butterei à torno un forno.

B. Hor se vuoi ch’io ti vesta vien dunque.
F. Mette pur giu la muoia.
B. Perche? che cosa hormai?
F. A cioche mi dispoglij, nanti ch’io crepi.
B. Hor cavati le maledette vesti, affrettati e vestiti questa Laconica.
F. Ch’io tolerarò mai essere vestito di veste nemiche, da nemichi huomini?
B. Mettila su. quando? ò amico vien virilmente e presto à la Laconica.
F. Tu mi ingiurij, facendomi mettere il piede ne la nemichanza.
B. Mettili l’altro.
F. A niun modo questo le meterò, imperoche gli hò un deto che molto hà in odio li Laconi.
B. Non però oltra questo vi è altro.
F. Infelice me, il quale non hò qualche sgomfiamento ò pedane ne la vecchiezza mia.
B. Frettati homai da vestirti: poi andando cosi con tal ricchezze e pompe delicatamente Laconigerai.
F. Ecco vedimi, et considerami bene, à qual riccho son piu simigliante nel’andare.
B. A cui? à Dothiene circundato d’aglio.
F. Et per Dio, meno ben io il segio?
B. Hor deliberati di ragionar castamente, sendoti in presentia d’huomini molto savij e prudenti.

[p. 164v modifica]
F. Io bene.

B. Hor che dirai?
F. Ragionerò un pezzo. primamente in che modo Lamia pigliata tirò corezze, poi come Cardopione sua madre.
B. Non favole di gratia, ma cose humane, come anchora per casa diciamo.
F. So io dunque di queste cose di casa. in che modo colui è sorzo, alcuna volta è gatta.
B. O grosso, rude, ignorante, Theogene dicelo à Coprologo. et tu ingiuriato, vuoi dire sorzi, gatte à gli huomini?
F. Che parlare? che bisogna dunque dire?
B. Parole gravi, come quando vedevi Androcle e Clisthene.
F. Et io mai vidi ciò se non in Paro, portando doi oboli.
B. Ma vorrei che dicesti, in che modo combattè Eufadione fortemente con Asconda gia essendo vecchio et canuto. havendo però un gravissimo lato, et mani, et fianchi, et un’ottima coracina.
F. Cessa cessa, che niente dici, in che modo havria essolui combattuto fortemente havendo la coracina?
B. Cosi narrano i savij huomini. hor dimi, bevendo con i toi amici, quale opera de le toi virilissime che facesti ne la gioventù, pensitu dire?
F. Quella, quella virilissima, quando robava io i pali à Ergasione.

[p. 165r modifica]
B. Tu mi fai morire. quanti pali? in che modo hai tu mai iscaciato un capro, una lepore? ò sei corso per combattere, trovando alcuna cosa giovanilissima.

F. So io questa cosa giovanilissima, quando era giovanetto che pigliai Failo cursore, e lo cacciai via con doi ballotte vituperandolo.
Bd. Cessa hormai. ma sendo cosi delicatamente vestito inchinati, et voglij pur essere buon combibitore, et chiavatore.
F. In che modo m’inchino, dimi presto.
Bd. Ben figuratamente.
F. Cosi vuoi che m’inchini?
Bd. No.
F. In che guisa?
Bd. Stende i ginocchij, et sendo nudo ungeti te medesimo ne’l letto, poi lauderai qualche scutella. guarda il tetto, guarda meravigliosamente il risuono de la tromba. l’aqua à le mani, parecchiate son le
tavole, ceniamo, siamo lavati, hor sacrifichiamo.
F. Per li dei, siamo per mangiare un’insogno.
Bd. Il trombetta ha suonato: questi sono li combibitori Teoro, Eschine, Fano, Cleone, poi l’altro amico di sopra, Acestero. Sendo seco, come ben udirai il canto?
F. E’l vero. che nessuno de li Diacrij lo udirà.

[p. 165v modifica]
Bd. Io gli assomigliarò, et io sò gia Cleone. io canto il primo d’Armodio, e tu udirai. mai è stà huomo Ateniese.

F. Non cosit mal ladro.
Bd. Questo farai assai gridando? egli dice d’amazzarlo, rovinarlo, et da questo luogo iscaciarlo.
F. Io, s’egli minaccia, per Giove ne canterò un’altra.
Co. Huomo con gran potenza furioso, pazzo, volterai sottosopra questa cità, la quale molto è fortificata. ch’e poi quando Teoro canti, giacendone nanti à li piedi, la favola di Admeto, pigliando Cleone per la mano: ò amico impara amar gli huomini da bene: che canto risponderai à questo?
Fi. Son’io rispettoso. non voglio disprezzare, ne ad ambidoi esservi amico.
Bd. Dopoi costui quell’Eschine di Sello huomo sapiente e musico, udirà un poco, poi si metterà à cantare la facultà, la forza di Clitagora, et ciò che avenne à me con i Tessagliani.
Fi. Tu, et io molto bene s’havemo portati.
Bd. Tu convenientemente lo sai. A ciò che andiamo à la cena di Filoctemone regazzo, regazzo, Chrisa, mett’à l’ordine la cena, che per un pezzo si ebriachiamo.
Fi. In nessun modo è cosa cattiva à bevere, imperò che il vino fà battere à le porte, isquassare, et buttarle giu, poi dar l’argento quando s’ha crapulato, e divorato.

