Lezioni sulla Divina Commedia/Primo Corso tenuto a Torino nel 1854/I. La vasta unità della Divina Commedia

Da Wikisource.
Primo Corso tenuto a Torino nel 1854 - I. La vasta unità della Divina Commedia

../../Primo Corso tenuto a Torino nel 1854 ../II. La forma della Divina Commedia IncludiIntestazione 22 agosto 2023 75% Da definire

Primo Corso tenuto a Torino nel 1854 Primo Corso tenuto a Torino nel 1854 - II. La forma della Divina Commedia
[p. 3 modifica]

Lezione I

LA VASTA UNITÁ DELLA DIVINA COMMEDIA


La Divina Commedia è la piú vasta unitá che niente umana abbia concetta, universo poetico con leggi ed ordini suoi proprii, tal che un chiarissimo filosofo tedesco faceva voti perché fosse istituita un’apposita cattedra intorno alla scienza dell’universo dantesco. Della cui grandezza segno mirabile è questo, che l’intelligenza umana è giá parecchi secoli che vi si travaglia intorno, né ancora lo possiede tutto: il cosmos dantesco non è finora rappresentato che per obliquo; noi ne vediamo questo o quel lato, l’intero ci sfugge.

In un qualsiasi lavoro geniale è sempre da distinguere la materia, parte sensibile che sta sulla superficie e che si può attingere con la nuda osservazione, e la forma che compone e vivifica, parte interiore, indocile alla riflessione ed all’analisi ed aperta solo al genio e al gusto: in questo, e non giá nella materia, è il sostanziale di un’opera d’arte. Ma sulla materia si gitta dapprima la critica avidamente e, tagliando e distinguendo col coltello anatomico, in luogo d’un corpo vivo, ti pone innanzi membra sparse ed inanimi. Il che è intervenuto della Divina Commedia: teologia, filosofia, morale, politica, storia, mitologia, questa immensa enciclopedia del medio evo se la son divisa gl’interpreti, ed affezionandosi ciascuno alla sua parte ha finito per iscambiarla col tutto. Il che non dico io giá per biasimo, ché i loro lavori corrispondono al [p. 4 modifica]Cammino che ha tenuto la critica ne’ tempi moderni, e declamare contro i comentatori di Dante gli è come incollerirsi contro la storia dell’umano pensiero. La nuova critica ha in questo progredito, che, indagando con diligenza i diversi elementi che entrano in un lavoro, si studia di non trasandarne alcuno; e però nella Divina Commedia essa comprende tutta quant’ella è ampia la sua materia ed assegna il debito luogo a’ suoi elementi costitutivi, antichitá e medio evo, teologia e filosofia, morale e politica. Gran conto fa questa critica della materia o de’ diversi elementi sociali onde la poesia è improntata, e fa di essi il proprio e il distintivo dell’arte, ch’ella divide secondo la materia in classica e romantica, e suddivide secondo il genio e i costumi delle diverse nazioni. Dev’ella parlare di Omero? E tosto investiga un ciclo omerico, e si affanna intorno agli elementi della societá greca, di cui l’Iliade e l’Odissea sono espressione. E se ella ragiona dell’Ariosto, non può fare a meno di tesserci la storia di tutt’i poemi cavallereschi e tradizioni e romanzi che l’hanno preceduto. Cosi parecchi critici sonosi messi a disseppellire le ignorate visioni che sono state innanzi alla Divina Commedia, e ne hanno formato una specie di ciclo dantesco, che noi brevemente discorreremo.

La poesia è prima azione, poi parola. Quando la fede era schietta e costava il martirio, la visione de’ santi, degli angioli, di Gesú, del paradiso rendeva sereno il volto de’ martiri nelle noie del carcere e nel dolore del supplizio. Il medesimo avveniva de’ frati: macerati dal digiuno, logorati dal cilizio, segregati da ogni realtá della vita, ne’ deserti e fra le tombe era unica loro aspirazione la morte e l’avvenire. Quando il cristianesimo ebbe vinto, si prese a narrare queste maravigliose visioni abbellite ancora dal tempo, e sorse la leggenda. I racconti sono brevi, di un’aurea semplicitá, di una ingenuitá puerile e piena di grazia, con tal candore ed unzione e fede che talora non sai distinguere se colui che scrive sia il veggente o il narratore. Ma quando la Chiesa si ebbe assunto l’ufficio di educare a civiltá i barbari, la visione entrò in un nuovo stadio, ed alle immagini radianti del paradiso succedono descrizioni [p. 5 modifica]paurose delle pene infernali, di cui si aiutano i predicatori per fare impressione sulle rozze fantasie degli uditori. In questo lavoro progressivo dell’immaginazione sull’inferno sorgono a gara le piú strane invenzioni: è il romanzesco, le Mille e una notte dell’altro mondo.

