Medea (Euripide - Romagnoli)/Esodo

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Esodo

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Euripide - Medea (431 a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1928)
Esodo
Quinto stasimo


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Giunge Giasone, in corsa affannosa.

giasone

Donne che presso a questa casa state,
forse dentro è Medea, che perpetrò
orridi scempi, e volse a fuga il piede?
Conviene che sotterra ella si asconda,
o che dell’ètra per gli abissi il corpo
innalzi a volo; o il fio pagar dei principi
alla reggia dovrà. Confida forse,
quando ella uccise della terra i principi
impunita fuggir da queste mura?
Ma non di lei mi do pensiero, quanto
dei figli miei: ché a lei, chi male n’ebbe,
male darà; ma dei miei figli vengo
la vita a tutelar: ché l’empia strage
della lor madre a vendicar sovr’essi
dei signori i parenti non risolvano.

coro

Fra che mali ti trovi ignori, o misero
Giasone; o tu cosí non parleresti.

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giasone

Che avvenne? Anche me, forse, uccider vuole?

coro

Spenti fûr dalla madre i figli tuoi!

giasone

Ahimè, che dici! Tu m’uccidi, o donna!

coro

Sappi che i figli tuoi piú non son vivi!

giasone

Dove li uccise? Nella casa, o fuori?

coro

La porta schiudi, e ne vedrai la strage.

giasone

I serrami allentate, o servi, prima
che sia, le spranghe liberate, ch’io
vegga il duplice male: i figli morti,
e la donna a cui morte infliggerò.

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Appare in aria Medea, su un carro tratto da draghi alati. Ai suoi fianchi, sono i cadaveri dei figli.

medea

A che mai questa porta scuoti e scalzi,
e i morti cerchi, e me che uccisi? Tregua
poni al travaglio; e se d’uopo hai di me,
di’ quel che vuoi. Ma non potrai toccarmi.
Il Sole, il padre di mio padre, un carro
mi die’ che me dagl’inimici salva.

giasone

Donna esecrata, piú d’ogni altra a me
e ai Numi infesta, e a tutti quanti gli uomini,
che cuore avesti di vibrar la spada
sui figli tuoi, che partoristi, e me
orbo di figli e misero rendesti,
e dopo ciò, dopo compiuta un’opera
piú d’ogni altra esecranda, e Sole e Terra
guardare ardisci? L’esterminio a te!
Or fatto ho senno: allor senno non ebbi,
che dalla casa e dalla patria barbara
tua, nella patria mia t’addussi, in Ellade,
o traditrice di tuo padre, e della
terra, che ti nutriva, o gran flagello.
I Numi contro me spinsero il Dèmone
che te punir dovea: ché il tuo germano1
al focolare presso ucciso avevi,
quando ascendesti il legno d’Argo bello.
Tale il principio fu. Poscia, a quest’uomo
fosti consorte, e generasti figli,
e sterminati li hai, per gelosia

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dell’amplesso e del letto. Oh, niuna tanto
osato avrebbe delle donne ellène
da me neglette, che te scelsi a sposa,
te mia nemica, te rovina mia,
leonessa e non donna, e ch’hai natura
selvaggia piú della tirrena Scilla.
Ma morderti che val con mille e mille
oltraggi? È troppa l’impudenza tua.
Alla malora va’, di turpitudini
operatrice, assassina dei figli!
A me non resta che gemer la sorte
mia: ché fruir delle novelle nozze
non potrò, non potrò parlare ai figli
che generai, nutrii, ma li ho perduti.

medea

Alle parole tue lunga risposta
rivolta avrei, se non sapesse Giove
ciò che avesti da me, ciò che mi desti.
Ma non dovevi tu, poi che il mio talamo
vituperasti, gaiamente vivere,
ridendoti di me, né la regina;
né quei che a nozze t’istigò, Creonte,
a scorno via da questo suol bandirmi.
Come or ti piace, leonessa o Scilla
del tirren piano abitatrice chiamami:
il tuo cuor lanïai, com’era giusto.

giasone

Te stessa strazi, e il male mio partecipi.