[p. 166r modifica]
Bd. No se sei stato con gli huomini da bene, et honesti. ò che hanno commosto il patiente, ò che tu hai detto qualche parola civile, ò favola Esopica, ridicola, ò Sibaritica, la quale hai imparato ne’l convivio, poi in ridere l’hai voltata: però lasciandoti, se ne và via.

Fi. Bisogna dunque imparare molti belli parlari, veramente niente ti renderò, se io facio qualche male. hor andiamo, che niente ne impedisca.

Spesse volte mi son parso essere savio, ne mai grosso. ma quello Aminia di Sello piu presto è di quelli da’l Crobilo, ò Coregia, che io ’l vidi per un pomo cotogno cenar con Leogoro. ò quanto è morto di fame Antifone. qual per legato andato ne la Farsalia, praticava con i soli poveri Tessaliani, sendo egli il minimo de tutti i poveri.
O beato Automene, molto chiamiamoti beato, ch’hai generato figlij artificiosissimi con le proprie mani. il primo è amico à tutti huomo sapientissimo, eccellentissimo con la sua cithara, il quale la Grecia ha seguito: et questo simulatore: un’altro, difficile, e molto sapiente. poi Arifrade in vero molto piu sapientissimo, il quale per il passato il padre giura che da nessun’havea imparato, ma da la sola natura spontaneamente, formar la lingua, andare à le meretrici.
[p. 166v modifica]
Sono alcuni che dicevano, ch’io feci la pace: quando Cleone mi turbava instigandomi, et con brutissime parole mi pungeva: poi quando fui battuto, gli spettatori mi ridevano dietro, ch’io gridava. pur non mi curo niente, quanto solamente de la cavillatione, se pur sendo stà oppresso la iscatio poi. riguardando à questo, ho io lusingato alquanto, poi il palo ha ingannato la vigna.
Tes. O testudini beate de la pelle vostra, tre volte beate s’ella mi fusse à torno: molto bene sete coperte, e saputamente de’l copertume, che vi copre le coste. io son morto sendo stimulato da’l bastone.

Co. Che vi è ò servo? è ben giusta cosa, che un servo che sia battuto, chiami alcuno, quantunque sia vecchio.

[p. 167r modifica]
Tes. Il vecchio non è stato male nocentissimo, et molto ebriacassimo de li compagni? Certo gli era Ippilo, Antifone, Licone, Lisistrato, Teofrasto, Frinico: de i quali egli era lo ingiuriosissimo. imperò che subito che fu pieno di molte, et buone cose, mutatosi, saltava, e pettegiava, bertegiava, regiava, come un’asinello, che mangia l’orzo, et giovenilmente mi batteva, regazzo, regazzo chiamandomi. e poi che Lisistrato il vede, pigliò il suo costume. sei simile ò vecchio à le nuove ricchezze, à la sezza, et a’l giudice che fuge ne le stalle de la paglia. et costui rispondendoli lo rassimigliò à Pernope, et à Stenebo che fà vasi a’l torno, et gli applaudetero, eccetto il solo Theofrasto, che molto il bertegiava. Et il vecchio dimandò à Theofrasto, dimi, di che hai superbia? et simuli d’essere superbo? sempre riprendendo li benefattori. in parte l’ingiuriava circa tal cose cavillandoli rusticamente, et dicendo ignorantissimamente niente à proposito, poscia quando fu ebriaco, venne à casa, battendo tutti, che gli venivan incontra. et egli fallando venne à me, ma eranmi da longi le sue percossioni.

Fi. Lievati. vien quà. alcuno di costoro che vi seguono vuol piangere. qualmente ò villani se non vi partite, vi arrostirò, et abbruscierò con questa lampada?
Bd. Certamente noi doman ti faremo patir la pena, se fosti ben anche giovenissimo, che noi datisi l’acordo, ti chiamaremo bene.