I tre monaci che si mettono in via per iscoprire il paradiso terrestre, dopo quaranta giorni di cammino, attraversano l’inferno:

E veggono un lago grandissimo pieno di serpenti che tutti pareano che gittassero fuoco, e odono voci uscire di quel lago e stridere, come di mirabili popoli che piagnessero e urlassero. E pervenuti che sono fra due monti altissimi, appare loro un uomo di statura in lunghezza bene di cento cubiti incatenato con quattro catene, e due delle quali erano confitte nell’un monte e l’altre due nell’altro. E tutto intorno a lui era fuoco, e gridava si fortemente che si udiva bene quaranta miglia da lungi. E vengono in un luogo molto profondo e orribile e scoglioso e aspro, nel quale vedono una femmina nuda, laidissima e scapigliata in volto e compresa tutta da un dragone grandissimo; e quando ella volea aprire la bocca per parlare o per gridare, quel dragone le mettea il capo in bocca e mordeale crudelmente la lingua; e i capelli di quella femmina erano grandi infino a terra.

Eccovi un racconto fantastico di questo genere, dettato con quell’efficacia ed evidenza di stile e con quel natio candore di lingua, che è pregio sommo del Cavalca. Procedendo di questo passo, a poco a poco dal crudele si va all’orribile, e poi al disgustoso e poi al grottesco: laghi di zolfo, valli fiammanti e ghiacciate, botti d’acqua bollente, rettili e vermi e dragoni da’ denti di fuoco, demòni armati di lance, di fruste, di martelli infocati, e qui un cadavere putrido e inverminito, lá scheletri tremanti sotto una pioggia di ghiaccio, e dannati affissi al suolo con tanti chiodi «che non pare la carne», o sospesi per le unghie in mezzo allo zolfo, o menati e rapiti da velocissime ruote di fuoco, che hanno vista di «cerchi rosseggiane», o infissi a spiedi giganteschi, che i demòni irrugiadano di metalli fusi. [p. 6 modifica]

A questo modo la fantasia sbrigliata perde ogni misura e si pone capo nel ridicolo. E, per esempio, nel Sogno di Raoul l’inferno si trasforma in un vasto refettorio, e le vivande sono arrosto di libertini, pasticcio di monache, lesso di ladroni e lingue di avvocati. Con questo fantastico si mescolano a mano a mano interessi terreni, e la visione è indiritta ad uno scopo politico: s’indovina che il narratore, parlando del cielo, ha l’occhio verso la terra.

Incmaro in una sua pastorale racconta la visione di un fedele della sua diocesi per nome Bernoldo. Il quale, rimasto alcun tempo fuori del sentimento, vide in un luogo tenebroso e putrido Carlo il Calvo divorato da’ vermi, sicché non gli restava piú che nervi ed ossa. Pregatolo il re che gli ponesse una pietra sotto il capo: «Va’ — gli disse — dall’arcivescovo Incmaro, e digli ch’io mi trovo qui per non aver seguito i suoi consigli. Ch’egli preghi per me, e sarò liberato». Cosi il terribile arcivescovo di Reims vendicavasi dantescamente del suo signore.

Non meno celebrata a quei tempi è la leggenda di Carlo il Grosso, il quale sente predirsi la sua abdicazione e la rovina della sua schiatta da suo zio Lotario. Parimente in un’altra visione i demòni pongono nella bilancia i vizii e le colpe di Carlomagno e si apparecchiano a trarlo in inferno, quando S. Dionigi gitta nel lato opposto tutte le pietre adoperate dall’Imperatore in fabbricar chiese e conventi, e la bilancia trabocca in suo favore: per quegli uomini tutto senso doveva sembrar naturale che le pietre pesassero piú de’ vizii.

In tutte queste visioni trovi spesso un facile immaginare e caldezza di affetto, e qui e cola tratti di vera poesia: l’altro mondo per lo scrittore è qualche cosa di serio, che gli move il core e gli scalda la fantasia. Ma a lungo andare, infievolitasi la fede ed esauste le forme fantastiche e discioltesi nel licenzioso e nello strano, la visione diviene un genere meramente letterario: i particolari non valgono piú che come simboli, e la rappresentazione non è piú che un’occasione per fare sfoggio di dottrina: genere allegorico-didascalico, di cui potrei recare ad esempio il Tesoretto di ser Brunetto Latini. [p. 7 modifica]

Cosi la materia dantesca è venuta a poco a poco elaborandosi ed integrando, e tutti quegli elementi che si notano nella Divina Commedia li abbiamo veduti venir su sparsamente nelle discorse visioni, si, tutti, quanto ivi è di fantastico, di religioso, di morale, di politico, di storico, di allegorico, di dottrinale.