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medea

Il mio, purché non rida tu, si mitiga.

giasone

Figli, che trista madre aveste in sorte!

medea

Del padre il morbo vi distrugge, o figli.

giasone

No: dalla mano mia spenti non furono.

medea

M’erano oltraggio le tue nuove nozze.

giasone

L’offeso letto a uccidere ti spinse?

medea

Per una donna è poca doglia, immagini?

giasone

Sí, purché savia; e tu sei trista tutta.

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medea

Questi son morti; e ciò ti morde il cuore.

giasone

Duro castigo avrai dai loro spiriti.

medea

Chi fu la prima causa, i Numi sanno.

giasone

Sanno il cuor tuo, quant’è degno d’obbrobrio.

medea

Odiami: aborro la tua voce amara.

giasone
Ed io la tua; ma separarci è facile.

medea

Come? Che devo fare? Anch’io lo agogno.

giasone

Fa’ che i miei figli io seppellisca e lagrimi.

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medea

No certo: seppellirli io stessa intendo,
con le mie mani. Nel sacrario d’Era2,
Diva d’Ascrèa, li porterò, ché niuno
dei nemici l’insulti, e non profani
le tombe loro. E in questo suol di Sísifo3
sacre istituirò feste, e cortei,
per espiare questa orrida strage.
Alla terra mi reco io d’Erettèo4,
e con Egèo, figliuolo di Pandíone
abiterò: tu, com’è giusto, morte
farai da tristo, ché sei tristo: avranno
amaro fine le tue nuove nozze.

giasone

Dei fanciulli l’Erinni ti stermini,
e Giustizia, l’ultrice del sangue.

medea

E qual Genio, o spergiuro, t’udrà,
quale Iddio, traditore degli ospiti?

giasone

Ahi, ahi, turpe assassina dei figli!

medea

Entra: appresta alla sposa il sepolcro.

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giasone

Vado: orbato d’entrambi i miei figli.

medea

Nulla è or: piangerai piú da vecchio.

giasone

Figli cari...

medea

                    alla madre: a te no.

giasone

E perciò li uccidesti?

medea

                                        A crucciarti.

giasone

O me misero! Io voglio le labbra
dei carissimi figli baciare.

medea

Or li chiami, or soave a lor parli,
quando pria li scacciasti?

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giasone

                                   Oh, ch’io tocchi
le lor tenere membra concedi!

medea

Non sarà: sperdi invano i tuoi detti.

giasone

Odi, o Giove, quale empia repulsa,
quale torto mi fa, questa oscena
leonessa, dei figli assassina!
Pure, quanto m’è dato e possibile,
io li piango, e ai Celesti m’appello,
e i Dèmoni chiamo, che attestino
che, trafitti i figliuoli, mi nega
che a loro le mani
appressi, che a lor dia sepolcro.
Deh, mai non li avessi
generati, se uccisi vederli
dovevo da te!
II carro alato sparisce nell’aria.

coro

Molte cose in Olimpo sollecita
il Croníde; e i Celesti deludono
ben sovente ogni attesa. Molte opere
imperfette restaron, che al termine
parean giunte: parea che niun esito
altre avessero; e un Dio schiuse un tramite.

Note

  1. [p. 335 modifica]Il tuo germano. Absinto; cfr. p. 27, v. 23.
  2. [p. 335 modifica]Sacrario d’Era. È il tempio d’Era che, secondo lo scoliaste di Euripide e secondo Pausania, sorgeva su l’Acropoli di Corinto; altri intende il tempio d’Era che sorgeva sul promontorio che prendeva da esso il nome.
  3. [p. 335 modifica]Questo suol di Sisifo, perché, secondo la leggenda, in Corinto regnavano i discendenti di Sisifo; cfr. p. 39, v. 16.
  4. [p. 335 modifica]Alla terra d’Erettèo, ad Atene; cfr. p. 65. v. 1.