[p. 167v modifica]
Fi. Oime, oime, chiamarete. sapete pur i secreti vostri antichi, che io udendo non posso tolerare giustitie, oime, oime, ciò mi piace. A le forche nanche si partono. se ne và via il giudice. vien su adorato ucelli. pigliano in mano questa corda. tiene, et servala bene, e se anchor fusse marcida: non di meno che la sia frusta, non s’atrista. la vedi. io molto prudentemente ti ho pigliato che sei per fare Lesbizare i compotatori, per causa de quali rende il cambio à questo testicolo. ma non lo renderai, ne l’estenderai che ’l sò certo, ma tu t’ingannerai, et inhiarai à costui grandissimamente, imperò che à molti io farò la facenda, ma se non deventi una mala donna, io poi che mio figliuolo serà morto liberandoti t’haverò per compagno ò Connicello. et io adesso non tengo le mie cose, ch’io son giovane, et grandemente son’osservato. Questo mio figlio mi osserva, è fastidioso, et altrimente avaro, dunque di me hà paura, che io non mi corrompa, però che non ha nesun padre se non me, il quale pare che ne voglij correre à dosso à te, e me, ma prestamente fermati. hor piglia queste facelle, che io il voglio bertegiare giovenilmente, si come esso lui fà di me in questi misterij.

Bd. O superbo tu, e feminella: pare che tu desideri un bello monumento da sotterarti. non mi rifuterai
per Apolline anchor che faci questo.
Fi. Molto dolcemente piglierai la pena acetosa.
Bd. Non riprendi gravemente un trombetta ladro de li compotatori?
Fi. Qual trombetta? che baij tu, come iscapuciando?
Bd. Per Giove, dove hai questa tua Dardane.
Fi. Non. ma ne’l foro una lampada è abbrusciata à li dei.
Bd. Lampade è questa?
Fi. Lampade certo. non la veditu ornata?
Bd. Che cosa è questo negro ne’l mezzo?
Fi. Pissa hormai abbrusciata se ne viene.
Bd. Questo di dietro? non egli è il culo?
Fi. Dunque è questo un ramo di Lampade.

[p. 168r modifica]
Bd. Che dici tu? qual ramo? non sei quì tu?

Fi. Oime, oime, che vuoi fare?
Bd. Menarla pigliatala, et strassinar te, pensando che sei marcido, et che niente puoi fare.
Fi. Hor odimi, quando io andava à vedere le Olimpiadi, Efudione valentemente combatte sendo vecchio con Asconda. il vecchio battendo il giovane con il cesto gettollo per terra. apresso guardati, ch’io non ti dia su’l muso.
Bd. Per Giove ti hai dimenticato l’Olimpia, vien di gratia, vien ti prego per li dei.
Donna che vende il pane.   Costui è quello che mi ha morta. battendomi con la facella mi ha gettato via pani per diece oboli, et di trippe quatro.
Bd. Vedi tu che cosa hai fatto anchora? bisogna che porti la pena per il tuo vino.
Fi. A nessun modo, imperò che il parlare prudente placa le cose tutte, et i travaglij però sò io che cosi mi conciliarò.
Don. Non per Giove raffiuterai, ò vituperarai Mirtia figlia de Angilion, et di Sostrata, si corrumpendo i mei carichi.
Fi. Odi ò donna, ti voglio parlare piacevolmente.
Don. Per Giove non farai ò infelice.

[p. 168v modifica]
F. Venendo Esopo da cena, di sera, una cagna confidatasi, et ebriaca gli baia dietro, et esso lui gli dice ò cagna, ò cagna. per Giove, per la tua mala lingua se da altri comprasti pane, tu mi pareresti piu modesta.

Don. E tu me bertegi? io ti fo citare, sia pur qual ti sei, à gli edili per i nocumenti de carichi, havendo per giudice questo Cherefonte.
Fi. Odi per dio, se vuoi ch’io ti dica una parola. Laso per il contrario insegnò et Simonide. Poi disse Laso poco ne ho io cura.
Bd. E vero. ò Cherefone anchor tu sei chiamato da la donna, che è simile à la pallida Inone attacata à li piedi d’Euripide.
Tes. Questo altro come mi pare è venuto per chiamarti, havendo lo accusatore.
Ev. Povero me. vecchio ti chiamo per ingiuria fatta.
Bd. Per ingiuria? non, non lo chiamerai. per li dei. io per esso patisco la pena, la quale se la commanderai, gli precederà anchora il favore.
Fi. Io certamente mi conciliarò con lui, che io confesso apertamente d’haverlo battuto, et percosso. hor vien qui: mi concedi tu che rendendogli l’argento gli possa essere amico per l’avenire? hor me lo dirai tu?
Acc. Dillo tu. imperò che non ho io bisogno di pene, ò travaglij.
F. Un’huomo Sibarite è cascato giu d’una caretta, et si ha rotto il capo aspramente. egli non sapeva niente de’l cavalcare poi facendogli instanza un suo amico gli disse, ogn’un facia il suo mestiero. et tu cosi corri in quelli di Pittalo medico.

[p. 169r modifica]
Bd. Queste cose sono simili a’l resto de tuoi costumi.