Si è disputato gravemente onde Dante abbia tolto il suo argomento e questo o quel particolare, con quello stesso calore onde altri contendono chi debba dirsi inventore della polvere, della bussola, della stampa ecc., quasi l’invenzione avesse nell’arte quella stessa importanza che nelle cose meccaniche. Che monta sapere onde Shakespeare abbia cavato Giulietta e Romeo, onde tante loro mirabili favole l’Ariosto ed il Tasso? E qual lode scemate a Dante, quando mi avrete dimostrato ch’egli abbia avuto innanzi la tale e tale visione? Quando l’argomento non costituisce un genere letterario, di erudizione e d’imitazione, ma è un genere vivente, com’è la Divina Commedia, esso ha radice in un fatto sociale itosi a poco a poco snodando ed arricchendo. La materia perciò non è immaginata tutta dal poeta: egli la trova innanzi a sé come un dato, un presupposto, che è giá in questo o quello stato nella pittura, nella poesia, nella scienza, nelle credenze, nelle tradizioni. Cosi la guerra troiana, cosí le visioni dell’altro mondo.

Ma perché di tutto il ciclo omerico il solo Omero è rimasto vivo? Perché di tutte le visioni del medio evo la sola Divina Commedia è superstite? Né le altre sarebbero pur nominate, se non fosse stato lo zelo de’ cementatori e degli eruditi. Perché la materia non basta ella sola a difenderci dall’obblio, essendo ella non privilegio di alcuno, ma proprietá di tutt’i contemporanei, e non meno de’ mediocri che de’ sommi; né è giá questo e quell’elemento, né tutti presi insieme, in che è posta la preminenza di Dante, quello propriamente che lo distingue da ser Brunetto e da tanti volgari narratori, coi quali ha comune la materia. Perché la materia è quasi marmo intagliato e lineato variamente, in forme abbozzate e provvisorie, da diversi artefici, insino a che non prende la sua figura definitiva per opera del genio, che li fa obbliar tutti. Perché la materia è la pietra [p. 8 modifica]grezza, comune a tutti, che attende lo scarpello. Dante la trovò morta e la fece immortale.

Volete voi misurare la infinita distanza che è tra questi leggendarii e Dante? Io gli porrò a rincontro non un plebeo narratore, ma un grande uomo, un uomo di animo dantesco, Gregorio VII.

Arcidiacono ancora, predicando al cospetto di Niccolò II, narra Ildebrando di un conte ricco e, ciò che è proprio un miracolo — egli osserva — in quest’ordine di persone, onesto uomo insieme. Questo conte, morto dieci anni innanzi, fu visto, da un santo uomo ratto in ispirito, starsi al sommo di una scala lunghissima, che sorgeva inviolata in mezzo ad un vortice di fiamme ed andava a perdersi giú nel tenebroso caos dell’inferno. Su ciascuno scalino stava uno degli antenati del conte, con quest’ordine: che, quando alcuno moriva di quella famiglia, doveva occupare il primo gradino, e colui che innanzi vi giaceva e cosí tutti gli altri discendevano d’un passo verso l’abisso, dove tutti, l’uno appresso l’altro, si sarebbero riuniti. E chiedendo il santo uomo, maravigliato, la ragione di questa legge terribile e come fosse dannato il conte, che aveva lasciato in terra fama di tanta bontá, si udí una voce rispondere: — Per un territorio della chiesa di Metz, che uno de’ loro antenati, di cui il conte è l’erede in decimo grado, tolse al beato Stefano. — L’effetto che questo racconto produce sull’animo nostro nasce dalla natura stessa dell’invenzione, rimasta cruda e ruvida, ma contenente in sé un germe vivace di alta poesia. In luogo di quei castighi grossolani e materiali, a cui si abbandona la fantasia de’ suoi contemporanei, Ildebrando ci mostra l’inferno nel sublime di un lontano indeterminato, e lo pone costantemente dinanzi a’ suoi condannati, che a grado a grado vi si avvicinano infino a che non vi cadano entro: e cosí, come quel tiranno che voleva che le sue vittime sentissero di morire, il terribile prete vuole ch’ei sentano l’inferno e ne fa loro gustar l’amarezza a goccia a goccia. Verrá tempo che un laico a sua volta immaginerá anch’egli la sua scala, e v’imborserá i papi simoniaci l’uno sotto l’altro, e l’ultimo morto ve lo porrá capo in [p. 9 modifica]giú in aspettazione del suo successore, a cui vivo ancora anticiperá l’inferno

                                    .   .   .   . Se’ tu giá costi ritto,
Se’ tu giá costi ritto, Bonifazio?
               

I personaggi di Gregorio rimangono muti; il peccato non vien fuori nella sua intima natura; laddove tutt’i suoni che può rendere l’invenzione dantesca prorompono fuori, come una funebre musica, dalla poetica fantasia: amarezza comica, ironia, sarcasmo, indegnazione, che fin da’ primi versi traboccano dal profondo della coscienza. Può venir tempo forse in che si rida dell’una e dell’altra scala; dell’invenzione gregoriana non rimane nulla, ma del canto dantesco rimarrá l’evidenza delle immagini, la caldezza dell’affetto e le parole indirizzate a Niccolò III, perpetuamente serie, perché hanno radice nell’umana coscienza, che non muore mai.