Acc. Ricordati un poco che cosa egli ha risposto.
F. Hor odi, non fugere, che una donna ha rotto lo Echino vaso contra un Sibari.
Acc. Io di questo son testimonio.
F. L’echino dunque havendone alcuno, ha testificato: poi Sibarite disse. Per Proserpina se lasciando questo testimonio haverai compro un vinculo, ha vera piu integra la mente.
Acc. Fagli ingiuria, finche il principe chiama la pena.
B. Per Cerere, piu non starai qui, ma levandoti di peso ti porterò via.
F. Che fai?
B. Che faccio? te porto quì dentro, et se non presto, gli accusatori ritrovarano i convocati.
F. Esopo à Delfi per il passato
B. Poco ne hò io cura.
F. L’accusavano che haveva robata la fiala de’l Dio, esso lui li disse che fù Cantharo per il passato.
B. Oime che morirai con questi toi canthari.
Co. Chiamo il vecchio di fortuna essere beato, poi che hà lasciato gli asperi costumi e la vita. Certamente contra imparando altre cose, serà persuaso ne la delicata et molle. non però forsi vorrà. è un difficile partirsi da la natura, quella quale sempre uno mantegna. Nulla di meno molti hanno habuto questo, che accostandosi à le altrui openioni, hanno mutato i costumi.

[p. 169v modifica]
Il Figlio di Filocleonte havendo asseguito molta laude da me et da li sapienti per amore de la patria, et per la sapienza, se ne va via. non hò pratticato con huomo cosi mansueto, ne sono diuenuto matto, ne son andato giu. che cosa egli contradice, non ei s’è dimostrato megliore volendo ornare tutti i generanti di cose caste?
Ser. Per Dionisio qualche bona fortuna ne hà ridotto in casa le cose difficili da ritrovare. Questo vecchio poi che ha bevuto per un gran pezzo, et hà udito il cantare, sendosi gratificato niente cessa da saltare tutta la notte. egli dice voler mostrare quelle antichità, quando pugnava Thespis: et mostrare li Tragici vecchij esser matti e zancieri, e poi un pezzo vuol saltare.

F. Ch’è quello, che sede nanti à le porte de la sala?
Ser. Anchora questa disgratia ne vien dietro.
F. Le chiavature s’aprino.
Ser. Veramente il principio del portarsi, è stà gran principio d’insania, e di mattezza.
F. Il che di forza si move i fianchi, e come gli suona il naso et lo spinal risuona?
Ser. Beve pur l’elleboro.
F. Frinico teme, come un gallo.
Ser. Presto giacerai.
F. Battendo le gambe à l’aere, ei mostra il culo, isbadacchianteli.
Ser. Guardati te istesso.

[p. 170r modifica]
F. Adesso volgesi la laca dissolta ne le altre membra.

B. Non ben per Giove, non certamente. ma sono cose furiali.
F. Hor ch’io ’l ridico, et chiamomi contra li pugnatori, se alcun Tragico se avanta di saltar bene, venga quà à saltare. nessuno risponde ò no?
B. Quello solo.
F. Che è infelice?
B. Il figlio di Carcino, Mesato.
F. Costui serà divorato. il uoglio ammazzare co ’l suono del tasto, che ei niente è ne’l suonare.
B. O povero huomo, vien un’altro Carcinite Tragico suo fratello.
F. Per Giove l’ho io vento.
B. Per Giove niente altro, eccetto che Carcini, che adesso egli è arrivato un’altro di Carcino.
F. Ch’è quello che rampega? oxi, ò falange.
B. Questo picciolino è Pinnotere di stirpe: il quale compone Tragedia.
F. O Carcino beato de la figlianza buona, quanta moltitudine de gli ucelli orchili è caduta? ò misero bisogna andar giu à ritrovar quelli. spargeli la sale adosso, se io vinco.
Co. Horsu che se ritiramo tutti, à cio che ne conoschino taciti.

[p. 170v modifica]
Horsu ò figli marini di gran nome, fratelli de le noci, mettete il veloce piede nel cerchio, che se salti à l’arena, et à la riva de’l indomito mare, et il Frinicheo, et alcuno tiri calzi à cio che gli spettatori cantando, gli vedino di sopra le gambe.
Semico.   Volgeti, passa fuora il circulo, et percotteti co’l piede ne’l ventre, sbatte le gambe à l’aere, le versioni si sacciano il proprio padre Rè rampega ne’l ponto d’i Medi, alegratosi per questi tre soi figliuoli saltatori, hor guidatene fuora, se ne volete vedere à saltare e ballare, che veramente questo niun altro mai piu hà fatto, che saltando habia assolto il coro de Tragici.

Fin de le Vespe.


Altri progetti

Collabora a Wikipedia Wikipedia ha una voce di approfondimento su Le vespe